Chiesa: “È paladina della pace perché il suo popolo non ha confini”
"Ci siamo cimentati in questa Giornata del Diritto – premette monsignor Tommaso Valentinetti, arcivescovo di Pescara-Penne e moderatore del Tribunale ecclesiastico diocesano - dal tema “Forza, ragione e prospettive del Diritto internazionale nell’attuale contesto”. Un contesto che ci vede ascoltare e vivere, attraverso le notizie che ci vengono dai mass media, una situazione alquanto complicata e difficile in cui il diritto internazionale – molto spesso – soffre alcune situazioni difficili"
È stato il segretario della Santa Sede per i Rapporti con gli Stati e le organizzazioni internazionali monsignor Paul Richard Gallagher, in occasione della Giornata del Diritto ospitata lo scorso venerdì presso il Teatro Cavour di Pescara, a dichiarare aperto l’anno giudiziario 2024 del Tribuna ecclesiastico diocesano e di Pescara-Penne e di appello per la regione ecclesiastica Abruzzo-Molise.
Un appuntamento promosso dall’Arcidiocesi di Pescara-Penne, dal Tribunale ecclesiastico diocesano, dall’Unione giuristi cattolici (Unione di Pescara) e dall’Associazione canonistica diocesana, al quale hanno partecipato anche le autorità civili e militari tra cui spiccavano il sindaco Carlo Masci e il prefetto Flavio Ferdani: «Ci siamo cimentati in questa Giornata del Diritto – premette monsignor Tommaso Valentinetti, arcivescovo di Pescara-Penne e moderatore del Tribunale ecclesiastico diocesano – dal tema “Forza, ragione e prospettive del Diritto internazionale nell’attuale contesto”. Un contesto che ci vede ascoltare e vivere, attraverso le notizie che ci vengono dai mass media, una situazione alquanto complicata e difficile in cui il diritto internazionale – molto spesso – soffre alcune situazioni difficili». Sulla stessa linea il presidente del Tribunale ecclesiastico diocesano di Pescara-Penne don Maurizio Buzzelli: «Il Tribunale ecclesiastico – precisa il presbitero – vive di diritto e non poteva rimanere estraneo a quanto sta accadendo nel mondo che ci circonda».
IL RAPPORTO TRA FORZA E DIRITTO
È stato dapprima il professor Vincenzo Cannizzaro, docente di Diritto internazionale all’Università La Sapienza di Roma, a riflettere sul tema di giornata: «Sono stato invitato a parlare di questioni che sono quasi al confine dell’argomentazione giuridica, forse anche al di là. Forza e diritto è una diade complicata, molto complicata. Credo che gli eventi di questi giorni ci fanno inevitabilmente invocare il diritto contro la violenza, che è la negazione del diritto. E quindi ci volgiamo al diritto internazionale, che è un ordinamento particolarmente complicato tanto che alcuni possono sostenere la sua insistenza. È vero che il diritto internazionale solo in parte rispecchia le dinamiche che noi viviamo nei nostri ordinamenti statali normali. Ecco perché forza e diritto è una coppia di termini che stridono fra di loro. Tutti i grandi pensatori dell’umanità, a cominciare da Aristotele, poi via via fino a Kant fino a oggi, considerano che sono due nozioni incompatibili, dove c’è la guerra non c’è diritto. Nel suo piccolo libro “Per una pace perpetua”, Kant a un certo punto dice che se c’è un diritto, il diritto dovrà essere attuato dalla forza e quest’ultima è al servizio del diritto. Ma se invece la forza è fatta per per realizzare i propri interessi, nessuno può dire che quella realizzazione sia giusta o ingiusta per il semplice motivo che è stata semplicemente fondata sulla forza. Dice Kant “Quando la forza prevale, nessun giudice può dire che sia giusta o ingiusta”. Parole molto profetiche, assolutamente. Per molti secoli, il diritto internazionale sembra aver ammesso l’uso della forza. Il diritto internazionale è una costruzione relativamente recente, c’è una data di nascita convenzionale che è la Pace di Westfalia, la quale non è che abbia fondato granché, ma insomma è stata la data convenzionale nella quale si è preso atto di una realtà che tutti potevano vedere, cioè che non c’era più l’universalismo giuridico che si incardinava nell’impero romano e nella cristianità. A quel punto si prese atto che lo Stato non riconosceva nessuna autorità sopra di essa da un punto di vista giuridico».
LA NASCITA DI DUE DIRITTI INTERNAZIONALI: UNO PER LA PACE, L’ALTRO PER LA GUERRA
Questa viene definita dal giurista la “rivoluzione di Westfalia”: «Non c’è più un universalismo giuridico – spiega il professor Cannizzaro – nel quale l’imperatore è il capo supremo il quale riconosceva nel Papa, in una diarchia ideale, l’altro capo della cristianità, ma c’erano tanti stati sovrani. Questa realtà c’era già prima, ma da allora in poi gli Stati hanno cominciato a pensare di entrare in relazione l’uno con l’altro, sulla base del diritto, mantenendo la possibilità di fare la guerra. Com’è possibile? La Pace di Westfalia è di 5-6 secoli addietro, ma solo nella metà del ‘900 questa questa convinzione giuridica che possano coesistere il diritto e la violenza ha avuto termine. Io, per la verità, penso che delle regole sulla guerra c’erano prima. Non solo regole di carattere umanitario, ma immagino che una società che ha dei membri, i quali si riconoscono tali, dove tutti riconoscono l’esistenza di un minimo assetto di relazioni giuridiche, non potesse accettare che per una ragione qualsiasi uno stato aggredisse l’altro. La verità è che lo si faceva, ma con una giustificazione, spesso anche giuridica, o comunque si passasse dal diritto della pace al diritto della guerra attraverso la dichiarazione di guerra. Quindi c’erano due ordinamenti, quello della pace e quello della guerra, e l’idea che l’ordinamento internazionale si divide in diritto internazionale della pace e diritto internazionale della guerra, permane fino agli anni ‘50. Fino ad allora gli studiosi, prevalentemente anglosassoni, ritenevano di poter dividere in due partizioni il diritto internazionale».
CONFERENZA DI SAN FRANCISCO, 1945: “L’UNICO MOMENTO IN CUI LA PACE POTEVA REALIZZARSI”
Poi, nei tempi moderni, il diritto internazionale ha iniziato a interrogarsi sulla possibilità di mettere al bando la guerra: «Non solo sulla base di riflessioni filosofiche di alcuni pensatori – precisa il docente di Diritto internazionale all’Università La Sapienza di Roma -, ma certamente anche sulla base di considerazioni di carattere pratico. La Carta delle Nazioni Unite apre nel suo preambolo, “Coscienti della guerra che in questo secolo – eravamo nel 1945 alla Conferenza di San Francisco – ha portato indicibili flagelli all’umanità, i popoli delle Nazioni Unite dichiarano di mettere al bando la guerra”. La Conferenza di San Francisco non è venuta di per sé improvvisamente. Già all’inizio del ‘900 e forse anche alla fine dell’800 ci sono state manifestazioni di questo tipo. Già nelle Convenzioni dell’Aia del 1907, erano convenzioni di diritto bellico, la seconda convinzione incorpora il cosiddetto “Trattato Porter” che vietava agli Stati partner di questo trattato – l’Europa è poco altro – di usare la guerra per il recupero dei crediti. Noi, nella nostra società, abbiamo abolito il carcere per debiti, più o meno c’è una certa analogia. Cioè non si poteva assolutamente fare ricorso alla guerra per recuperare i debiti degli stati occidentali nei confronti degli altri stati. Da lì parte un processo che tende a mettere la guerra fuori dal diritto internazionale. La Società delle Nazioni provò proceduralmente a farlo, ma questa idea morì con la seconda Guerra mondiale. Alla fine di quest’ultima i Paesi vincitori, Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno Unito al quale venne associata la Francia – che non era un Paese vincitore, ma c’erano motivi geopolitici – queste potenze invitanti hanno invitato gli stati ad una conferenza nel corso ancora delle ostilità nel 1945, la Conferenza di San Francisco, nella quale fluiscono molte frizioni e molte ispirazioni. Certo, c’è il desiderio di non vedere più gli atroci flagelli, come dice la Carta dell’umanità, della seconda guerra mondiale. Ma c’era anche un idealismo wilsoniano, potrei dire, per le quali la Conferenza di San Francisco è stata celebrata in un modo particolarmente evocativo. Tutti gli Stati parteciparono, tutti cooperarono, tutti. Non c’era ancora la guerra fredda, c’era un clima irripetibile. Forse è stato l’unico momento in cui l’umanità ha trovato un punto di coagulo per realizzare l’utopia. Kant aveva immaginato di fare un trattato che mettesse al bando la guerra».
“LA VIOLENZA VA POSTA AL SERVIZIO DEL DIRITTO”
Così, l’accademico si è chiesto cosa accadrebbe se si verificasse quest’ultima evenienza: «L’ho detto e lo ripeto – afferma il docente universitario -. La violenza deve essere messa al servizio del diritto. Così è nei nostri ordinamenti giuridici. Se io parcheggio la macchina fuori, allora i vigili urbani mi fanno la multa, poi chiamano il carroattrezzi e mi portano via la macchina. Questo è l’uso della forza, io non posso portare via le macchine di altri, neanche se si sono messe nel mio passo carrabile, ma i vigili urbani possono farlo. Quindi la violenza, nei nostri ordinamenti, è al servizio del diritto. Ebbene Kant, nella sua opera filosofica, non osò mai immaginare che, oltre a un trattato nel quale gli Stati rinunciassero alla guerra, ci potesse essere una devoluzione del potere di usare la forza a un ente centrale. Per quale motivo? Nessuno lo sa, ci sono varie speculazioni intellettuali su questo. Primo, poteva sembrare un’utopia. Secondo, e forse questa è la risposta più giusta che si esprime non ne “La pace perpetua” ma in uno dei suoi allegati, perché se si fosse realizzato un ente che potesse usare la forza per realizzare il diritto, si sarebbe arrivati allo Stato universale. E quello sarebbe il preludio della tirannia globale. Meglio avere degli Stati che creano un equilibrio, piuttosto che avere un “super-Stato” che può portare alla tirannia globale. E questo ci fa veramente capire il rapporto – molto ambiguo – tra forza e diritto. E invece a San Francisco si è fatto esattamente questo. San Francisco ha approvato la Carta delle Nazioni Unite, che mette al bando l’uso della forza tra gli stati (articolo 2, paragrafo 4). Poi è andata avanti e ha istituito degli organi centralizzati, il Consiglio di sicurezza e l’Assemblea generale. In particolare, il Consiglio di sicurezza avrebbe dovuto essere l’unico organo titolare del potere di usare la forza, non al servizio del diritto ma al servizio del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale».
Da ciò scaturiscono delle azioni precise: «Da un punto di vista teorico – illustra il professor Vincenzo Cannizzaro -, gli Stati si spogliano del potere di usare la forza, ma non la conferiscono integralmente all’ente centrale, alle Nazioni Unite. La conferiscono soltanto per scopi particolari, quello del mantenimento della pace. Questo vuol dire due cose. Prima cosa, il sistema delle Nazioni Unite è fondato su di un binomio “pace senza giustizia”. La giustizia non può essere realizzata con la forza. Seconda cosa, forse anche più importante, il monopolio della forza in capo al Consiglio di sicurezza, avrebbe dovuto essere fondato sul consenso delle grandi potenze. E quindi ciascuna delle grandi potenze, le quattro che ho menzionato, poi si aggiunge la Cina. Questi Stati hanno riservato per se stessi il potere di vietare, di porre un vento alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza. Questo a noi oggi sembra molto strano. Nei nostri ordinamenti, le persone che hanno il potere di usare la forza non lo usano per realizzare scopi politici, lo usano per far rispettare il diritto. Quindi è una valutazione tecnica, non politica. Invece, l’uso della forza nel diritto internazionale è soggetto a valutazioni politiche, che sono a disposizione delle cinque grandi potenze. Ne basta una affinché una risoluzione non venga adottata. È un difetto delle Nazioni Unite? Qui entreremmo in un campo incognito. Certo, a noi sembra tale. Le Nazioni Unite non sono un’istituzione democratica, sono una sorta di direttorio come quello della rivoluzione francese, ma questo rispecchia la situazione geopolitica del 1945. Il consenso delle grandi potenze, sarebbe stato l’unico modo per poter usare la forza al servizio della pace. Dal 1945 ad oggi sono passati 80 anni. Nel frattempo abbiamo vissuto varie ere geopolitiche. La guerra fredda, la caduta del muro di Berlino e il dominio dell’Occidente».
CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE: “ATTACCHI INGIUSTIFICABILI DA ENTRAMBE LE PARTI”
Quindi le conclusioni dell’esperto: «Io penso – denota il giurista dell’Università La Sapienza di Roma – che noi tutti siamo consapevoli che le prospettive geopolitiche stiano per cambiare e che le guerre che noi stiamo vedendo sul telegiornale, siano un sintomo di questa crisi geopolitica. Quest’ultima può avere molte ragioni radici. Una di esse è forse la circostanza che dopo la caduta del bipolarismo e l’avvento di un’unica guida del mondo a trazione occidentale, siano stati commessi molti errori geopolitici che vengono pagati oggi. Vi ricordo che nella crisi Ucraina molto faticosamente, l’Assemblea generale Onu non ha poteri decisionali, è stata condannata l’aggressione russa. Ci sono due o tre risoluzioni-chiave dell’Assemblea. Nel 2022, mi pare fossero 130 gli Stati che hanno votato a favore della condanna, 4 o 5 contro, con molte astensioni fra le quali alcune sintomatiche. Immaginiamo che le astensioni degli Stati che si sono rifiutati di condannare all’aggressione, contano – a livello di popolazione – più degli Stati che hanno votato a favore della risoluzione. Siamo veramente su di un crinale molto complesso. Nella crisi di Gaza atroce, nulla può giustificare l’assalto di Hamas ai kibbutz israeliani, soprattutto nelle modalità e nei termini con la quali queste azioni sono state compiute. Ma nulla può giustificare le reazione israeliana, totalmente priva di proporzione, che viola il diritto di guerra, quello delle Convenzioni dell’Aia, ma anche quelle più moderne – come la Convenzione di Ginevra del 1948 di cui Israele è parte. Sono colpiti, infatti, gli ospedali, le moschee, i lunghi culto e così via. Per fare un piccolo esame ontologico, io vi dirò che ho dei dubbi che l’azione israeliana possa essere considerata un genocidio».
CANNIZZARO: “IL CONTRATTACCO DI ISRAELE VERSO HAMAS NON PUO’ ESSERE CONSIDERATO UN GENOCIDIO”
A tal proposito, l’accademico ha precisato la motivazione di questa sua convinzione: «Sono certo che l’azione israeliana è stata fondata su disprezzo di molte delle leggi e costumi di guerra – puntualizza Cannizzaro -, ma sul genocidio mantengo una riserva tecnica. Il genocidio è una parola molto evocativa, quindi per dire qualcosa che supera la nostra immaginazione, diciamo “Quello è un genocidio”, ma ha anche una dimensione tecnica che dobbiamo considerare e che la Corte internazionale di giustizia dell’Aia, nella sua ordinanza cautelare, credo abbia considerato senza dirlo. Il genocidio è nato come crimine individuale. La parola “genocidio” non è stata utilizzata dal Tribunale di Norimberga, è stato utilizzato il termine “crimine contro l’umanità” al fine di giudicare e condannare i gerarchi nazisti, non la Germania. Per molto tempo, fino al 1986, si credeva che il genocidio fosse solo un crimine individuale, perché quello dice più o meno la Convenzione sul genocidio. Sennonché quest’ultima, dice anche che gli Stati possono adire la Corte internazionale di giustizia per questioni concernenti l’interpretazione o l’applicazione della Convenzione. E allora si capì, nel caso della guerra nell’ex Jugoslavia – anche questa un episodio atroce – che anche gli Stati possono commettere genocidio, ma il livello è molto alto, perché il genocidio è costituito da una condotta materiale, crimini di guerra ad esempio, con qualcosa in più. Cioè l’intento di distruggere un gruppo nazionale etnico, religioso permanentemente. Di conseguenza, se io uccido un civile con l’intento mio, di persona umana, di cooperare alla distruzione, io commetto un genocidio. Se uno Stato uccide 10-100 mila-200 mila persone senza rispettare le leggi di guerra, è un crimine di guerra, può essere un crimine contro l’umanità, ma se non c’è in capo allo Stato un intento specifico, non è genocidio. Dobbiamo cercare anche di essere pertinenti sul terreno tecnico che il diritto internazionale ha affermato, non traslando i fenomeni umani, i fenomeni delle violazioni delle leggi di guerra direttamente nel genocidio, perché ci sembra una cosa più grave. Non è così».
SANTA SEDE: “PALADINA QUALIFICATA DEL PRIMATO DELLA PACE“
Quindi è stato il segretario della Santa Sede per i Rapporti con gli Stati e le organizzazioni internazionali monsignor Paul Richard Gallagher ad illustrare il funzionamento del suo ufficio, nell’ambito dei rapporti internazionali intessuti dal Vaticano: «La Santa Sede – spiega il presule – vuole intrecciare un dialogo proattivo con il mondo, a livello istituzionale, al fine di cooperare nella promozione integrale dell’uomo. Al pari degli altri Stati la Santa Sede, con il cui nome si intende il Romano Pontefice, la Segreteria di Stato, le altre istituzioni della Curia romana, è soggetto di diritto internazionale che partecipa al consesso internazionale con una particolarissima vocazione universale. Essa non si fa portatrice di visioni di parte e dalla propria attività internazionale non ha aspettative di trarne vantaggi, seppur indiretti politici o economici, ma desidera sostenere l’idea di convivenza frutto di giusti rapporti, di rispetto delle norme internazionali, di tutela dei diritti umani fondamentali ad iniziare da quelli degli ultimi, i più vulnerabili. La Santa Sede, proprio in forza della sua identità spirituale, intende quindi collaborare alla risoluzione dei grandi problemi dell’umanità, operando per la salvaguardia del carattere trascendente dell’uomo e dei suoi diritti fondamentali, come afferma chiaramente il Concilio Vaticano II. La Chiesa, tuttavia, non desidera affatto intromettersi nel governo della città terrena. Essa non rivendica a se stessa altre sfere di competenza, “se non quella di servire gli uomini amorevolmente e fedelmente con l’aiuto di Dio”, citazione di Paolo VI. La sua diplomazia è un aspetto e uno strumento della sua missione e si caratterizza per l’ispirazione morale e religiosa che ne condiziona, in larga parte, la metodologia. Alla Chiesa sta a cuore l’uomo e la sua comunità. Tale attenzione si coniuga con la caratteristica della neutralità, perché il popolo che la compone non ha confini. Ciò permette alla Santa Sede di essere paladina qualificata del primato della pace nel consesso degli Stati e di concomitanti soluzioni negoziali nel caso di controversie internazionali. Inoltre, proprio la consolidata connotazione umanitaria dei suoi interventi, giustificano l’adozione di ogni forma di misura o provvedimento, sempre da parte della Santa Sede, che possa preservare dalle guerre o almeno dalle loro più gravi conseguenze, i civili inermi e le persone più fragili».
LA SEGRETERIA PER I RAPPORTI CON GLI STATI E LE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI DEL VATICANO
Partendo da questo presupposto, ecco l’importanza della presenza della Santa Sede: «Essa – approfondisce l’alto prelato – non si presenta come una mera agenzia umanitaria, ma come un soggetto di diritto internazionale con specifici compiti di mediazione e per cui ha le funzioni di negoziato tra stati. Compiti e funzioni finalizzati alla difesa dell’umanità secondo il mandato del suo fondatore. A svolgere tali compiti è chiamata la sezione per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni internazionali da me presieduta. Essa funge da ministero degli Esteri e la sua competenza riguarda questioni che devono essere trattate con le autorità civili. Essa favorisce le relazioni diplomatiche con gli Stati e gli altri soggetti di diritto internazionale, con i quali tratta le questioni comuni per la promozione della Chiesa e della società civile, mediante concordati e altre convenzioni. La Santa Sede, presente anche presso gli organismi internazionali e la nostra sezione, ne studia i relativi temi e determina la posizione della Chiesa di fronte ad essi. Quest’opera è svolta sia tramite rappresentanti pontifici presso le varie organizzazioni, sia attraverso i contatti con i governi e i rispettivi ambasciatori. A tali competenze, se ne aggiungono altre di carattere maggiormente ecclesiastico. Infatti in determinate circostanze, per speciale incarico del Sommo Pontefice, essA svolge tutto ciò che riguarda gli atti a nome dei vescovi nelle diocesi e la costituzione di un mutamento delle stesse circoscrizioni ecclesiastiche. Pensiamo ad esempio alla vita della Chiesa nel mondo sovietico prima della caduta del muro di Berlino, o nella Cina attuale. In altri casi, dove vige il regime concordatario, essa ha il compito di condurre le trattative con i governi civili. Nonostante la Santa Sede di intrattenga rapporti diplomatici con 184 Stati, a cui si aggiungono l’Unione europea e il Sovrano Ordine militare di Malta, e partecipi in vario modo a più di 30 istituzioni intergovernative, va sottolineato che questi numeri non esprimono posizione di riguardo o di chissà quale esercizio di potere, ma piuttosto l’evidenza di un’ampia dimensione di lavoro quotidiano, complesso e sovente difficile, il cui obiettivo rimane ad intra la suprema legge della “Salus animarum”, mentre ad extra l’ordinata convivenza tra i popoli che – per la visione cristiana – è il vero presupposto alla pace. La sezione che mi onoro di presiedere si avvale oltre che di due sottosegretari, uno per i rapporti con gli Stati e l’altro per il settore multilaterale, anche di 40 ufficiali e oltre una ventina di altri collaboratori. La mattinata, generalmente, è dedicata alle visite dei rappresentanti di governi e ambasciatori ecclesiastici, nonché agli incontri con altri dicasteri della Curia romana; al pomeriggio è riservato lo studio delle pratiche, almeno quelle di maggiore importanza, che devono essere presentate settimanalmente alla considerazione del Papa. Un notevole impegno richiedono anche le visite all’estero, sia per prendere parte alle sessioni assembleari delle istituzioni internazionali, sia per corroborare le relazioni con gli Stati e le Chiese locali. Spesso proprio i rapporti di stima reciproca che si creano in tali occasioni, possono poi favorire le attività di mediazione che la Santa Sede offre alla comunità internazionale quando richiesta».
LA MEDIAZIONE VATICANA NELL’ASSEGNAZIONE DEL CANALE DI BEAGLE TRA ARGENTINA E CILE
A questo punto, monsignor Gallagher ha illustrato due esempi pratici dell’impegno mediatore del Vaticano. Il primo caso ha riguardato la tensione tra Argentina e Cile in riferimento alle rivendicazioni sull’appartenenza del Canale di Beagle: «Proprio quarant’anni fa, con la firma in Vaticano del Trattato di pace e amicizia, si pose fine alla controversia tra Argentina e Cile sul sovranità del canale scoperto il 14 Aprile 1830 dal comandante inglese Robert Fitzroy, a bordo della nave “Beagle” di cui porterà il nome. Il canale conteso collega il Pacifico all’Atlantico, estendendosi per la lunghezza di 230 chilometri, secondo le tesi sempre sostenute dal Cile, o di meno di 190 chilometri come sosteneva inizialmente l’Argentina. La controversia è sorta per la determinazione di una vera uscita dal canale. Va tenuto presente che un trattato sul confine argentino-cileno del 1881, stabiliva che tutte le isole a sud dal Canale di Beagle erano attribuite al Cile. Ecco, quindi, l’importanza di indicare quale dei due bracci orientali ne costituiva la parte finale. La rivalità tra i due Paesi, non nacque solo dalla necessità di indicare – da un punto di vista strettamente geografico e giuridico – l’appartenenza di alcune piccole isole insistenti in quell’area, ma anche dell’esigenza di definire il l’esatta demarcazione territoriale e marittima in una regione molto promettente dal punto di vista del potenziale economico. Solo nel 1915 l’Argentina comincia a contestare ufficialmente l’autorità del Cile sulle isole. Area in cui l’attività del Cile è diventato molto intraprendente, tanto che si temeva una messa in discussione del “principio bioceanico”, noto anche come principio Atlantico-Pacifico, fondamentale relazione tra i due Paesi, cioè il Cile nel Pacifico ovest e l’Argentina nell’Atlantico est. Nasce così la controversia. I cileni ritengono che il Trattato del 1881 abbia risolto la questione, stabilendo un chiaro confine del Canale di Beagle secondo una linea di demarcazione nord-sud, mentre il principio Atlantico-Pacifico può essere invocato solo per lo Stretto di Magellano. Gli argentini, invece, sostengono che questo principio si riferisce alla totalità dei confini tra i due Paesi e che quindi i negoziatori del Trattato del 1881, intendevano in realtà segnare una linea di demarcazione est-ovest nel Canale di Beagle. Per più di mezzo secolo, la disputa si svilupperà attraverso battaglie legali, incidenti diplomatici e tensione militari fino a quando, nel 1970, sembrano finalmente prevalere atteggiamenti di moderazione e di ragionevolezza. Le due parti si accordano, quindi, su di una procedura arbitrale in grado di risolvere la controversia attraverso gli strumenti del diritto internazionale. Così da un lato, come desiderano i cileni, le parti concordano di seguire le procedure stabilite nel Trattato di arbitrato del 1902, che designa il Re d’Inghilterra come arbitro; dall’altro gli argentini, che temono una parzialità dell’Inghilterra a cui contestano la sovranità sulle Isole Falkland-Malvinas, ottengono che Londra non eserciti direttamente tale responsabilità, ma la deleghi a un tribunale nominato ad hoc è composto da giudici della Corte internazionale di giustizia dell’Aia. Il 18 aprile 1977 la sovrana britannica sancisce la decisione della Corte secondo la quale appartengono alla Repubblica del Cile le isole Picton, Wave e Lennox, congiuntamente agli isolotti immediatemente adiacenti ad esse. L’Argentina, convinta che la decisione calpesti i suoi interessi vitali e irrinunciabili, dichiara in una nota di considerare insanabilmente nulla la decisione dell’arbitro; il Cile risponde risolutamente di considerare nulla la dichiarazione di nullità argentina. La situazione si deteriora e l’Argentina inizia a prendere in considerazione l’idea di una soluzione militare della controversia, che porterebbe inevitabilmente i due Paesi alla guerra. Sollecitato dagli episcopati di Argentina e Cile, da diversi Stati latino-americani e dal governo statunitense, Giovanni Paolo II decide di intervenire quando ormai è prossimo un conflitto armato tra i due Paesi e, spinto dal desiderio di cooperare la pace tra le nazioni, impegna la Santa Sede in un’azione di mediazione. L’11 dicembre 1978, quando i responsabili di Argentina e Cile pensavano ormai esaurite le possibilità di giungere ad un accordo, Giovanni Paolo II invia loro un messaggio, perché insistano nel ricercare in una soluzione ragionevole al problema. Nonostante ciò lo scontro bellico appare ormai inevitabile e il Papa, in pochi giorni, invia alle due nazioni il Cardinale Antonio Samorè quale suo rappresentante speciale. Il primo frutto dell’azione papale si vede già l’8 gennaio 1979, quando i due Paesi con gli accordi di Montevideo richiedono espressamente l’azione mediatrice della Santa Sede, per guidare i negoziati e ricercare una soluzione definitiva alle divergenze. Con tale accordo ebbe inizio un nuovo e lungo processo negoziale, che si avvalse anche di una serie di preziosi accorgimenti giuridici e dell’ausilio esperienziale del cardinale Antonio Samorè, precedentemente Nunzio apostolico in Colombia e a lungo segretario della Congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari, l’attuale sezione per i Rapporti con gli Stati e le organizzazioni internazionali. Il processo, che nel frattempo vide succedere al cardinale Samorè – mancato nel 1983 – il cardinale Agostino Casaroli (allora Segretario di Stato), giunge alla sua conclusione con la stipula del Trattato di pace e di amicizia tra i Ministeri degli esteri argentino e cileno, avvenuta in Vaticano il 29 novembre 1984, mentre lo scambio degli strumenti di ratifica avverrà il 2 maggio 1985, sempre nella Città del Vaticano. Il Trattato, in sostanza, regola una transazione. L’Argentina rinuncia a qualsiasi pretesa territoriale a sud del Canale di Beagle, in cambio del formale riconoscimento del principio bioceanico non solo nella zona australe, ma anche nello Stretto di Magellano. Per concretizzare, poi, lo spirito di conciliazione e collaborazione che è alla base dell’intero trattato, le parti si impegnano a promuovere e sviluppare la cooperazione in numerosi settori, tra cui la previsione di chiare procedure conciliatorie e arbitrali per la risoluzione pacifica di tutte le possibili controversie future. Infine, il Trattato si rivela un esempio da seguire e imitare per il mondo intero. Due membri della comunità internazionale che, rinunciando all’uso della forza, si impegnano solamente a rispettare tutte le regole del diritto internazionale e a promuovere la cooperazione bilaterale in uno spirito di amicizia, buona fede e comprensione reciproca. Fu un cammino lungo e complesso che si concluse felicemente, in modo giusto e pacifico».
CONFLITTO RUSSO-UCRAINO: L’IMPEGNO DELLA SANTA SEDE PER IL RIMPATRIO DEI MINORI UCRAINI IN RUSSIA
L’altro esempio di mediazione vaticana è avvenuto più recentemente, in riferimento all’azione umanitaria in favore del rimpatrio di minori ucraini dislocati nella Federazione russa dopo l’inizio delle ostilità tra Russia e Ucraina: «Sono trascorsi purtroppo già poco più di due anni dall’inizio dell’aggressione della Federazione russa all’Ucraina – ricorda il segretario per i Rapporti con gli Stati e le organizzazioni internazionali del Vaticano -, di fronte alla quale la Santa Sede non è rimasta inoperosa. Vari sono stati i tentativi messi in atto prima dello scoppio della guerra, per offrire la facilitazione al dialogo tra le parti, nel rispetto del diritto internazionale e dell’integrità territoriale, per tenere vivo un canale di dialogo tra le parti e per invitare entrambi ad una soluzione negoziata. Ricordo poi la visita personale di Papa Francesco all’ambasciatore russo, accreditato presso la Santa Sede, il 25 Febbraio 2022. Il dialogo con il patriarca Kirill, l’invio in Ucraina dei cardinali Michael Czerny e Konrad Konrad Krajewski a sostegno della popolazione, i numerosissimi appelli pubblici del Pontefice – soprattutto durante la preghiera domenicale dell’Angelus – con un richiamo forte e deciso ad una pace giusta. Segnalo che nei primissimi mesi dell’aggressione, il nunzio apostolico in Ucraina è rimasto a Kiev con pochissimi altri ambasciatori, mentre la maggior parte di essi si era spostata a Leopoli per ragioni di sicurezza. Come si può immaginare, l’attività in questi casi è spesso sottotraccia per non deprimerne l’efficacia. Ma tra le azioni umanitarie messe in campo, va denotata e apprezzata una il cui coordinamento è stato affidato al cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, volte a tutelare i minori delle zone di guerra e, in particolare, tesa a favorire il ricongiungimento dei bambini alle loro famiglie. Tanti di loro non sono quelli che vivevano nel proprio nucleo familiare, e con i propri tutori, ma anche gli orfani e minori privi di cure parentali che – dopo l’aggressione – sono stati dislocati in aree della Federazione russa e affidati ad altre famiglie, alloggiati in centri di assistenza sociale e orfanotrofi e sistemati in centri di formazione poco adatti alla loro permanenza. La separazione dai genitori è venuta anche per la velocità con cui si è mosso il fronte di guerra nei primi giorni dell’attacco, non permettendo ai genitori di rientrare nelle proprie case a prendersi cura dei figli. Altri minori sono stati raccolti da autorità russe nell’operazione di controllo delle zone ucraine, sulle quali stendevano le proprie forze. In generale, è difficile tuttora conoscere che l’esattezza la situazione di molti di loro. Sono state le stesse autorità ucraine, tramite la propria ambasciata presso la Santa Sede e la Nunziatura apostolica in Ucraina, a sollecitare l’aiuto di Papa Francesco per favorire il rimpatrio dei minori ucraini. Dai territori sotto il controllo russo, per tali missioni il Papa ha scelto appunto il cardinal Matteo Zuppi, la cui storia si intreccia anche con altre esperienze di mediazione in situazioni di conflitto. L’opera del porporato ha carattere diplomatico, perché oggi al centro della sua attività c’è l’azione umanitaria in favore dei minori in territori di conflitto armato e perché essa è condotta in coordinamento, non solo con la sezione per i Rapporti con gli Stati e le organizzazioni nazionali, ma anche con le due nunziature apostoliche coinvolte che prestano la propria assistenza nei rispettivi Paesi. Dopo un’iniziale contatto personale e diretto tra il cardinale Zuppi e le autori civili dei due Paesi, in cui è avvenuto lo scambio della lista dei minori segnalati, si è passati ad una fase in cui le parti hanno accolto la proposta di costituire gruppi stabili di lavoro, che si mettano in comunicazione reciproca con la partecipazione delle rappresentanze pontificie. Si è avviato così uno scambio regolare di informazione. Le due nunziature facilitano gli incontri tra il cardinale Zuppi e le autorità civile e seguono da vicino l’effettività del meccanismo per il rimpatrio dei minori, trasmettendo le liste prendendo parte – in alcuni casi – all’effettivo rimpatrio dei minori nonché alla conferma dell’avvenuto ricongiungimento. Tra i risultati più gratificanti, ricordo quello ottenuto con un ragazzo alla vigilia del suo diciottesimo compleanno, ricorrenza che avrebbe modificato sostanzialmente la sua situazione legale e non ne avrebbe permesso il rientro in patria. A Mosca, poi, nella sede nunziatura apostolica, una mamma ha potuto ricongiungersi con i suoi cinque figli. Le difficoltà non mancano, tra queste ricordo la complessità di fornire da ambo le parti le informazioni precise sui minori e i numeri ancora esigui per i rimpatri. La Santa Sede si augura che le procedure di rimpatrio siano accelerate e che cresca la fiducia tra le parti coinvolte. Peraltro, la stessa questione è seguita anche dal Qatar, dall’Unicef e da alcune organizzazioni non governative».
Da qui le conclusioni di monsignor Paul Richard Gallagher: «Troppo spesso – osserva l’alto prelato – sentiamo dire che la realtà è complessa e che per i problemi complessi non ci sono soluzioni semplici. È vero, ciò non deve però essere una scusa per ritirarsi nel privato o per limitarsi ad assistere agli eventi. Incontrando i rappresentanti pontifici, Papa Francesco ha offerto in proposito un’indicazione di metodo, “Non siate intermediari, piuttosto siate mediatori e con la mediazione fate la comunione”. E parimenti anche un monito: “Fare sempre con professionalità le cose, perché la Chiesa vuole così e quando un rappresentante pontificio non fa le cose con professionalità, perde anche autorità”. Auguro a tutti di edificare la pace, dono di Dio e frutto del lavoro delle sue creature».
L’IMPEGNO DELLA SANTA SEDE NEL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE
In seguito, nell’ambito di alcune domande rivolte dal pubblico partecipante, monsignor Gallagher ha avuto anche modo di riepilogare l’impegno profuso nella mediazione del conflitto israelo-palestinese a cui, ultimamente, si è aggiunto anche il coinvolgimento iraniano: «Come sezione per i Rapporti con gli Stati – approfondisce il presule -, cerchiamo di seguire i fatti del conflitto. Ci mettiamo in contatto con i nostri rappresentanti e pure con i capi religiosi, il cardinale Pizzaballa, il Patriarca latino e altri. Evidentemente siamo sempre in contatto con gli ambasciatori di Palestina e Israele presso la Santa Sede. In realtà, credo che quello che facciamo con più consistenza nel seguire le cose, è l’aiuto nei confronti del Santo Padre per i suoi appelli e i suoi interventi. Ovviamente seguiamo l’evolversi delle cose anche nell’ambito delle Nazioni Unite, attraverso il nostro rappresentante permanente. Cerchiamo di agire in modo positivo e abbiamo anche un coinvolgimento umanitario per Gaza, soprattutto tra le agenzie cattoliche tipo Caritas, e le varie nazioni. E poi ci sono state delle visite. Io, ultimamente, sono stato in Giordania; il cardinale Krajewski è andato a Natale in Terra santa per accompagnare il cardinale Pizzaballa. Per quanto riguarda l’Iran, dopo quanto accaduto negli ultimi giorni, evidentemente noi speriamo e operiamo affinché la cosa sia contenuta, che le parti in conflitto cerchino veramente e utilmente la pace. In qualsiasi modo possiamo essere utili, cerchiamo di farlo».
TRIBUNALE ECCLESIASTICO DIOCESANO: “205 CAUSE INCARDINATE DAL 2018 AL 2023”
Al termine, il presidente del Tribunale ecclesiastico diocesano don Maurizio Buzzelli ha snocciolato i numeri che hanno riassunto l’ultimo anno di lavoro dell’organismo giudiziario: «Le cause incardinate nel quinquennio 2018 (anno di nascita di questo tribunale)-2023 – ricorda il presbitero – sono state 205, passate in giudicato 176, archiviate 3 di cui una già riassunta. Rimangono pendenti 26 cause. Solo 3 sono realmente in arretrato per motivi non riferibili al Tribunale. Le sentenze che hanno fatto ricorso all’appello in questi 5 anni sono state 7, 2 alla Rota romana, 2 al Tribunale ecclesiastico di appello di Benevento, perché fino al 2022 era il nostro Tribunale d’appello, e 3 invece al Tribunale ecclesiastico interdiocesano di Chieti, perché dal 2022 è il nostro Tribunale di appello. Sono state 3, invece, le cause che hanno fatto appello al nostro tribunale, provenienti dal Tribunale interdiocesano di Chieti. Il capo più invocato è stato il canone 1095, “Grave difetto di discrezione di giudizio per immaturità affettiva o per mancanza di libertà interiore”, ricorre almeno in 110 cause. In questi casi, il Tribunale si avvale anche del supporto scientifico della psichiatria e della psicologia. Altre attività svolte nel quinquennio, 17 rogatorie provenienti da altri tribunali ecclesiastici, 1 rogatoria per processo di beatificazione proveniente dalla diocesi di Cagliari e 3 dispense dagli oneri sacerdotali».