Ho app(r)eso Sehgal in salotto… anzi no
Immaginate di entrare in un museo pensando di godervi la collezione in essa contenuta ma, ahimè, non trovate neppure un quadro, solo muri bianchi e gente, come voi, che affolla gli ambienti ma che non sembra mostrare perplessità. Cosa pensate? Forse di essere stati truffati, o di assistere alle riprese di un film onirico di felliniana memoria, o solo che è in atto un’improvvisa smobilitazione, o, semplicemente, che avete sbagliato location. Di certo non immaginate di essere nel bel mezzo di una “mostra” in cui voi, proprio voi, potreste essere invitati ad interagire da altri uomini e donne di ogni età ed intrattenervi con loro a parlare casomai di questioni riguardanti il rapporto tra economia ed arte contemporanea o di temi inerenti il progresso. L’autore? Tino Sehgal, artista contemporaneo con un passato nel mondo dell’economia e del ballo.
È stato proprio quest’artista che ha concluso il 1° marzo scorso il ciclo di incontri, firmati dall’Associazione “in che mondo siamo”, curati con grande perizia e soprattutto con tanta passione dal prof. Antonio Zimarino.
Sehgal, su cui il prof. Zimarino ha scelto di intrattenere con una conversazione appassionata il suo pubblico attento e competente, è un artista apprezzato ma anche alquanto controverso.
Il mondo dell’arte ci offre sicuramente molti esempi di artisti “bizzarri” uno fra tutti si ricordi Marcel Duchamp che ebbe il coraggio di far entrare per la prima volta in un museo un orinatoio. Sehgal, in maniera diametralmente opposta, fa entrare nel museo il nulla. Lo si è capito, Sehgal non produce quadri da appendere in bella vista in un angolo del proprio salotto, ma neppure fotografie o video … anzi vieta esplicitamente ogni forma di ripresa, ma anche una qualunque attività di promozione della sua “esposizione”. Le cose si complicano ancor più nel caso in cui un collezionista volesse acquistare un’opera di Sehgal: la transazione deve avvenire alla presenza di un notaio che certificherà non solo l’avvenuta consegna dell’opera da parte dell’artista (Sehgal spiegherà al collezionista come e cosa lo ha portato a concepire l’opera, quali caratteristiche debbono avere le persone da coinvolgere nell’opera qualora la si volesse rivedere, ma anche cosa esse devono dire, o devono fare, e così via discorrendo), ma anche la conclusione del contratto di compravendita con la consegna di un congruo assegno all’artista da parte del collezionista.
Sehgal con le sue opere fuori da schemi ordinari, non aiuta di certo coloro che vedono l’arte contemporanea o troppo difficile da comprendere, o troppo elitaria, o troppo presuntuosa quando cela dietro il termine “arte” una presunta “banalità”. Di sicuro ogni epoca ha avuto la sua “arte contemporanea” ed i suoi incalliti detrattori, il tempo poi ha elevato ad arte opere denigrate e dimenticato altri lavori considerati invece promettenti.
Sehgal è di quelli che lascia perplessi, come del resto può accadere con molti altri artisti contemporanei, perché la sua opera entra prepotentemente nella sfera di quei luoghi o di quelle idee che pensavamo protette da convenzioni in grado di resistere a qualunque novità.
Il punto però è proprio questo. Cos’è che Sehgal prova a destabilizzare? Ovvero, detto in termini diversi, cos’è per noi convenzionale?
Se all’opera di Sehgal diamo una lettura in chiave artistica, non possiamo non ammettere che l’artista è arrivato ad una destrutturazione spinta del concetto che abbiamo di opera d’arte, a tal punto che lo spettatore non è più davanti all’opera, ma è nell’opera; la riproducibilità dell’opera, così come la sua promozione, sono vietate; e ancora, l’opera attraverso i suoi protagonisti ci parla, ci rivolge delle domande su temi attuali ed aspetta da noi delle risposte non meno concrete; inoltre la morte dell’artista coinciderebbe con la contestuale scomparsa anche della sua opera.
Se, però, cerchiamo di leggere l’opera di Sehgal oltre il confine denotativo possiamo percepire una sottile ironia verso un’epoca contemporanea in cui, in ogni campo, sembra evidente la contrapposizione netta tra il cliente da una parte ed il fornitore dall’altra. Il capitalismo spinto ha potenziato il suo potere ammaliatore con la globalizzazione dei mercati ed ha ormai l’unico scopo: mantenere sempre desto il desiderio dei clienti costringendoli alla assurda rincorsa di oggetti sempre migliori di quelli appena acquistati ma prematuramente fatti diventare obsoleti.
Clienti dunque e non persone, è questo quello che stiamo diventando. La seduzione in luogo della relazione, è il credo di questi tempi.
Anche i nostri legami rispecchiano questo status di cliente così, non solo ci lasciamo attrarre da beni che hanno una breve vita utile, ma trasliamo questa scelta di vita anche nei legami con i nostri simili, prediligendo quelli con un termine di scadenza. Sembra proprio che l’idea di liberarsi di qualcosa o di qualcuno quanto prima sia la normalità comportamentale di molti. Già qualche anno fa Rifkin, in uno storico saggio, parlava di passaggio della società contemporanea dall’era del possesso all’era dell’accesso, evidenziando la fine di un’epoca di acquisizione del bene, che imponeva un legame con il bene protratto nel tempo non solo da un punto di vista materiale ma anche immateriale, e l’inizio di uno scenario in cui ci si libera del legame materiale e si beneficia del solo servizio che il bene è in grado di offrire non preoccupandosi più della cura del bene demandata ad altri.
La relazione con i beni, così come le relazioni con un’altra persona, diventano sempre più simili ad un atto di connessione e disconnessione dalla rete Internet, e non meno instabili. “Accendo” e “spengo” una relazione a mio piacimento. È chiaro che questo comportamento agevola la superficialità delle relazioni che trovano nell’abbandono la normalità di un atto che interrompe un rapporto che si è concretizzato in un periodo così breve e che non ha dato il tempo di sviluppare radici e quindi sentimenti. I rapporti di amicizia sono funzione della numerosità di contatti acquisiti su network sociali. Insomma, la propria vita diventa la negazione di impegni che, una volta presi, potrebbero ingenerare relazioni durature, consolidamento di conoscenze, acquisizione stabile di ricordi, ecc.; meglio dare un tempo determinato ai miei legami con le persone, solo così potrò far svanire ogni traccia di rapporto e non appesantire troppo la “memoria” della mia coscienza.
L’opera di Sehgal ingenera un cortocircuito nel nostro modo contemporaneo di vedere e vivere le relazioni con l’altro. Ci chiede, anzi fa chiedere ai suoi personaggi se vogliamo “connetterci” alla sua visione del mondo. Accettare vuol dire ri-scoprire il sapore di una relazione fatta di emozione, di contatto fisico, di dialogo, di gestualità. Per Sehgal probabilmente ciò che più conta è ridare centralità all’uomo, a quell’uomo che sembra aver dimenticato l’importanza di interrogarsi, di interpretare la propria vita come continua ricerca di verità, ma anche di saper distinguere i fini dai mezzi. E sono proprio i mezzi che oggi, più che mai, annebbiano i fini ingenerando nell’uomo turbamento, inquietudine, desolazione perché indirizzano in due direzioni opposte sentimento e ragione che, invece, Sehgal cerca di focalizzare contemporaneamente sulla relazione umana, sul dialogo.
Ma cos’è il dialogo (“dia-“ + “logos”) se non un mettere in comune la ragione? Forse Sehgal ponendo al centro delle sue opere l’uomo, vuole ricordare che il fanatismo, l’indifferenza, l’ipocrisia, la violenza, l’incomprensione, sono spesso la risultante di una ragione e di un cuore che stentano ad aprirsi alla ricchezza ed alla bellezza del confronto, dell’esplorazione di terreni poco conosciuti, della conoscenza dell’altro che, sebbene essere umano come me, è comunque diverso da me ma non meno meritevole di essere conosciuto, esplorato, accettato. Martin Luther King era solito dire: «Diversamente dalla cecità fisica, che normalmente colpisce gli individui come risultato di forze naturali di là dal loro controllo, la cecità intellettuale e morale è un dilemma che l’uomo infligge a se stesso col suo tragico abuso della libertà e col non usare la mente al massimo della sua capacità». E ancora: «L’invito all’intelligenza è un invito all’apertura mentale, al giudizio sano e all’amore della verità: è un invito agli uomini a sollevarsi al di sopra del ristagno dell’angustia mentale e della paralisi della credulità».
Ai nostri giorni il filosofo Fernando Savater, in una logica di riscoperta dell’umano che si riconosce umano, invita a ribellarsi «al dogma oscurantista sottoscritto dai falsi progressisti» che idealizzano il progresso, la tecnica, e consentono ad essi di dettare i nostri valori diventando una forma di “idolatria atavica mascherata”. Per Savater anche «l’audacia intraprendente ha […] un limite oltre il quale ci attende solo l’inumano!»; per il filosofo spagnolo inoltre «scegliere oggi l’umanità significa optare per un progetto di autolimitazione rispetto alle nostre potenzialità. Autolimitazione, solidarietà, rispetto: sapersi umani non è accettare un fatto – biologico o culturale – ma prendere una decisione ed intraprendere un cammino». Un cammino volto a contrastare quella solitudine esistenziale dell’uomo, minacciata oltremodo dai fondamentalismi, dalle lotte contro nemici ideologizzati per conquistare la verità … di parte.
Il Cardinal Ravasi suggerisce di superare “la coltre grigia della superficialità e dell’indifferenza” attraverso l’incontro con l’altro armandosi «non di spade dialettiche, […], ma di coerenza e rispetto: coerenza con la propria visione dell’essere e dell’esistere, […]; rispetto per la visione altrui alla quale si riservano attenzione e verifica».
Ma torniamo a Sehgal e all’inconsueto divieto che impone a coloro che volessero serbare memoria delle sue opere, o al rigore imposto dall’artista a coloro che intendessero “contemplare” le opere in un momento diverso dal vernissage, siamo dinanzi a espedienti che non solo definiscono la peculiarità della personalità dell’artista e della sua arte, ma rimandano soprattutto all’idea di unicità, di irripetibilità di attimi destinati a svanire dal mondo reale per continuare a vivere in una dimensione strettamente personale di quei privilegiati che hanno “vissuto” l’opera o come spettatori coinvolti o come spettatori “voyeur”.
Quando poi Sehgal vende un’opera ad un collezionista o ad un’istituzione museale lo fa solo dopo aver acquisito meticolosamente le informazioni sul suo potenziale acquirente; in sede di conclusione dell’accordo pretende che la transazione si concluda solo se chi compra dimostrerà di aver impresso perfettamente nella sua mente l’opera oggetto di acquisto. Ebbene anche in questo momento più strettamente pratico, la poetica di Sehgal irrompe prepotentemente facendo sedimentare in chi si imbatte nella sua opera un’idea, un concetto, un discorso, in una sola parola un ricordo che diventa parte inscindibile dell’identità di chi accetta di farlo proprio. Riprodurre l’opera di Sehgal da parte del collezionista vorrà dire per lui fare affidamento alla propria memoria nella quale dovrà ripescare apprendimenti passati. Se a prima vista il tutto può sembrare bizzarro, e forse lo è, in realtà è ancora un sottile richiamo al valore che ha per Sehgal l’uomo e la sua storia, in contrapposizione ad una società in cui, direbbe Bauman, «la cultura liquido-moderna non è più una cultura dell’apprendimento e dell’accumulazione come le culture di cui parlano i resoconti degli storici e degli etnografi. È invece una cultura del disimpegno, della discontinuità e della dimenticanza».
Cos’è tutto questo se non l’antefatto di una società fragile e confusa? I risultati? Siamo arrivati alla situazione paradossale in cui anziché trovare alla pluralità di problemi privati una soluzione di origine sociale, ci prodighiamo a risolvere problemi sociali mutuando soluzioni sperimentate in ambito privato.
Forse è il momento di fermarci a riflettere e fare come Israele quando aprì alla ragione la via del mistero facendo proprie queste regole di fondo che ci ricorda Giovanni Paolo II: «Una prima regola consiste nel tener conto del fatto che la conoscenza dell’uomo è un cammino che non ha sosta; la seconda nasce dalla consapevolezza che su tale strada non ci si può porre con l’orgoglio di chi pensa che tutto sia frutto di personale conquista; una terza si fonda nel “timore di Dio”, del quale la ragione deve riconoscere la sovrana trascendenza e insieme il provvido amore nel governo del mondo.
Quando si allontana da queste regole, l’uomo si espone al rischio del fallimento e finisce per trovarsi nella condizione dello “stolto”».
Ancora complimenti al prof. Antonio Zimarino per aver tanto voluto e creduto ad iniziative così poco imitate nella nostra città, auspichiamo pertanto che nuovi incontri su altri protagonisti più o meno contrastati dell’arte contemporanea aprano una nuova stagione all’insegna della cultura, del confronto e della riflessione.