Intercettare l’Ispirazione
È tutt’altro che facile spiegare che cosa vuol dire che “la Bibbia è ispirata”. Il fatto è sicuro, anche perché questo è uno dei (pochi) asserti teologici che la Bibbia stessa contiene letteralmente: «Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia» (2Tim 3, 16). L’autore della seconda Lettera a Timoteo, però, non poteva avere la benché minima idea di cosa fosse da ritenersi per “tutta la Scrittura”, ma questo glie lo si perdona facilmente, visto che ci sono stati cristiani che dopo quindici secoli hanno finto che nessuno prima di loro ne avesse mai avuto idea, e che per questo si sono permessi di ritagliarne i pezzi che facevano a pugni con le loro teologie.
Non è importante, adesso: il fatto è che, nonostante le tante encicliche, le discussioni, i concilî e gli utilissimi progressi delle scienze esegetiche, proprio non ci riesce di mettere nero su bianco in modo univoco e universalmente accettabile che cosa significa che la Bibbia è “ispirata”. La faccenda dev’essere di una qualche importanza, visto che il testo che abbiamo riportato sopra dice che oltretutto la Scrittura è fatta così com’è fatta (ossia “ispirata da Dio”) per «formare alla giustizia». Dev’essere per questo motivo che Giulia Innocenzi – smaniosa di capeggiare una folla paragonabile a quella che la settimana scorsa assediava Wall Street – si lamenta a destra e a manca ché in Italia non si riesce mai a fare una manifestazione di piazza per bene. O forse non ha capito niente, la povera Giulia – chissà se aveva torto, Sgarbi, a invitarla a tornare a studiare, adesso che (ancora) ne ha l’età – visto che Bersani ha dichiarato che siamo dei fessi a discutere di intercettazioni, quando abbiamo un sacco di problemi più gravi a pungolarci!
Spero che nessuno venga a dirmi che la teologia non c’entra niente con la politica, perché non mi pare di vedere all’orizzonte qualcuno che abbia capito cosa c’entra con cosa. Tra l’altro, il mio accostamento è forse più sensato (e sicuramente più innocente) di quello che Repubblica ha fatto qualche giorno fa, accostando leggiadramente le proprie paginacce ideologiche sul ddl-intercettazioni alla toccante segnalazione del festival cagliaritano di letteratura per ragazzi dal titolo “Non dirlo a nessuno”. Ora, se un giornale nazionale compone una notizia di eventi culturali di provincia in mezza pagina (prego notare) trasudante stucchevole melassa rousseauiana; se la notizia appare ritardata di quasi dieci giorni rispetto all’apertura dell’evento; e se i toni sono proprio quelli del “com’è bello non avere segreti, proprio come da bambini”, allora lo sforzo che ci vorrebbe per trascurare il carattere subliminale della composizione del testo è al di sopra delle mie forze. Così ecco un esempio lampante, a chi non rifiuta di vederlo, di come possa esserci un’armonia particolare tra due testi originariamente differentissimi, il cui accostamento corrisponde a una volontà – superiore a quelle di chi ha scritto l’uno e l’altro pezzo – la quale pervade del proprio messaggio non scritto l’uno e l’altro testo. Questo è un modellino (di proporzioni infinitesimali) del concetto di “ispirazione”.
Di fatto, è un’ispirazione vera e propria, anche se di raggio cortissimo: la stessa Scrittura, del resto, non nega che vi siano molte ispirazioni, dal momento che raccomanda di «non prestare fede a ogni ispirazione, ma di mettere alla prova gli spiriti per saggiarne l’identità» (cf. 1Gv 4, 1). Una cosa che la politica e la teologia hanno in comune è che entrambe – come molte scienze umane – detestano la fretta: sarebbe bello, allora, poter parlare tra Italiani della cosiddetta “legge bavaglio” senza dover immediatamente trovarsi a rispondere alla domanda se per caso si sia “per Berlusconi”. Lo stesso chiedere un minuto di tempo per lumeggiare una problematizzazione adeguata della questione viene presa come un ozioso e odioso temporeggiamento nei confronti della sola domanda che conta: «Tu per chi tifi?». Sì, perché in Italia – fin dai tempi di Roma antica – interessarsi di politica è lo stesso che interessarsi di sport, e il guizzo che giustamente si ritiene virtù grande del calciatore viene ritenuto mirabile lucidità anche del pensiero politico.
Siccome invece vale la pena dare alle cose il tempo di cui necessitano, non si può permettersi di non riconoscere lo spirito che guida dichiarazioni come quella di Di Pietro: «Anche se dovessero inserire tutto il ddl Mastella nel provvedimento, noi diremo no […]». Perché no? «Perché siamo contrari al bavaglio alla stampa». Ma questo è uno slogan, non una ragione: è una presa di posizione arbitraria e incomprensibile da parte di un ex-magistrato, che dovrebbe aver particolarmente a cuore l’articolo 595 del Codice di Diritto Penale italiano (contro la diffamazione) e ancora di più la presunzione d’innocenza, quella norma elementare del diritto penale che proibisce che chiunque anticipi, in un senso o nell’altro, il verdetto della legittima Corte.
Il fatto che le contingenze politiche del momento presente configurino evidentemente il ddl come sospetto di tracciare una legge ad personam rende certamente tutto molto più complicato, ma le pur gravi contingenze non dovrebbero spingere – o si dirà: summum ius, summa iniuria! – a respingere ad personam una legge giusta (naturalmente si può discutere sul dettaglio del testo, e questo è stato pure – in parte – fatto, ma Di Pietro boccerebbe addirittura il ddl-Mastella!). Il bizantinismo dell’Onorevole molisano s’è spinto poi fino a dire che i cronisti non devono essere imputabili, perché «semmai è chi gli [sic!] passa le carte violando il segreto istruttorio che deve risponderne». Ci asteniamo dal consigliare all’Onorevole un ripasso volante dei pronomi nella lingua italiana, anche perché la stessa Sacra Scrittura trabocca (in certe sezioni) dei segni di una padronanza linguistica non luminosa; tuttavia l’ex-magistrato dovrebbe ancora spiegare come possa essere ritenuto non-imputabile uno che divulga un’informazione coperta da segreto istruttorio, ancorché evasa da un altro (la classica talpa). Se “la talpa” è rea, il giornalista pagante (perché le talpe non “scavano” mica per niente!) sarà innocente?
L’arrampicata sugli specchî è tale da potersi comprendere solo alla luce del desiderio personale di un ex-magistrato di acciuffare un latitante della cui reità egli è personalmente certo: Di Pietro, però, non è neanche l’ombra dello splendido Javert di Hugo, mentre resta da chiedersi se per il processo e per l’eventuale condanna di Berlusconi egli non sia disposto a mettere in gioco qualcosa che forse può valere di più dello stesso presunto trionfo della giustizia. Voglio dire che essere «contrari al bavaglio alla stampa» può significare il riporre nella stampa (e nei lettori) le speranze cui al momento la magistratura sembra essere resa incapace di corrispondere. Per dirla con le parole della Innocenzi: «Perché se ci guardiamo intorno siamo più di quanto [sic!] non pensiamo. E se tutti noi facciamo un piccolo sforzo possiamo riempire quelle piazze, e far oscillare il palazzo, liberandolo [grassetto dell’Autrice, n.d.r.] così da una classe politica che ci ha sfinito, ma non ci ha buttato a terra». Anche la cara Giulia potrebbe riprendere in mano con frutto le distinzioni tra l’uso avverbiale e quello assoluto del pronome relativo di quantità, ma andiamo al sodo: la Innocenzi può star tranquilla perché non le capiterà mai di capitanare altro che squadre di studentelli sovreccitati, però quello che la sua penna sbarazzina annota con leggerezza in queste righe ha un altro nome – rivoluzione – e non mi pare cosa molto diversa da quella cui meno imprudentemente anche Di Pietro mostra indulgere.
Già, perché sperare che la piazza compia ciò che le Istituzioni non riescono a compiere significa già decretare il fallimento e la morte della Democrazia (ancorché questo avvenga in modo incruento). Ecco perché – se l’ispirazione divina serve per “formare alla giustizia” – la democrazia può giovarsi di capire, una volta tanto, che cosa intendiamo per “ispirazione”.
E procediamo per assurdo: ipotizziamo di aver intercettato in qualche modo tutti i colloquî della storia sacra, e di averli sbobinati e trascritti con precisione maniacale – ipotizziamo, in breve, di aver “intercettato l’ispirazione divina”. Quello che avremmo sarebbe una cosa in nulla paragonabile con la Sacra Scrittura: immaginate soltanto – una sola versione dei comandamenti, una sola versione del Padre Nostro, una sola genealogia di Gesù, un solo vangelo dell’infanzia, un solo racconto della passione, della morte e della risurrezione di Gesù; e poi una sola vocazione di Paolo, mai divergenze nei Vangeli tra i racconti delle parabole di Gesù, mai errori e mai contraddizioni. Chiarezza assoluta sugli abbinamenti tra luoghi, tempi ed eventi.
La nostra Scrittura, invece (quella “utile per formare alla giustizia”), è un ginepraio di ambiguità, contraddizioni e oscurità; la sua provvidenziale congiunzione, però, permette di riconoscere già nelle divergenze tra un racconto e l’altro le tracce di primitivi adattamenti dello Spirito (della lettera) a questa o a quella contingenza. Vedere che le più disparate comunità avevano ritenuto in brevissimo tempo ugualmente significativi i testi prodotti con gli adattamenti alle situazioni più diverse (altro è scrivere il Vangelo secondo Matteo altro quello secondo Giovanni) ha guadagnato presto ai cristiani la consapevolezza che la loro Sacra Scrittura non è la Parola di Dio – a differenza di quanto si crede nell’Islam a proposito del Corano – bensì la contiene. La distinzione tra “Parola” e “Scrittura” è il guadagno teoretico che permette ai cristiani di essere un lievito in fermento e non una lacca fissante, di essere leali alleati del potere che serve la società e di severi critici dello stesso quando fa altro, di produrre un pensiero politico che non diventa mai mera teocrazia.
Essere allenati a seguire le tracce del Viandante divino lungo i sentieri talvolta scoscesi delle Scritture ci rende non solo capaci di smascherare le (banali e prevedibili) trame di Repubblica e le sue nefande ispirazioni, ma pure di capire che la Scrittura non potrebbe essere il resoconto di un’ispirazione intercettata, perché è proprio lo Spirito di Dio che intercetta e guida i genî degli uomini a comporre, compilare, tramandare e interpretare la Scrittura – e la Verità che contiene è assoluta proprio perché sa non imporsi con la violenza di un potere che risulterebbe volgarmente arrogante, ma vince serenamente col suo paziente splendore.
Di questo potere ha bisogno la nostra crisi, sul suo versante etico, istituzionale ed economico: non c’è rivoluzione più stabile, non c’è pulizia più radicale, non c’è politica più buona di quella che può praticare chi conosce le «meccaniche divine» dell’Ispirazione.