«Cristo tutto intero» nella Croce
«La bellezza e il colore delle immagini [sacre] sono uno stimolo per la mia preghiera. È una festa per i miei occhi, così come lo spettacolo della campagna apre il mio cuore a rendere gloria a Dio» [1]. Tutti concorderanno con queste parole di San Giovanni Damasceno, nel sottolineare il connubio fecondo tra immagini sacre e preghiera: rinviano l’una all’altra in ciò che raffigurano come in ciò che esse significano. Con l’approssimarsi della Pasqua di Resurrezione vorremmo presentare alcune opere dell’iconografia cristiana, magari come sostegno e stimolo per la preghiera. La nostra presentazione inizia dall’iconografia del Crocifisso, e, alla fine dell’esposizione, saranno chiare le ragioni più e meno evidenti di questa scelta.
Non tutti sanno, forse, che la più antica Croce dipinta giunta a noi è quella firmata nel 1138 da Maestro Guglielmo, oggi conservata nel Duomo di Santa Maria Assunta in Sarzana (La Spezia). Nell’Italia centrale del XII secolo nacque la tradizione delle tavole dipinte, destinate a essere appese nell’arco trionfale delle chiese o sopra dell’iconostasi, ossia la zona che separava la navata adibita ai laici dal presbiterio adibito al clero. La rappresentazione più diffusa era quella del Crocifisso, simbolo per antonomasia della religione cristiana: la figura isolata del Redentore, eternata nel momento estremo del supplizio, era monito permanete per il fedele che sostava in chiesa. Le tavole erano direttamente dipinte su legno, oppure su fogli di pergamena o cuoio, successivamente incollati su supporto ligneo sagomato a forma di croce. La Croce dipinta da Maestro Guglielmo, secondo uno schema bizantino passato in occidente attraverso gli avori carolingi, rappresenta un Cristo in posizione frontale con la testa eretta e gli occhi aperti, vivo sulla croce e ritratto come trionfatore sulla morte e sul peccato, detto Christus triumphans: il Cristo trionfatore che unifica nella croce i misteri della Passione e della Resurrezione. Il Cristo ritratto da Maestro Guglielmo non si può giudicare esattamente perché la testa e parte della figura vennero ridipinti nel XIII secolo: non sappiamo se l’espressività degli occhi risalga o no all’autore. Il Cristo, invece che col colobium (tunica priva di maniche o con maniche molto corte, usata dai più antichi monaci), come appare ritratto fino al IX secolo negli affreschi, è nudo, con i soli fianchi rivestiti dal perizoma, come sarà sempre rappresentato. Ai lati del Cristo trionfatore, senza la corona di spine ma con il nimbo gemmato, sono rappresentati Maria e Giovanni, davanti alle pie donne, probabilmente in riferimento all’episodio narrato nel Vangelo dello stesso Giovanni (Gv 19, 25-27): «Gesù guardando la madre e accanto a lei il discepolo prediletto, si rivolse alla madre dicendo: “Donna ecco il tuo figlio!”; poi si rivolse al discepolo dicendo: “Ecco la madre tua”». All’estremità del braccio sinistro è dipinto il volto del profeta Geremia, con sopra i simboli evangelici dell’angelo e del leone; all’estremità inferiore del braccio destro è rappresentato il profeta Isaia, con sopra la rappresentazione dei simboli evangelici dell’aquila e del bue. Più in basso, in sei piccoli riquadri, sono riportati episodi della Passione:
- Bacio di Giuda: Cristo isolato al centro della composizione, con alle spalle i soldati, fa un cenno con la mano destra a Pietro. Giuda, di fianco, lo bacia.
- Flagellazione e tradimento di Pietro: Cristo è al centro della composizione con le mani legate alla colonna, con a lato, più piccoli, i flagellatori nell’atto di colpire e sopra di loro due angeli di profilo con ampi mantelli; all’estremo lato destro si trova la figura di Pietro che rinnega Gesù.
- Via del Calvario: Cristo al centro del riquadro guarda fuori delle città, seguito dalla folla e dalle donne con Maria. Un Giudeo indica con la mano al Cristo la via del Calvario.
- Gesù calato dalla Croce: la figura del Cristo esanime è al centro della scena, con Giuseppe di Arimatea che lo sorregge e Nicodemo che toglie i chiodi in basso; sono presenti anche i discepoli e le donne.
- Deposizione al sepolcro: conclude il ciclo della Passione, con Nicodemo e Giuseppe che depongono Gesù nella tomba alla presenza delle donne e di Maria.
- Maria al sepolcro: inizia il ciclo della gloria, con l’angelo che annunzia la resurrezione indicando a Maria e alle donne la tomba vuota e il sudario.
In alto, collocata nella cimasa della croce, è rappresentata l’Ascensione di Maria: gli undici Apostoli con la Vergine al centro, tutti tra due angeli. Al centro, sopra la testa della Vergine, la mandorla entro la quale è raffigurato il Cristo in trono. Nello spazio tra la cimasa e il nimbo di Cristo, è riportato il titulus crucis in latino: Iesus Nazarenus Rex Iudeorum. Nei capicroce laterali, alla sommità delle scene della passione dipinte nella parte inferiore della tavola, sono presenti numerose citazioni bibliche.
Dallo schema del Crocifisso triumphans di Maestro Guglielmo derivarono varie altre croci, la più famosa delle quali è sicuramente quella di san Damiano conservata nella chiesa di santa Chiara (cappella delle Monache) di Assisi. Più tardi, dalla fine del XII o dagli inizi del XIII secolo, al Christus triumphans cominciò ad accompagnarsi una nuova tipologia, quella che rappresenta Cristo con la testa reclinata nella morte, con gli occhi chiusi, il corpo abbandonato in uno spasimo di dolore, detto Christus patiens. È anche questo uno schema di derivazione bizantina, ma di quella tendenza in cui si accentua il senso drammatico. Più che la divinità di Cristo, si rappresenta la sua umanità: ogni fedele poteva sentire in sé, nel proprio corpo, le sofferenze che Egli aveva patito, comprendendo più pienamente il significato e l’alto valore della Sua missione terrena. Questo schema avrà largo seguito nella società comunale del Duecento e del Trecento. Fra i maggiori autori di Christus patiens, vi fu Giunta Capitini, detto Giunta Pisano (notizie dal 1229 al 1254), il più grande pittore toscano prima dell’avvento di Cimabue e di Giotto. Di Giunta si conosce, oltre a numerose attribuzioni, il Crocifissso oggi collocato in una cappella della chiesa bolognese di San Domenico. Per dare maggiore risalto alla tragedia, Giunta abolisce le figure di contorno – tipiche del Christus triumphans – limitandole ai busti di Maria e Giovanni ai due lati. Il resto della croce è blu nei bracci verticale e orizzontale e tasellato di rombi nelle striscie laterali, come un fondo piano, dal quale si stacca la grande curva dolorosa del corpo morto, realizzato volumetricamente, con le sporgenze anatomiche violentemente sbalzate. Le forme, pur partendo dal reale, sono esasperate: il ventre tripartito orizzontalmente e percorso verticalmente da una linea divisoria; segnati i muscoli pettorali; le braccia smagrite oltre il verosimile in confronto alle altre parti; il perizoma aggrovigliato. Non “naturalismo”, dunque, perché non vi è copia della realtà ma interpretazione del dolore: un dolore lacerante, non tanto perché si voglia rappresentare la sofferenza dell’Uomo in croce (morto, d’altronde, e quindi ormai insensibile), quanto quella di chi assiste e proietta in quel corpo privo di vita il dramma eterno di tutta l’umanità [2].
“Christus patiens” e “Christus triumphans” – «Cristo tutto intero» («totius Christi») – è immagine sacra del mistero pasquale che la liturgia della Chiesa celebra in questi giorni. Immagini e parole s’illuminano a vicenda, illuminando insieme la liturgia della Chiesa. A riguardo, scrive il Catechismo della Chiesa Cattolica: «L’iconografia cristiana trascrive attraverso l’immagine il messaggio evangelico che la Sacra Scrittura trasmette attraverso la parola» [2]. Affinché il mistero celebrato nella liturgia «si imprima nella memoria del cuore e si esprima poi nella novità di vita dei fedeli» [3], bisogna entrare nell’armonia dei segni della celebrazione: «la contemplazione delle sante icone, unita alla meditazione della Parola di Dio e al canto degli inni liturgici» [4].
In questo periodo liturgicamente forte, la contemplazione della prima Croce dipinta di Maestro Guglielmo – il Cristo trionfatore che unifica nella croce i misteri della Passione e della Resurrezione – potrebbe essere un buono stimolo perché la preghiera apra il cuore a rendere gloria a Dio.
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[1] San Giovanni Damasceno, De sacris immaginibus oratio 1, 47: PTS 17, 151 (PG 94, 1268).
[2] Cfr. Piero Adorno, L’arte italiana, Casa Editrice G. D’Anna, Messina-Firenze 1986, Vol. I.
[3] CCC, Parte II, Sez. I, Art. 2., n. 1160
[4] Ivi, n.1162
[5] Ibidem.
@Piero, Lei fa riferimento ad una questione tipica della dottrina geovista. Il più noto dizionario greco, Liddel-Scott, traducendo “Xylòn”/”Stauròs”, riporta tra le varie accezioni possibili quella di “la Croce (Nuovo Testamento) “: il termine greco, nel Nuovo Testamento, prende il significato di “croce”. In ogni caso la crocifissione di Cristo non è questione solo lessicografica e filologica: non si può prescindere dal depositum fidei, dalla Tradizione e dalla riflessione teologica.
….il più è capire se il termine “stauròs” si può correttamente tradurre “croce”…..oppure semplicemente “palo”…….