Il posto del coperchio
È un dovere del giornalista di cronaca, parlare dei recenti e sempre più frequenti attentati a danno dei cristiani nel mondo, oppure è compito dell’“opinionista” (parola quanto mai invisa a chi scrive) di Terza? Forse di entrambi. E se c’è una penna che può scrivere di questi argomenti, dovrà questa essere la penna di un apologeta o quella di un avvocato? Forse di entrambi, e certo non è pretesa di chi firma questa pagina ambire a tanta varietà di attrezzatura concettuale, ma proviamo ugualmente a tracciare qualche punto di riflessione. Perché mai? Perché nient’altro che la cultura e la civiltà (tutto quello che in tedesco si dice con “Kultur” e in inglese con “Civilization”) sono in ballo quando, su banali ovvietà come quelle ribadite da Benedetto XVI e da Giorgio Napolitano a inizio d’anno “nuovo” (giusto per ricordare gli ultimi due), si scatenano polemiche che non vengono subito spente nel silenzio dei media. “Il Papa non parla quando sono i musulmani a essere perseguitati”! Se c’è la buona fede è l’ignoranza a rendere la dichiarazione grottesca e patetico il suo latore.
Ma facciamo qualche passo indietro, perché chi scrive non ha potuto, in questi giorni, non ricordarsi del pranzo condiviso proprio sugli ultimi lembi di terra africana, ad Alessandria, con un sacerdote ortodosso e con sua moglie. La signora, presagli la mano, gli disse, grave: «Ma perché fate entrare i musulmani in Europa?» per continuare, dopo un istante di silenzio: «Voi non vi rendete conto di quello che vi faranno…». Certo, la dichiarazione è troppo pesante per essere sposata in pieno e in ogni caso il valore della tolleranza religiosa è stato troppo faticosamente guadagnato dall’Europa (e dall’Occidente tutto) perché ora lo si mandi giù come una pillola contro le allucinazioni. I Papi e il Magistero cattolico, va poi riconosciuto, sono stati tra i più recalcitranti nell’appropriarsi di questa lezione, che il vecchio continente ha studiato seguendone il filo tra le proprie vive piaghe: quante notti insonni è costata a Paolo VI la firma della Dignitatis Humanæ, dopo che Pio IX e Pio X avevano avuto (per ultimi) le loro ragioni per rigettare un indiscriminato egualitarismo tra le religioni? I timori del Papa del Concilio si saranno sopiti, dopo quella firma? Torniamo però al pranzo di Alessandria: si potrà per queste ragioni minimizzare il senso di angoscia che quella donna iniettò in una tranquilla conversazione conviviale? In realtà, pur non contenendo affatto una soluzione al problema, la seconda frase era precisamente la risposta alla prima: noi si lascia i portoni spalancati precisamente perché non ci si rende conto. Ma non solo degli altri, e ribadiamo che in nessun modo sembra convincente ricavare delle “formule inverse” xenofobe da queste considerazioni; non ci si rende conto anzitutto di noi stessi – ovvero di ciò che noi si è e di ciò che noi non si è.
È vero, anzitutto, che non conosciamo granché dell’Islam: i pochissimi di noi che hanno sfogliato il Corano sono un’infima parte di quanti lo citano, e le precomprensioni che condizionano l’opinione pubblica sono quasi tutte mutuate da ideologie non dichiarate, o che irenicamente si dichiarano “super partes”. Se questo è vero, e dice della generalmente diffusa incostanza nell’accostare criticamente l’analisi di un qualsivoglia problema, non lo è meno che non esiste alcun “Catechismo musulmano”, né alcun “Vaticano islamico”, né tantomeno un “Papa maomettano”. Cosa cambia? Cambia che manca ogni punto di riferimento universalmente riconosciuto, la distanza dal quale costituirebbe “eresia” e potrebbe pertanto essere respinta e combattuta. E cosa resta, allora? Resta la favola dell’“Islam moderato” (per una diversa sfumatura su questa stessa posizione leggi Messori), che non si fonda su altro che su preconcette alleanze politiche (spesso di mediocre marca antisionistica), buonismo da prima serata e incapacità di analisi critica.
Ma non parliamo di libri e idee, che potrebbero portarci lontani dalla realtà; parliamo di fatti e incontri, sui quali normalmente le idee si fondano e i libri si scrivono. La stessa persona che non ha potuto non ricordare in questi giorni quel pranzo ad Alessandria non ha potuto nemmeno dimenticare una notte trascorsa, tempo prima, a Tunisi: aveva incontrato due simpatici ragazzi, autoctoni, con cui s’era rapidamente imbastita una conversazione che spaziava brillantemente dalla storia alla teologia alla politica. Bene, il passaggio indimenticabile della conversazione fu quando i due si guardarono a vicenda al suo parlare di “laïcité” (la conversazione si svolgeva in francese), per poi chiedergli di voler spiegare cosa intendesse. Al suo esemplificare, allora, che dopo la Pace di Westfalia e la Révolution si tiene molto a distinguere, in Europa, l’ordinamento giuridico civile da quello religioso, gli hanno chiesto, sbigottiti: «E come si fa?»
Storie? Pregiudizî? Propaganda? No: incontri, racconti, riflessioni. Non si vendono ricette, qui.
Ciò non toglie che ci pare illuminante la dritta data da Benedetto XVI ai fedeli musulmani, quando suggerì loro (in più occasioni) di tentare l’apertura della loro esegesi ai presupposti storico-critici e delle loro società ad almeno una parte dei valori guadagnati dall’Occidente nella modernità. Sono piccoli passi, certo, ma concreti e che possono preparare il terreno a un incontro franco e fecondo.
Perché non si può parlare dell’Islam (né di alcuna religione) riducendo tutto il discorso alla bontà delle persone che vi si trovano, né alla grandezza delle invenzioni fatte da alcune di esse. Sarebbe come dire che il cristianesimo è una cosa buona perché Madre Teresa fu una donna di straordinaria bontà, o perché Pascal inventò il primo calcolatore meccanico! Anche l’argomento della letteratura mistica prodotta, in sé, non è risolutivo: il senso religioso s’estrinseca ovunque elevandosi al sublime – i Sufi non sono, in senso lato, “diversi” dai cristiani renani o dai padri del deserto – e quindi non basta, da solo, a indicare il valore specifico di una “religione”. Sì, perché in tempi che tanto hanno enfatizzato la giusta distinzione ricœuriana tra “religione” e “fede” è bene ricordare che il fenomeno della “fede” non si manifesta mai privo dei caratteri proprî della storicità della “religione”, e che le dottrine, i riti, la morale (se possono essere relativizzati in qualche prospettiva teologica), sono comunque l’oggetto più inerente alla res publica, alle faccende politiche. Così un mediatore interreligioso che minimizzi la portata delle divergenze o misconosca la grandezza delle posizioni di questa o di quella religione si squalifica dal campo in cui pretende di giocare un ruolo tanto rilevante.
Ad esempio, c’è un grande, fondamentale problema teologico nel dialogo tra cristiani e musulmani: il fondatore dell’islam pretese che la sua religione fosse per il cristianesimo ciò che questo fu per l’ebraismo. L’incongruenza sta nel fatto che l’ebraismo è disposto “come un sistema aperto” nei confronti di un “coronamento messianico” che funga “da chiusura”, mentre il cristianesimo non attende nient’altro che la seconda manifestazione del messia già visto e conosciuto. Il cristianesimo è un po’ come il coperchio di una pentola, la quale sta per l’ebraismo: la pretesa mussulmana di porre un coperchio sul coperchio poteva essere giustificata soltanto falsando (con un ritardo storico di più di mezzo millennio) la figura e i detti di Gesù come emergono dai documenti della sua epoca! Ecco allora la necessità di parlare di esegesi ed ermeneutica, ma questo è un dibattito necessariamente riservato agli specialisti! Quali ricerche sono aperte alle persone comuni? Proprio quelle il cui oggetto costituisce il patrimonio della storia comune.
Innumerevoli volte, infatti, i pochi personaggi che paiono serbare memoria di quel patrimonio accennano alla necessità di ri-cercarne e ri-comprenderne “le radici”. Un esempio: qualche politicante polemico ha blaterato fesserie circa l’autonomia della fonte dello ius romanum in quel famigerato patrimonio. Evidentemente non sono chiare non solo le nozioni tecniche dello ius romanum e la storia delle sue evoluzioni, ma anche quelle poche nozioni di civiltà latina che bastano a sapere – ad esempio – che il paterfamilias aveva ed esercitava lo ius necis potenzialmente su tutti i membri della familia. Nessun referendum e nessuna raccolta di firme potevano alcunché contro il marito di una qualunque Sakineh latina, e se Svetonio scrive che sotto Claudio la “pena del sacco” (il terribile supplizio riservato ai parricidi) fu comminata più della crocifissione ci si può immaginare che l’ordinamento dello ius romanum avesse i suoi passi da fare (ad esempio per sottrarsi ai suoi fantasmi parricidi). Il declino dell’impero e l’influsso crescente dei cristiani (nonché della grande chiesa costantiniana, di cui tanto a sproposito si sparla) hanno prodotto quei lenti ma radicali mutamenti da cui è fiorita la Christianitas. Quando la sua sclerosi la portò a essere ciò che venne chiamato “ancien régime”, il fermento storico fu tale che s’innescò una serie di trasformazioni mai vista prima d’ora e tuttora in atto. Tale formidabile carosello va lasciato in mano a chi? Si può mai essere tanto rozzi da schierarsi tra gli oltranzisti dei cancelli spalancati o tra quelli delle cortine sprangate?