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Il Web che “commercia” Dio

Dalla iBibbia alla confessione, dal rosario itech all’invito alla penitenza, la rete risponde ad una esigenza di Dio. Una prova su iTunes

Le applicazioni per iPhone e iPad con riferimento spirituale si moltiplicano giorno dopo giorno. L’ultima, in ordine di tempo, ad aver suscitato un certo clamore è Confession – A Roman Catholic App, una sorte di esame di coscienza dove il peccatore (la cui privacy è assicurata e il profilo protetto da user e password) è “guidato” alla penitenza: si possono scegliere ben 7 preghiere diverse. Tempestiva la risposta del Vaticano che, attraverso il direttore della sala stampa – padre Federico Lombardi, ha chiarito come uno smartphone non possa assolvere un peccatore perché «il sacramento della Penitenza richiede, necessariamente, il rapporto di dialogo personale tra il penitente e il confessore e l’assoluzione da parte del confessore presente».

In merito alla fruibilità di un evento liturgico e sacramentale in maniera digitalizzata, il documento La Chiesa e Internet (2002) del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, era stato già chiaro: «La realtà virtuale non può sostituire la reale presenza di Cristo nell’Eucaristia, la realtà sacramentale degli altri sacramenti e il culto partecipato in seno a una comunità umana in carne e ossa. Su Internet non ci sono sacramenti» (n.9).

Fatta questa precisazione, non si può comunque trascurare che siano numerose sulla Rete le App religiose e siano sempre più le aziende e gli sviluppatori che investano su questo mercato, proponendo preghiere e riti a portata di mouse e smartphone per tutti: cattolici, musulmani, buddisti, ebrei, induisti e mormoni.

Per verificare quanto detto, vi propongo un esperimento: andate su iTunes Apple Store ed effettuate una ricerca delle “App religiose”. Come vedrete, vi troverete davanti un vero “centro commerciale” del religioso, in cui è possibile trovare ogni tipo di “prodotto”: guide alle conversioni, rosari tech, la Bibbia, il Mantra e il Corano insieme a giochini. Tutte le religioni e le proposte genericamente spirituali sono messe in mostra, una al pari dell’altra, in un mix che disorienta. Se cambiate poi le “parole chiave” della ricerca, vi accorgete che cambieranno anche le risposte: il modo in cui si pone la domanda può influenzare la risposta e quindi la domanda religiosa deve essere ben posta. Infine, escluse le applicazioni “registrate”, come iBibbia Cei 2008, è anche difficile accertare l’autorevolezza della fonte di ciascuna applicazione. Se è vero che esiste, in Rete, il fenomeno della open sourse theology – secondo la formula coniata da Andrew Perriman – di una teologia svincolata da qualsiasi riferimento all’auctoritas della Rivelazione e del depositum fidei, aperta nelle conclusioni, metodo Wikipedia; le App religiose, quando non è possibile verificare l’autorevolezza della fonte, possono considerarsi come il “free software” della open source theology.

Il piccolo esperimento proposto, da una parte, è incoraggiante perché, se nella Rete c’è tanta “offerta” di Dio, vuol dire che c’è ancora “domanda” di Dio nel cuore degli uomini. Dall’altra parte, però, la modalità commerciale, omogeneizzante, “liquida”, in cui questa “offerta” di Dio è proposta, richiama l’urgenza di “una pastorale del mondo digitale” che insegni tanto a decodificare la risposta religiosa, quanto a formulare una domanda significativa.

Per il cristianesimo, questo complesso lavoro, potrebbe iniziare dal ricordare che il messaggio cristiano non è solo “informativo” ma anche “performativo”: «il Vangelo non è solo una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita» (Spe salvi, n.2). Se il Cristianesimo è “performativo”, però, anche «le nuove tecnologie – come ha ribadito Benedetto XVI il 28 febbraio ai membri del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali – non solamente cambiano il modo di comunicare, ma stanno operando anche una vasta trasformazione culturale. Se i nuovi linguaggi hanno un impatto sul modo di pensare e di vivere, ciò riguarda in qualche modo anche il mondo della fede, la sua intelligenza e la sua espressione». La Rete e la fede cristiana, insomma, possono incontrarsi perché «la fede sempre penetra, arricchisce, esalta e vivifica la cultura, e questa, a sua volta, si fa veicolo della fede a cui offre il linguaggio per pensarsi ed esprimersi». Per realizzare una buona “pastorale del mondo digitale”, quindi, è necessario non solo «farsi attenti ascoltatori dei linguaggi degli uomini del nostro tempo, per essere attenti all’opera di Dio nel mondo», ma anche imparare a utilizzare le nuove tecnologie come un “luogo” antropologico nel quale incarnare e testimoniare il messaggio cristiano. «E allora il contributo dei credenti potrà essere di aiuto per lo stesso mondo dei media, aprendo orizzonti di senso e di valore che la cultura digitale non è capace da sola di intravedere e rappresentare» .

È solo una suggestione, lo so, ma scrivendo risuona nella mia testa il “Vi farò pescatori di uomini” (Mt 4, 18-22) e non posso non pensare alla Rete.