Plutarco e il chiacchierone
Nella odierna società in cui la parola è "abusata", urlata, svenduta, maltrattata giova rileggere un breve saggio di Plutarco dal titolo italiano "Sulla loquacità". Un opuscolo ricco di citazioni letterarie, storiche, filosofiche, ma allo stesso tempo sagace ed ironico, ancora attuale come ogni buon classico.
Difficile trovare scappatoie dal chiacchierone che vuole chiacchierare: costui ti si appiccica, ti tira per la giacca, ti ferma con la mano, s’intrufola nei discorsi, cerca le prede in casa come in piazza, e poi via a blaterare, sproloquiare, ciarlare. I chiacchieroni sono di diversi tipi, ciascuno caratterizzato da proprie peculiarità: il “loquace” che infastidisce con discorsi interminabili e sconclusionati, il “complottista” che diffonde come un’eco notizie per allarmare, il “saccente” che sputa sentenze, lo “spaccone” racconta frottole, il maldicente “pettegolo” che va sparlando di tutti. La “chiacchiera” è il vizio di chi abusa della parola senza misura e a sproposito.
Oggi è facile averne la prova. Molti programmi televisivi, dai reality alle tribune politiche, sono un mercato ad alta definizione: gli invitati, i partecipanti, parlano senza posa e spesso a vanvera, accavallando le voci gli uni sugli altri, mentre i conduttori, incapaci di riportare l’ordine, alimentano lo sproloquio. Così nelle scuole, nelle agenzie educative, nei luoghi pubblici in generale, è sempre più difficile trovare persone capaci di parlare rispettando tempi, ruoli e competenze. Sui social-network, poi, il linguaggio scritto è sempre più simile alla lingua parlata tanto nella forma quanto nella sostanza: gli utenti sbriciolano parole su parole, tra il ciarlare dei fatti personali, il blaterare a casaccio, il commentare senza misura e a sproposito, magari per dimostrare quanto siano “capaci” e accattivarsi il consenso degli altri. In una società come la nostra, in cui la parola parlata sta tornando ad avere la prevalenza su quella scritta, sarebbe utile leggere il gradevole pamphlet di Plutarco intitolato Sulla Loquacità (in greco Peri adoleschias, in latino De garrulitate), probabilmente composto all’epoca di Traiano (98-117 d.C.). Da ottimo indagatore della natura umana, Plutarco scrisse molte opere con l’intento pedagogico di mettere in guardia gli uomini da possibili vizi comportamentali, ma nell’opuscolo Sulla loquacità afferma di voler scandagliare una vera «patologia dell’animo», non un semplice “vizietto”: il parlare troppo. I primi sedici capitoli del pamphlet vedono Plutarco impegnato nel presentare un’accurata diagnosi dei sintomi di questa singolare malattia, gli ultimi sette suggeriscono solo un tentativo di terapia, trattandosi di una patologia difficile da curare. «La medicina adatta – scrive Plutarco – è indurre i chiacchieroni, attraverso il dialogo, a riflettere sul loro vizio. La terapia vuole persone capaci di ascoltare: peccato che questi non sappiano farlo!».
La diagnosi è chiara: il chiacchierone è tale perché il suo orecchio non è collegato al cervello ma alla lingua. Insomma: il “loquace” ha un problema di orecchio, non di lingua; non sa ben parlare perché non sa ben ascoltare, con la conseguenza che le parole altrui entrano da un orecchio e escono dall’altro: «se ne vanno in giro proprio come pentole vuote di senno, ma piene di echi». Se anche capita che il chiacchierone ponga l’orecchio per un momento al discorso altrui, non appena ha l’occasione sputa fiotti di parole, e «le parole – come dice Omero – sono alate», quindi, una volta uscite di bocca, sono portate «in giro dalle ali veloci». Il chiacchierone non solo parla a vanvera, ma neppure ascolta le persone che gli parlano. Sono noiosi, appiccicosi, prolissi, ma il difetto più grande che annulla ogni merito del «cicalone», fosse anche un sant’uomo, è la sua assoluta perdita di credibilità e quindi di fiducia. La lingua dei ciarlieri, «che brucia e vibra in continuazione», attira e trascina verso di sé confidenze, segreti che dovrebbero restare nascosti e che invece sono dispersi nel passaparola. «I ciarlieri non sono degni di fede – scrive Plutarco – neppure quando dicono il vero». Il chiacchierone non parla di amenità, il che lo renderebbe almeno sopportabile, ma si fa spesso portavoce di disgrazie, complotti, malignità, pettegolezzi risultando particolarmente odioso. Così, più il chiacchierone vorrebbe persone disposte ad ascoltarlo, più esse fuggono, come quando un «blaterone» arriva ad un banchetto, o in una riunione tra conoscenti, e tutti smettono di parlare per non dargli appiglio per sproloquiare. Se questa è la diagnosi, qual è il tentativo di terapia proposta nel pamphlet?
Plutarco è categorico: se possiamo vincere le nostre passioni con «l’analisi critica e l’esercizio», è certo che prima viene l’analisi critica. Perciò la prima medicina per curare il chiacchierone è farlo riflettere (ascolterà?) sulle conseguenze negative e vergognose causate dal vaniloquio petulante. In secondo luogo, bisogna farlo riflettere (ascolterà?) sull’atteggiamento opposto al suo, cioè sulla bellezza dei comportamenti riservati, dei discorsi coincisi, della «dimensione sacra, venerabile e solenne del silenzio». Il primo efficace esercizio proposto è quello di esercitarsi a non rispondere quando è un altro ad essere interrogato; il chiacchierone deve imparare a non anticipare chi è interpellato, ad intervenire solo se chi è stato interrogato non è capace di rispondere. Chi risponde al posto di un altro, richiamando l’attenzione su di sé, si comporta come «uno che corre a baciare una persona che desidera essere baciata da un altro». Tre sono i tipi di risposte che si possono dare alle domande: la prima necessaria, la seconda cortese e la terza superflua; quando rispondiamo «dobbiamo prendere come misura le esigenze di chi ci rivolge la domanda». La misura di ogni discorso deve essere sempre chi lo ascolta. Il discorso deve essere utile a chi lo pronuncia, necessario per chi lo ascolta, piacevole per entrambi. Un ultimo consiglio per il ciarliero è evitare la malsana abitudine di far cadere sempre la conversazione su ciò che gli è gradito, allenandosi a dialogare invece su argomenti in cui è meno ferrato, in modo da controllare la vanità che fa straparlare.
Plutarco chiude con una citazione di Ippocrate, secondo cui «il silenzio non solo non stimola la sete ma non causa neppure dolore o sofferenza», come a dire che in fondo per ciarlieri, blateroni e cicaloni, il silenzio resta l’unico esercizio che «è più forte di qualunque altra terapia». E per noi è bene fermarsi qui, anche per non rischiare di parlare senza misura e a sproposito sulla loquacità. Chissà.
Le citazioni sono tratte da: Plutarco, Sulla Loquacità, a cura di Simona Micheletti, La vita felice, Milano 2011.
Immagine Dipinto: Diogene, J.W.Waterhouse (1882)