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Coro liturgico: “Dovrebbe far cantare l’assemblea, ma spesso la monopolizza”

"Il coro liturgico - sottolinea l'arcivescovo Valentinetti - può diventare strumento di evangelizzazione se realmente diventa una possibilità per coinvolgere l'assemblea e se diventa una risorsa per far accedere le persone che, altrimenti, non si avvicinerebbero alla comunità cristiana"

Lo ha affermato la scorsa domenica l’arcivescovo Valentinetti, presiedendo l’incontro dei cori parrocchiali all’Oasi dello Spirito di Montesivano

Mons. Tommaso Valentinetti, arcivescovo di Pescara-Penne

Una nutrita rappresentanza dei 90 cori parrocchiali presenti nell’arcidiocesi di Pescara-Penne la scorsa domenica ha partecipato, all’Oasi dello Spirito di Montesilvano colle, all’incontro dei cori parrocchiali con l’arcivescovo di Pescara-Penne monsignor Tommaso Valentinetti, organizzato dalla direttrice dei Cori riuniti dell’arcidiocesi di Pescara-Penne Roberta Fioravanti. Un’occasione per riflettere sul tema “Musica e canto liturgico: risorsa pastorale e strumento di evangelizzazione”, partendo dalle domande “Perché canto?” e “Perché canto in un coro liturgico?”: «Due domande che sono collegate – esordisce il presule -, anche se il principio fondamentale è “Perché canto?”. Una persona potrebbe dire “Canto perché mi piace cantare” o molte volte “La motivazione da cui è scaturita la mia adesione ad un coro è perché mi piace cantare. Ho una bella voce e posso cantare”».

Ma l’arcivescovo vi ha risposto, compiendo un percorso alla scoperta delle motivazioni più profonde che portano una persona dapprima a cantare e poi a farlo all’interno di un coro liturgico: «Noi cantiamo – spiega l’arcivescovo Valentinetti – perché siamo cercatori insaziabili di bellezza. Questa è la motivazione che, esplicitamente o implicitamente, noi sentiamo all’interno del nostro cuore, della nostra vita e del nostro essere. Ora dovete dirmi cosa può esserci di più bello di un coro che riesce ad esprimere un’armonia di bellezza. Cosa c’è di più bello dell’esprimere questa bellezza, dando suono e dando fiato con la nostra persona a delle note che esprimono un’armonia. È l’espressione di una bellezza che noi cerchiamo dentro noi stessi e che, artigianalmente o professionalmente, riusciamo ad esprimere quella bellezza che abbiamo nel cuore e che abbiamo la possibilità di rendere visibile, anzi udibile».

A questo punto diventa necessario rispondere alla domanda “Chi ha messo la bellezza in noi?”: «La risposta è facile – osserva l’arcivescovo di Pescara-Penne -. Dio, perché Lui è bellezza infinta, assoluta, senza fine che dopo aver creato ogni opera diceva “che era cosa buona e giusta”. Poi, quando ha creato l’uomo e la donna, ha detto che “era cosa molto buona”. E in ebraico la parola “buono” vuol dire anche “bello”. Quindi, quando la Scrittura dice “E vide che era cosa buona”, vuol dire che era cosa buona e bella. E quando ha creato l’uomo e la donna, ha detto che era cosa molto buona e molto bella. Allora, la nostra creazione, il nostro essere creati, porta inevitabilmente dentro l’immagine perfetta della bellezza di Dio, non solo della bontà di Dio, ma della bellezza di Dio. Perché siamo stati creati per una vita bella, per una vita buona e, aggiungo, per una vita felice. Peccato che molti non lo capiscano! Questa ricerca di esprimere la bellezza divina, un’insopprimibile presenza che c’è dentro di noi, ci porta a vivere e dovrebbe portarci a vivere il canto come l’espressione di questa magnificenza che abbiamo dentro, ma certamente in modo limitato. Non con la stessa magnificenza e la stesa grandezza di Dio, ma con il limite di un suono, di una bocca, dei denti, di una gola, attraverso cui esprimiamo la nostra melodia. Ma quest’ultima non è nient’altro che una ricerca di questa espressione, di questa bellezza, che vuole emergere dal nostro di dentro stampata lì da Dio stesso, che noi vogliamo portare in superficie, anche attraverso i tanti sacrifici che facciamo per raggiungere questo risultato».

I cori parrocchiali riuniti all’Oasi dello Spirito

A questo punto, un’altra domanda è “Perché cantare in una liturgia? Che cos’è una liturgia?”: «La liturgia – spiega monsignor Valentinetti – nella vita dell’uomo è sempre esistita e in latino, indica un movimento sacro dove il corpo è coinvolto con tutta la sua presenza, tutta la sua forza e tutta la sua bellezza, fino ad identificarlo con un danzare insieme vivendo un’armonia danzante. Quando la danza è fatta bene, non c’è niente di più bello dell’espressione corporale, individuale o di coppia, perché esprime realmente tutta l’armonia di un corpo dei corpi che si immedesimano in uno spazio, che è sempre presenza di Dio, perché Lui è in ogni luogo. Detto questo, la liturgia è fondamentalmente un voler esprimere con la propria gestualità, col proprio corpo, con la propria mente, le proprie parole e il proprio canto la partecipazione a quel mistero di un Dio che non è rimasto immutabile, eterno, immenso, solo nel tempo, ma che ad un certo punto si è incarnato e incarnandosi si è manifestato. E siccome, rivelandosi e manifestandosi, non poteva rimanere sulla faccia della terra fino alla fine dei secoli, ha lasciato dentro l’esperienza della comunità dei credenti una parola “Fate questo in memoria di me. Tutto quello che farete in mia memoria, io lo faccio con voi e in mezzo a voi”. Dunque, la liturgia è un prolungamento dell’incarnazione di Dio in Gesù Cristo e una partecipazione viva, fattiva, efficace a quello che è il mistero della rivelazione che si continua nel tempo. Perché ogni volta che leggiamo la Parola di Dio, ogni volta che noi celebriamo i divini misteri, ogni volta che ascoltiamo una predicazione, si perpetua il mistero dell’incarnazione che ci vuole raggiungere, perché Dio nessuno lo ha mai visto».

Ma 2019 anni fa ci ha rivelato il “Figlio unigenito che è nel seno del Padre”: «Ma tutto questo – s’interroga l’arcivescovo Valentinetti – è sufficiente o la spiegazione deve continuare nel tempo? Dice il Concilio che la spiegazione continua nel tempo con le parole e i gesti, dove le parole sono la predicazione e l’annuncio esplicito del Vangelo e i gesti sono la liturgia». Ma quest’ultima, così come la Chiesa, non è sempre la stessa da 2 mila anni a questa parte, ma cambia nel tempo: «Per nostalgici che vanno dietro la messa di San Pio V o che vanno dietro la messa in latino – ammonisce il presule -, sono rispettosissimo del cantare qualche brano in latino, attenzione, perché la liturgia non esprime solo una dimensione di rivelazione, ma anche di partecipazione. Ma posso partecipare se capisco, altrimenti a cosa partecipo? Il canto liturgico entra dentro questa partecipazione di una divinità che si realizza nel tempo e di una manifestazione che continua nel tempo. Quindi, tutte le volte che cantate fatevi tremare i polsi. Tutte le volte che aprite bocca dentro il vostro corto liturgico, o che animate la messa anche da soli, o suonate, sappiate che in quel momento state rivelando Gesù Cristo. Fatevi tremare i polsi per la serietà, per l’impegno, per la preghiera e per la profondità con cui lo dovete fare, ma anche con la partecipazione affettiva ed effettiva a questo mistero d’amore che passa attraverso le mani del sacerdote, dei ministri dell’altare e dell’assemblea, perché la presenza di Gesù Cristo sta nell’assemblea».

E, all’interno dell’assemblea, il coro liturgico ricopre un posto privilegiato: «Ecco perché siete messi in un angolo a parte a cantare – puntualizza monsignor Tommaso Valentinetti -. Non per funzionalità liturgica, ma siete messi in un luogo specifico, che può essere la cantoria o un altro spazio di quella chiesa, perché siete funzionali al mistero rivelativo della presenza di Cristo che canta con voi le lodi del Padre. Se cantiamo in questo modo, cantiamo con un atteggiamento interiore diverso, soprattutto con serietà, impegno e preparazione che devono accompagnare tutto questo». I

In questo modo, dunque, il coro liturgico diventa una risorsa pastorale e uno strumento di evangelizzazione: «Per questo – esorta l’arcivescovo -, ogni comunità che si rispetti dovrebbe avere un coro liturgico. Dovrebbe avere perché molte volte, invece, non ce l’ha e ci si affida al primo venuto che, magari, prende la chitarra, mette insieme un po’ di note e fa cantare. Far cantare, è proprio questo l’importante per essere una risorsa pastorale. Ogni comunità dovrebbe avere un coro liturgico per far cantare l’assemblea, mentre i cori liturgici molte volte la monopolizzano radicalizzando la presunzione di essere presenza dell’espressione della bellezza di Dio, che solo loro possono esprimere. No, non è vero, perché sentir cantare un coro è bello, ma sapeste quanto è bello sentir cantare dall’altare un’assemblea che sia capace realmente di esprimere, pur con tutti i suoi limiti, la possibilità di lodare Dio, di partecipare attivamente a quella dimensione liturgica che io prima ho riferito».

Ma come può il canto liturgico diventare uno strumento di evangelizzazione?: «Può diventarlo – suggerisce l’arcivescovo di Pescara-Penne – se realmente diventa una possibilità per coinvolgere l’assemblea e se diventa una risorsa per far accedere le persone che, altrimenti, non si avvicinerebbero alla comunità cristiana. Allora sì, può diventare una risorsa. Provate a pensare se il coro parrocchiale si mettesse al servizio dei catechisti, per integrare la catechesi solo verbale, molte volte noiosa, con una capacità di coinvolgimento canoro. Sarebbe tutta un’altra cosa. E realmente, a quel punto, si inizierebbero a percorrere strade innanzitutto per rinforzare i cori liturgici, allargandoli e perché no, liturgicamente parlando, non è disdicevole fare dei concerti con l’umiltà di fare le cose che si possono fare, ma con la capacità e la percezione di poter offrire a qualcuno qualcosa di bello, che li può edificare e sostenere nel cammino di fede, per chi crede, e nel cammino della vita, per chi ascolta».

Roberta Fioravanti con l’arcivescovo Valentinetti

Una missione comunque non facile per i cori liturgici: «Questo servizio – racconta Roberta Fioravanti, direttrice dei Cori riuniti dell’arcidiocesi di Pescara-Penne – richiede tanto sacrificio e, a volte, ci capita di sentirci un po’ infastiditi quando veniamo trattati un po’ come dei juke-box, nei quali si infila la monetina e parte il brano. Noi non lo siamo e tutto quello che facciamo è frutto di un cammino, ovvero di tempo che noi “rubiamo” alle nostre vite, al nostro lavoro, alle nostre famiglie e alla nostra salute, ma chi ha una passione la persegue».

Tony Nevoso interpreta Dentro me

Dopo la relazione dell’arcivescovo, i coristi presenti si sono divisi in gruppi per rielaborare gli spunti appresi e farli diventare una prassi consolidata, tornando poi in gruppo a condividere le varie riflessioni. Infine è stato il cantautore diocesano Tony Nevoso a concludere l’incontro, ovviamente in musica, eseguendo un suo brano dal titolo “Dentro me”: «Il pezzo parla della prima bellezza – illustra l’interprete -, che è quella che ognuno di noi ha dentro quando riesce a raggiungere la profondità nella quale incontra il Signore».

About Davide De Amicis (4383 Articles)
Nato a Pescara il 9 novembre 1985, laureato in Scienze della Comunicazione all'Università degli Studi di Teramo, è giornalista professionista. Dal 2010 è redattore del portale La Porzione.it e dal 2020 è direttore responsabile di Radio Speranza, la radio della Chiesa di Pescara-Penne. Dal 2007 al 2020 ha collaborato con la redazione pescarese del quotidiano Il Messaggero. In passato è stato direttore responsabile della testata giornalistica online Jlive radio, ha collaborato con Radio Speranza, scritto sulla pagina pescarese del quotidiano "Avvenire" e sul quotidiano locale Abruzzo Oggi.
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