La prova del nuovo
Ci sono verità di fede semplici, nette e indiscutibili, come i postulati della geometria euclidea: essi sono bene o male contenuti nei “symbola fidei”, le varie versioni del “Credo” elaborate dai primi secoli dell’avventura cristiana fino a oggi. Senza queste verità, semplicemente non si può fare teologia: ad esempio, nessuno può fare teologia senza ritenere vero il contenuto dell’asserzione dell’esistenza di Dio. C’è pure – è vero – una particolare branca della teologia che si occupa di questioni particolarmente “borderline”, come la credibilità dell’esistenza di Dio, l’ammissibilità di una rivelazione divina (e via dicendo); questa branca si chiama “teologia fondamentale”, ed è bene sapere che c’è per non ridursi a pensare che i “postulati” della fede non possono essere discussi e investigati, ma per oggi non c’interessa. Dicevo invece che ci sono queste verità teologiche irrinunciabili, la cui non condivisione pregiudica ipso facto lo stesso poter prendere parte a un discorso teologico; come ci sono queste verità chiare, lampanti, evidenti di per sé, ce ne sono altre che sono mano a mano meno chiare, meno evidenti, meno lampanti ed apparentemente meno necessarie – queste possiamo vederle come il corrispettivo teologico dei teoremi matematici.
Tali “teoremi” sono di molti tipi, ma oggi (all’inizio del nuovo anno civile) vorrei soffermarmi con voi su uno di questi: quello che segna col suo grande marchio proprio la solenne apertura del nuovo anno, peraltro dedicata (dal 1968) alla pace mondiale – la “divina maternità” di Maria. Sembrerà scontato parlare di Maria come della “Madre di Dio”, come pure sembrerà esagerata la domanda di un amico che mi chiedeva ragione di questo importante titolo… Forse chi non è stato educato fin da piccolo a rivolgersi così a Maria ha davanti a sé tutta la strada che ancora i Padri del Concilio di Efeso (430) stavano percorrendo: risale a quel tempo, infatti, l’acme di quella disputa che chiedeva se fosse giusto chiamare Maria “Madre di Dio” (Theotòkos) o se non fosse piuttosto meglio limitarsi a un più circostanziato “Madre di Cristo” (Christotòkos). Che differenza c’è? Appena si giunge a questo punto si manifesta con evidenza che il problema, in realtà, non riguarda tanto Maria, quanto lo stesso Cristo; viceversa si scopre che se Cristo è il centro del Mistero di Dio, Maria però (ben lungi dall’essere a sua volta “il centro”) è centrale nel Mistero di Cristo.
Ma proseguiamo con ordine, e cerchiamo di vederci un po’ più chiaro: la disputa del concilio di Efeso riguardava Maria “di sponda”, visto che ciò che veramente era in ballo era la comprensione dell’unità di quanto in Cristo si comprendeva come “umano” e di quanto in lui si comprendeva come “divino”. Sarà utile, anche per intravvedere la dinamica dell’assimilazione dei progressi dottrinali nella Chiesa, tenere a mente che questa disputa si protrarrà, tra molti e pesantissimi contrasti, almeno fino al 451, quando a Calcedonia parve trovarsi una formula che per certi versi accordò tutti, e che riteniamo sostanzialmente inalterata ancora oggi. Prima di questo processo (e per certi versi ancora oggi!) alcuni ritenevano che le due “nature” di Cristo fossero considerabili ciascuna di per sé, e che quindi di fatto esistessero “due Cristi” (uno umano e uno divino); altri invece ritenevano che non ci fosse che una sola “natura”, e che questa avesse assunto l’umanità da Maria. Ho scritto “natura” e “nature” tra virgolette perché questo termine, per noi tutto sommato familiare, ci viene proprio da quella lunga e complessa disputa, e i protagonisti di questa non erano affatto concordi sul senso che attribuivano alle parole comuni!
Se guardiamo a ciò che c’è oggi nei nostri bagagli concettuali, risulta evidente che sulla grande linea ha “vinto” il secondo gruppo, ossia quello che – per non giungere ad avere “un Cristo schizofrenico” – ritenne opportuno e doveroso chiamare Maria “Madre di Dio”. Essi intendevano che, sebbene Maria non avesse dato origine alla divinità del Figlio di Dio, la sua umanità – che da lei e mediante lei ha preso consistenza e vita – non è stata mai separata dal Verbo di Dio. Se quindi a Maria si può dire: «Quem cæli capere non poterant / tuo gremio contulisti» [«Colui che i cieli non avevano potuto contenere / l’hai portato nel tuo grembo»], che cosa vieterà che la si chiami “Madre di Dio”?
Ecco, dunque, che guardando con attenzione viene chiaramente in luce che il titolo di Maria e la dignità di Cristo sono l’uno la messa a fuoco dell’altro. Ora, se si comprende questo, non è difficile intuire il grande spessore delle devozioni mariane, né sorprenderà troppo il constatare come si sia concesso molto alla celebrazione del legame di grande intimità tra Madre e Figlio (quello per cui «il Verbo si è fatto carne»). Un caso esemplare, in merito, è quello della devozione al latte di Maria: scrostiamo la patina “devozionale” dalla bella parola “devozione”, e lasciamoci condurre in una storia che ha il via a metà del secondo secolo nelle catacombe di Priscilla, vive in Oriente e in Occidente (tra Copti, Siri, Francesi e Fiamminghi) fino ad assopirsi dopo il Concilio di Trento (per un succinto compendio di questa storia clicca qui).
Una volta di più, verifichiamo che da un lato la storia di una devozione può distinguere in sé un “momento teologico fondativo” e un “momento devozionale fruitivo”. L’immagine di Maria col seno nudo e gocciolante latte in vista è anzitutto la prova evidente della realtà dell’umanità di Cristo (certo, quanto a questo più utile in epoche in cui, a differenza della nostra, nessuno dubitava della sua divinità): il latte di Maria è cioè “la prova del nuovo”, dell’inaudita novità prodottasi con l’admirabile commercium [“meraviglioso scambio”] che Cristo è. L’immagine poi, intima e materna, ha rapidamente mosso a fiducia le cristiane, che avevano un motivo in più, rispetto ai cristiani uomini, di vedere in Maria “una di loro”: la “madonna del latte” è divenuta così mano a mano “la patrona delle puerpere”, una sorta di Giunone cristiana cui si chiedeva d’impetrare la grazia di un parto regolare e di un generoso funzionamento delle ghiandole mammarie in allattamento.
Una degenerazione della devozione, dunque? Passiamo costantemente da un fervoroso acume teologico a un pigro studio utilitaristico? Forse non è necessario spingersi a tanto, se consideriamo che a questi due versanti della devozione si aggiunge un’ispirazione trasversale, che è quella mistica (vedi link) – quella per cui non si nega la rilevanza singolare del caso di Maria, ma neppure si trascura il peso che esso assume in ordine alle dinamiche generali della vita di Grazia. Abbiamo già avuto occasione di vedere che corrispondere alla Rivelazione del Dio di Gesù Cristo significa coinvolgersi in un affaire che porta a lasciare che il Verbo di Dio prenda inesorabilmente sempre più spazio nell’intera concreta umanità del credente, come in una gestazione (vedi link). Se divenire madri di Cristo, ossia madri di Dio è la proposta che Dio, in Gesù Cristo, fa a tutti, ogni credente ha di che vedere in Maria e nel suo latte il segno della possibilità del prodigio che Dio pro-pone.
È facile tutto questo? Certo che no, perché è semplicissimo, mentre noi siamo complessi (e complicati): se le rappresentazioni del latte di Maria hanno subito una battuta d’arresto per causa del Concilio di Trento (un cui decreto proibiva di rappresentare le sante con «immagini attrattive provocanti»), è evidente che l’ispirazione mistica s’era tanto rarefatta nel senso comune da rendere inintelligibili – quando non letteralmente scandalose! – le immagini.
Prendiamone una davvero “estrema”, dipinta dallo spagnolo Pedro Machuco (verosimilmente nel 1517): “La virgen y las ánimas del Purgatorio”, in cui addirittura è il Bambino che strizza i seni della Madre perché il latte di Maria temperi le pene delle anime purganti! Un vero rebus per il dialogo ecumenico, certo, ma nella sostanza non c’è nient’altro che ciò che si evince dalle numerose rappresentazioni (specie rinascimentali) dei genitali di Cristo messi in evidenza dalla Madre (sull’argomento si può consultare Leo Steinberg, La sessualità di Cristo nell’arte rinascimentale e il suo oblio nell’età moderna, Il Saggiatore, Milano, 1986). La didaskalìa della tela di Machuco è chiara: il Bambino, che è già da sempre il Cristo Redentore, mostra all’osservatore che la ragione della sua speranza (cf. 1Pt. 3,15) è condensata nel fatto che la sua umanità è verissima, perché nutrita dei più terreni ed elementari dei cibi; non solo, ma la ragione della speranza sta nel fatto che anche a lui egli offre la possibilità di essere «fratello, sorella e madre» (Mc. 3,31-35) di Cristo, e di offrire al Verbo di Dio il vero, genuino, mistico latte della propria devozione perché egli s’incarni nella sua umanità.
Maria, Madre di Dio, è una di noi – la migliore di noi. Per il suo latte abbiamo “la prova del nuovo”, che è il Figlio di Dio divenuto figlio dell’uomo perché l’uomo diventasse figlio, fratello, sposa e madre di Dio.
Foto: Ambrogio Lorenzetti, Maria lactans, 1340 (ca.).