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A braccia aperte

Come la nostra Chiesa riguadagnò una nuova coscienza di sé specchiandosi nella nostra parabola

Incisione di Giovanni Battista Piranesi (Particolare. Elaborazione grafica G. M.)

Oggi arriviamo a fondo corsa. E ci arriviamo solo perché abbiamo deciso così, eh! I secoli della modernità sono enormemente carichi di testi, immagini, prove, indizî – si pensi solo che uno storico del calibro di Giacomo Martina ebbe a dire che «la storia antica non è attendibilissima, perché sappiamo troppo poco; parimenti la storia moderna non è attendibilissima, perché sappiamo troppo».
Una scelta, dunque, s’impone, e preferisco sorvolare su cose pure importantissime come la crisi politica dello stato pontificio, che ha gli estremi della “forbice” nel periodo napoleonico e più tardi in quello risorgimentale; neppure possiamo soffermarci, per ora, sul fenomeno del modernismo, sul quale però dovremo tornare, prima o poi. Il Novecento, poi, è secolo di un incontrollabile pullulare di teologie: pensare di raccoglierle tutte in un colpo d’occhio, per quanto vago, è pura utopia. No, dobbiamo fare una scelta, e una scelta che ci permetta di considerare una quantità ragionevole di dati senza ricadere nel particolarismo (che cosa significa, per noi, sapere come Raymond Brown, o chiunque altro, interpretò una parabola vent’anni fa?).
Mi sono perciò risolto ad analizzare i documenti prodotti dai due Concilî vaticani: hanno parlato della zizzania, questi concilî? Con mia enorme sorpresa ho dovuto verificare che soltanto in un passo di uno dei due si fa esplicito riferimento alla nostra parabola. Possibile? Che il multiforme fascino di questo testo strepitoso si sia esaurito proprio ai nostri giorni? Sembrerebbe di no, se si va a osservare con attenzione le ricorrenze delle parole-chiave della parabola (zizzania esclusa: seme, campo).
Come mai allora nel Vaticano I non troviamo neanche uno di questi termini? Due cose, semplificando, vanno dette: da un lato il Vaticano I ha avuto il tempo di produrre solo due grandi documenti (la costituzione Dei Filius e la costituzione Pastor Æternus), prima che l’irruzione degli Italiani nello Stato Pontificio interrompesse la riunione; dall’altro il Vaticano II ha scelto apertamente di essere un concilio molto diverso dal precedente – dopo un inizio “regolare” i Padri conciliari hanno deciso di porre in essere un evento ecclesiale il cui stile sarebbe necessariamente dovuto essere “nuovo”, perché sempre nuova è la consegna che la riunione si affidava: fare il punto dell’autocoscienza della Chiesa. Proprio questa consegna tracciava la continuità e la discontinuità col concilio precedente: anche la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia (appunto risalente al Vaticano I) era una tappa dell’autocoscienza ecclesiale, che segnava nuovi irrinunciabili traguardi della consapevolezza del ministero petrino che la Chiesa guadagnava; il cambiare dei tempi richiedeva di guardare ad altri elementi – i vescovi, che cominciavano a consultarsi regolarmente in embrionali “conferenze episcopali”, gli operaî, che obbligavano i pensatori di tutto il mondo a un nuovo tipo di filosofia della persona umana e del valore del suo lavoro, le donne, che in più parti del mondo prendevano a rivendicare e a guadagnare diritti a danno di ogni sistema patriarcale, in una parola la modernità arrivata ai suoi frutti più maturi. Fenomeni di inusitata complessità: per la prima volta nella piccola storia degli uomini tanti problemi arrivavano tutti insieme, tutti collegati fra loro. La Chiesa doveva pronunciarsi, e questo pronunciarsi non significava soltanto dire che cosa pensava di quelle cose, ma anzitutto chi e cosa era lei per pensare qualcosa in quel mondo. «Noi c’eravamo da prima» sembrava una risposta non più convincente, anzitutto per la Chiesa stessa.
La Costituzione dogmatica Lumen Gentium, che proprio di rispondere a questa domanda si occupa, afferma: «La parola del Signore è paragonata appunto al seme che viene seminato nel campo (cfr. Mc 4,14): quelli che lo ascoltano con fede e appartengono al piccolo gregge di Cristo (cfr. Lc 12,32) hanno accolto il regno stesso di Dio; poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del raccolto (cfr. Mc 4,26-29)» (LG 5). Vediamo che il riferimento evangelico non è proprio diretto alla parabola della zizzania, ma sfrutta nondimeno le dinamiche dell’immagine agreste (soprattutto nel richiamare il misterioso “automatismo” degli effetti della Parola di Dio negli uomini). Continua poco dopo, dichiarando a chiare lettere: «La Chiesa è il podere o campo di Dio (cfr. 1 Cor 3,9)» (LG 6). La magica ambivalenza della simbologia del campo, però, non s’è neutralizzata nel nostro secolo, ed ecco che all’improvviso il campo è anche il mondo: «In questo modo il campo del mondo si trova meglio preparato per accogliere il seme della parola divina, e insieme le porte della Chiesa si aprono più larghe, per permettere che l’annunzio della pace entri nel mondo» (LG 36).
Possiamo dire che, se la Lumen gentium si è proposta come risposta alla domanda su chi la Chiesa pretenda mai di essere, la Gaudium et spes si è proposta come una rapida sintesi di quello che la Chiesa pensa di questa sua contemporaneità: il tono è davvero “nuovo” per dei documenti magisteriali – il complesso di sconvolgimenti politici, sociali ed economici di cui dicevamo prima ha consigliato alla Chiesa (che è santa ed è madre) di dismettere i toni paternalisti con cui s’era abituata a trattare le faccende mondane, e a “inaugurare” una modesta ma fiera “curiosità”, rasserenata dalla fiducia che la verità resta comunque dominio di Gesù Cristo, e che quindi questi non mancherà di manifestarsi, in qualche modo.
Quello che però la Chiesa pensa di sé e del mondo non è stato detto in appena due Costituzioni: altre serie di documenti minori (tre Decreti e nove Dichiarazioni) affrontano nel dettaglio tematiche “annunciate” nelle due grandi Costituzioni (che comunque non sono gli unici documenti conciliari del loro genere). Ad esempio, ancora nella Lumen gentium era stato detto: «Predicando il Vangelo, la Chiesa dispone coloro che l’ascoltano a credere e a professare la fede, li dispone al battesimo, li toglie dalla schiavitù dell’errore e li incorpora a Cristo per crescere in lui mediante la carità finché sia raggiunta la pienezza. Procura poi che quanto di buono si trova seminato nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti e culture proprie dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e perfezionato a gloria di Dio, confusione del demonio e felicità dell’uomo» (LG 17). Ecco che tornano i semi, ma stavolta non si sa più se il sottinteso campo è il cuore (/la mente) degli uomini, i riti o le culture dei popoli: la Chiesa tornava a ricordarsi (l’idea, in effetti, era già del II secolo!) che quando aveva evangelizzato per la prima volta non aveva trovato una tabula rasa, ma tanti piccoli appiglî, sul volto rugoso della “pienezza dei tempi”, che le hanno permesso di compiere quella prima (epica) scalata.
L’idea era di Giustino, che aveva coniato l’ingegnosa espressione “i semi del Verbo”, a indicare ciò che il Figlio eterno di Dio – prima d’incarnarsi in Gesù Cristo – aveva disseminato qua e là, un po’ ovunque, per facilitare la strada ai suoi futuri discepoli (qualcosa come un papà che apre un conto in banca al figlio il giorno stesso che ha saputo dalla moglie che un bambino dovrà arrivare). Il Concilio la riprende nel Decreto Ad Gentes: «Tutti i cristiani infatti, dovunque vivano, sono tenuti a manifestare con l’esempio della loro vita e con la testimonianza della loro parola l’uomo nuovo, di cui sono stati rivestiti nel battesimo, e la forza dello Spirito Santo, da cui sono stati rinvigoriti nella cresima; […].
Ma perché essi possano dare utilmente questa testimonianza, debbono stringere rapporti di stima e di amore con questi uomini, riconoscersi come membra di quel gruppo umano in mezzo a cui vivono, e prender parte, attraverso il complesso delle relazioni e degli affari dell’umana esistenza, alla vita culturale e sociale. Così debbono conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si trovano nascosti» (AG 11). E con tutto questo il Concilio non si fece spericolato, visto che immediatamente prosegue: «Debbono seguire attentamente la trasformazione profonda che si verifica in mezzo ai popoli, e sforzarsi perché gli uomini di oggi, troppo presi da interessi scientifici e tecnologici, non perdano il contatto con le realtà divine, ma anzi si aprano ed intensamente anelino a quella verità e carità rivelata da Dio». Il modello resta lo stesso Figlio di Dio, che prima dell’Incarnazione aveva sparso tracce della sua signoria universale dappertutto: «Come Cristo stesso penetrò nel cuore degli uomini per portarli attraverso un contatto veramente umano alla luce divina, così i suoi discepoli, animati intimamente dallo Spirito di Cristo, debbono conoscere gli uomini in mezzo ai quali vivono ed improntare le relazioni con essi ad un dialogo sincero e comprensivo, affinché questi apprendano quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli; ed insieme devono tentare di illuminare queste ricchezze alla luce del Vangelo, di liberarle e di ricondurle sotto l’autorità di Dio salvatore».
Ma che vuol dire “prima dell’Incarnazione”? Si apre un problemone che non posso trattare qui (rimando gli interessati alla lettura della Dominus Iesus (clicca link), su cui tanto prima o poi torneremo), ma possiamo semplificare ragionevolmente così: i semi del Verbo sono il fatto che ogni uomo è pensato, in Dio, come immagine del Figlio di Dio incarnato, ossia di Gesù Cristo (già Paolo se ne rendeva conto!). Questo rende il sentimento religioso dell’uomo quanto di più santo e inviolabile ci sia: un uomo che sia tale, dunque, ha l’obbligo morale di investigare le tracce d’infinito che trova in sé (ricordate?), ma in questo conserva il diritto inviolabile a non essere coartato nella vita religiosa.
Riflettendo su questo delicatissimo equilibrio, il Concilio sente di dover ricorrere (per l’unica volta) alla nostra amata parabola. Scrivono infatti i Padri conciliari nella Dichiarazione Dignitatis humanæ: «Dio chiama gli esseri umani al suo servizio in spirito e verità; per cui essi sono vincolati in coscienza a rispondere alla loro vocazione, ma non coartati. Egli, infatti, ha riguardo della dignità della persona umana da lui creata, che deve godere di libertà e agire con responsabilità. Ciò è apparso in grado sommo in Cristo Gesù, nel quale Dio ha manifestato se stesso e le sue vie in modo perfetto. […] Certo, ha sostenuto e confermato la sua predicazione con i miracoli per suscitare e confortare la fede negli uditori, ma senza esercitare su di essi alcuna coercizione. Ha pure rimproverato l’incredulità degli uditori, lasciando però la punizione a Dio nel giorno del giudizio.
Mandando gli apostoli nel mondo, disse loro: «Chi avrà creduto e sarà battezzato, sarà salvo. Chi invece non avrà creduto sarà condannato» (Mc 16,16). Ma conoscendo che la zizzania è stata seminata con il grano, comandò di lasciarli crescere tutti e due fino alla mietitura che avverrà alla fine del tempo. […] Finalmente ha ultimato la sua rivelazione compiendo nella croce l’opera della redenzione, con cui ha acquistato agli esseri umani la salvezza e la vera libertà. Infatti rese testimonianza alla verità, però non volle imporla con la forza a coloro che la respingevano. Il suo regno non si erige con la spada ma si costituisce ascoltando la verità e rendendo ad essa testimonianza, e cresce in virtù dell’amore con il quale Cristo esaltato in croce trae a sé gli esseri umani. […] La Chiesa pertanto, fedele alla verità evangelica, segue la via di Cristo e degli apostoli quando riconosce come rispondente alla dignità dell’uomo e alla rivelazione di Dio il principio della libertà religiosa e la favorisce. Essa ha custodito e tramandato nel decorso dei secoli la dottrina ricevuta da Cristo e dagli apostoli. E quantunque nella vita del popolo di Dio, pellegrinante attraverso le vicissitudini della storia umana, di quando in quando si siano avuti modi di agire meno conformi allo spirito evangelico, anzi ad esso contrari, tuttavia la dottrina della Chiesa, secondo la quale nessuno può essere costretto con la forza ad abbracciare la fede, non è mai venuta meno.
Il fermento evangelico ha pure lungamente operato nell’animo degli esseri umani e molto ha contribuito perché gli uomini lungo i tempi riconoscessero più largamente e meglio la dignità della propria persona e maturasse la convinzione che la persona nella società deve essere immune da ogni umana coercizione in materia religiosa» (DH 11-12).

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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