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Sentì addosso tutti i peccati del mondo

Meditazione pasquale sulla "passione del cuore" di Gesù nel Getsemani.

Prima ancora della morte del corpo, Gesù visse nel Getsemani la straziante passione del cuore così come è descritta dalle sue parole: «L’anima mia è triste fino alla morte» (Mc 14, 34). Il Getsemani è l’inizio dell’agonia di Dio, il «grande abisso» di cui parla un Salmo (Sal 36, 7). Per chiunque ami Cristo, quell’esperienza di Gesù è un mistero divino capace di suscitare la più umana tenerezza. Quale cristiano non avrebbe voluto asciugare almeno una lacrima di Cristo che sudava sangue? I gesti di Gesù nell’orto degli ulivi sono proprio quelli di un uomo in preda all’angoscia mortale: «si inginocchiò», «cadde a terra bocconi», «si alzò per andare dai suoi», «tornò a pregare», «si alzò di nuovo». A generare angoscia e tormento in Gesù era il timore per ciò che gli sarebbe accaduto di lì a poco? Fu solo questo, o molto altro?

Per penetrare il mistero del Getsemani, bisogna ricordare e meditare che «Cristo morì per i nostri peccati ed è risuscitato per la nostra giustificazione» (Corinzi, 15, 3-4; Romani 4, 25). La fede pasquale, in sintesi, richiede che si creda a queste tre cose: primo, che Gesù realmente morì e risorse; secondo, che morì per i nostri peccati e risorse per la nostra giustificazione; terzo, che egli morì per i nostri peccati sapendo di morire per i nostri peccati; che morì per amore, non per forza o per caso: «Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine». Alla luce del credo pasquale, possiamo affermare che Gesù sentì vicino, anzi «addosso», il peccato; non uno o più peccati, ma tutto il peccato del mondo, come è scritto: «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo» (1Pt 2, 24); «Dio lo trattò da peccato in nostro favore» (2 Cor 5, 21) «essendo divenuto maledizione per noi» (Gal 3, 13). Questo pensiero dovrebbe farci tremare di amore e gratitudine per Dio. Cristo non solo liberamente assume su di sé i nostri peccati, ma la vicinanza del peccato gli fece esperire la lontananza di Dio, o, precisamente, l’allontanarsi di fatto di Dio. Gesù, per amore nostro, sentì Dio andarsene, scomparire e non rispondere più; l’angoscia del Getsemani è un anticipo del grido straziante sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27, 46). Dio odia il peccato, anche quando il Figlio assume su di sé il peccato del mondo; non faceva differenza, in quel momento, il fatto che non li avesse commessi lui. Ecco, cosa significa «L’anima mia è triste fino alla morte»! Gesù sente il peccato per quello che è, ossia un pericolo mortale; sperimenta su di sé cosa significa disobbedire a Dio. Solo i santi, a cui è capitato, sono stati capaci di raccontare il tormento che prova un’anima che discende viva agli inferi, ma la loro prova non è paragonabile con quella di Gesù che portava i peccati di tutti. Il pensiero di Gesù che per la nostra salvezza arriva al punto di provare cosa sia la lontananza da Dio a causa del peccato dovrebbe indurci al pianto, e chiarire sempre più il suo grande sacrificio per noi.

Gesù ha bevuto tutto il calice amaro del peccato, consapevole di morire per i nostri peccati. Questo è il tormento vivo, vero, di Gesù. Dall’altra parte, sappiamo che il Getsemani non termina con la sconfitta ma con la vittoria. L’Epistola agli Ebrei dice di Gesù: «Imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5, 8). Gesù dall’esperienza nel Getsemani sperimentò su di sé cosa significa disobbedire e cosa significa obbedire a Dio. Gesù è disceso per tutti all’inferno, ma non ha perso la sua fiducia in Dio, che ha continuato a chiamare Abbà!, Papà! La sua obbedienza ha distrutto la morte e ha rinnovato la vita. L’esperienza del Getsemani trova compimento e risoluzione nella frase di Gesù: «Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). E, sempre nel Getsemani, Gesù dice: «Padre, sia fatta la tua volontà» (Mt 26, 42), compiendo la redenzione che riscatta l’uomo dal peccato originale. Per capire bene l’obbedienza di Cristo, e gli effetti di essa, bisogna chiarire “chi” obbedisce a “chi”. È una questione teologica complessa, che fu chiarita, superando le lacune della scuola antiochena e di quella alessandrina, soprattutto dall’opera di san Massimo il Confessore e del concilio Costantinopolitano III. Dio ha obbedito umanamente! Chi obbedisce è la volontà umana di una Persona divina, e colui cui obbedisce è la volontà divina comune alla Trinità. Solo un uomo doveva riscattare il debito di Adamo, ma solo un Dio poteva; per questo si rese necessaria l’incarnazione per compiere la redenzione. Dio divenuto per noi come noi, diceva in modo umano a Dio Padre nel Getsemani: «Padre, sia fatta la tua volontà» (Mt 26, 42).

Questo è il mistero della tenerezza di Gesù nell’orto degli ulivi. È sceso liberamente nell’abisso del nostro peccato, per risalire con noi e per noi. E noi che possiamo fare, per quel Dio che ci ha tanto amato? Egli stesso ci ha detto che «Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre» (Mc 3, 35): obbedire al Padre è l’unico modo per consolare Gesù nella sua agonia. Obbedire si identifica con tutta l’esistenza cristiana. Ogni momento della nostra vita di credenti dovrebbe risuonare dentro quest’unica domanda: Cosa vuole il Signore che io faccia in questo momento o situazione? Anche quando un peccato ci allontanasse da Dio, e fossimo nell’angoscia più cupa, sarà sempre possibile mettersi accanto a Gesù in ginocchio nel Getsemani e in Lui tornare al Padre.

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Bibliografia:

Anselmo d’Aosta (sant), Cur Deus homo?, Città Nuova, 2007.

R. Cantalamessa, Il mistero della Pasqua, Àncora, Milano 2009, pp. 25-44.