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Santa Settimana!

Da Gerusalemme a Smirne, da Leopardi a Battiato: tutta una festa

A proposito di calendarî e di Policarpo, quanto è stato detto nella nostra Rubrica ci aiuta non poco a capire perché la Domenica delle Palme sia chiamata anche “Domenica di Passione” (e prima della riforma liturgica la si considerava la “seconda Domenica di Passione”!). La domanda in effetti è piuttosto semplice: perché mai, nel giorno in cui tutti hanno a mente l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, il Vangelo che viene proclamato è l’intero testo di una Passione sinottica (per di più cantata o recitata a tre voci)? Non passa quasi una settimana tra l’uno e l’altro evento?

La risposta comincia dallo strano concetto di “giorno feriale”: non è bizzarro che si usi l’espressione “giorno feriale” per indicare un “giorno non-festivo”, ma che per celebrare un “giorno festivo” uno si preda un “giorno di ferie”? Sembra quasi che “festivo” e “feriale” significhino in fondo la stessa cosa. Ed è proprio così, e la voce calda di Battiato c’introduce facilmente verso la soluzione: «Segunda-feira de Lisboa, / che nome d’incanto! / Qui da noi è lunedì. Soltanto». Ovviamente il portoghese non s’è inventato dal niente un nome tanto singolare per il lunedì, bensì l’ha raccolto dal latino cristiano che chiamava (e chiama) il primo giorno dopo la domenica proprio “feria secunda”. Attenzione: non “il primo giorno della settimana”, ma “il primo giorno dopo la domenica”. L’espressione “week-end”, con tutti i riti relativi (discoteca al sabato-centro commerciale la domenica), ci rende ormai difficile percepirlo, ma la domenica era pensata per essere il primo dei giorni della settimana, e non l’ultimo. In questo senso il nome “segunda-feira” indica il lunedì proprio in quanto “secondo giorno di festa” – ha ragione Battiato: «Che nome d’incanto!».

Il fatto è che le cose finiscono perlopiù come iniziano, e quello che accade tra l’inizio e la fine di una cosa può anche essere molto rilevante, ma non lo è mai tanto da cambiare completamente l’intonazione del primo e dell’ultimo giorno. Così i sei giorni di attività creatrice di Dio non tolgono che il riposo del settimo riprende il filo della quiete eterna che aveva preceduto la creazione. Allo stesso modo le drammatiche vicende della Passione di Cristo non tolgono che quella settimana, iniziata nel segno del trionfo, si concluderà con il trionfo assoluto e definitivo. Per questa ragione non è la stessa cosa considerare la domenica il primo giorno della settimana o l’ultimo. Se lo si considera l’ultimo, diremmo con Leopardi, «tristezza e noia / recheran l’ore, ed al travaglio usato / ciascuno in suo pensier farà ritorno»; perché il principio del ciclo temporale è stato posto nel giorno lavorativo. Se invece lo si considera il primo, sarà questo a dare la sfumatura di sé ai giorni del lavoro, e costituirà quasi una sorta di “serbatoio energetico” del tempo.

Il tempo viene quindi suddiviso in prolungamenti della festa, un po’ come in quella vecchia Canzone di Pinocchio: «Sempre domenica è per me / e se domenica non è / è festa uguale, lo so…». Questo prolungamento viene costellato dalle tante festività del calendario cristiano, quelle stesse di cui il proclamatore annuale del giorno di Pasqua canta, nella solennità dell’Epifania: «Anche nelle feste della santa Madre di Dio, degli Apostoli, dei Santi e nella commemorazione dei fedeli defunti, la Chiesa pellegrina sulla terra proclama la Pasqua del suo Signore».

«Sembra facile a dirsi – obietterà qualcuno – ma intanto la confusione tra il culto tributato a Gesù Cristo e quello tributato ai Santi è sempre in agguato…». Proprio in questo ci viene in aiuto l’antichissimo racconto del martirio di Policarpo di Smirne, che è – come già vedevamo – il primo caso di un uomo per il cui martirio si attesta la celebrazione di un anniversario (detto “natalicium”). Ancora Eusebio di Cesarea, nel IV secolo, troverà imprescindibile riportare il testo di questa lettera del II secolo, in cui l’argomento è trattato con chiarezza impressionante: per evitare che il corpo di Policarpo, dopo il martirio, alimentasse il culto cristiano, invece di fungerne da deterrente, «alcuni suggerirono a Niceta, padre di Erode e fratello di Alice, di supplicare il governatore perché non consegnasse il suo corpo, “per timore”, disse, “che si mettano a venerare costui, dimenticando il Crocifisso”». L’autore della lettera però protesta immediatamente che «noi non potremo mai né abbandonare Cristo, che subì la passione per la salvezza di coloro che nel mondo intero sono salvati, né venerare qualcun altro. Perché Lui, noi l’adoriamo in quanto Figlio di Dio, mentre i martiri li amiamo giustamente in quanto discepoli ed imitatori del Signore a causa del loro insuperabile amore per il proprio re e maestro» (Martyrium Polycarpi, in Eusebio, HE IV,15,41-42).

Questa consapevole dichiarazione, tuttavia, non arriva in fondo al racconto come un fulmine a ciel sereno, bensì ne innerva tutta la narrazione, riuscendo ad evidenziare nella cronaca dei fatti bruti quegli elementi significativi per l’intelligenza spirituale dell’episodio: il resoconto del processo e del martirio si riallacciano tipicamente ai racconti del processo di Gesù e della sua crocifissione, ma questo sarebbe ancora poco! L’episodio del martirio di Policarpo è straordinario perché – in un’epoca ancora precocissima, e senza precedenti a noi pervenuti! – riesce a richiamare, semplicemente scegliendo negli avvenimenti gli elementi opportuni, tutti gli eventi salienti della “settimana santa” di Gesù – inclusa l’ultima cena!

«…Venuta l’ora di andare – infatti – lo misero su di un asino e lo portarono in città, un sabato di festa»: sembra di leggere il racconto dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, invece si tratta di pochi cenni – sapientemente scelti, precisamente per rimandare il lettore alla vita di Cristo – in merito al trasporto di Policarpo all’interno di Smirne, dalla quale i suoi discepoli l’avevano prima allontanato nel tentativo di sottrarlo alla morte. Neanche a farlo apposta, Policarpo viene giudicato da un irenarca di nome Erode (come il tetrarca di Gesù) e da suo padre (mentre per Gesù fa la sua comparsa un suocero, e non di Erode). Come se non bastasse, «all’ingresso di Policarpo nello stadio», dove già la folla fremeva (e non propriamente di entusiasmo benevolo), «una voce scese dal cielo» per sostenere Policarpo, e molti la sentirono.

S’era da poco concluso lo spettacolo delle belve, quindi per Policarpo non restò altro che il rogo, allestito in quattr’e quattr’otto: quello che però sembrava una fortuita casualità si rivelò presto un misterioso gioco della Provvidenza per mostrare chiaramente in Policarpo una chiara sintesi della Pasqua di Gesù. Dopo aver chiesto e ottenuto di non essere inchiodato al patibolo del rogo, per poter mostrare che il Dio che gli concedeva di patire il fuoco sarebbe bastato a tenerlo fermo senza bisogno d’altro, Policarpo fu preso da una felicissima ispirazione, e compose all’istante una magnifica preghiera in tutto e per tutto simile a quelle che da sempre si recitano durante le celebrazioni eucaristiche: «Padre del tuo amato e benedetto Figlio Gesù Cristo, per mezzo del quale ti abbiamo conosciuto, Dio degli angeli e delle potestà, ti benedico per avermi ritenuto degno di questo giorno e di questo momento, rendendomi partecipe, nel numero dei martiri, del calice del tuo Cristo per la risurrezione dell’anima e del corpo nella vita eterna e nell’incorruttibilità dello Spirito Santo» (HE IV,15,33). È difficile dire quanto Policarpo intendesse realisticamente l’immagine del calice, ma da come prosegue la preghiera sembra che avesse proprio l’idea di star celebrando “la sua messa suprema”: «Perciò io ti lodo anche per tutte le cose, ti benedico, ti rendo gloria per mezzo del pontefice eterno Gesù Cristo tuo Figlio diletto, e per mezzo suo sia gloria a te in unione con Lui nello Spirito Santo ora e per tutti i secoli, amen» (HE IV,15,35).

La sua preghiera era praticamente un “præfatio, ossia quella parte della preghiera eucaristica che precede il Sanctus e la benedizione del pane e del vino (eventualmente con l’inserimento del racconto dell’ultima cena): il colpo di scena arrivò dall’alto non appena gli incaricati appiccarono il fuoco alle fascine. «Il fuoco, infatti, prese forma di volta, come una vela di nave gonfiata dal vento, e circondò il corpo del martire, che vi era in mezzo non come carne che bruciava, ma come pane che cuoce, o come oro e argento arroventati in una fornace. E noi sentimmo un odore acuto come il profumo d’incenso o di altri aromi preziosi» (HE IV,15,37).

Profumo d’incenso, un calice di passione materializzato in bagliori di oro e d’argento, la fragranza del pane fresco diffusa dal fuoco come dallo Spirito: la fantasia di Policarpo, animata dall’estro di Dio, offrì in quella densa preghiera eucaristica la massima complicità all’azione di Dio, che mostrava di nuovo – centoventi anni dopo la Pasqua di Cristo – l’inestricabile unità di tutti gli eventi della Settimana Santa, riassunti in ogni celebrazione eucaristica.

E portava già nel nome, il Vescovo di Smirne, la sintesi delle sintesi delle “parabole del Regno”: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, porta molto frutto» (Gv 12,24). “Policarpo” significa “molto frutto”.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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