La scuola “mi sta a cuore”
«Nella scuola con stile, per costruire il domani» è il titolo del primo Convegno Nazionale degli insegnanti di Azione Cattolica svoltosi a Roma il 14 ottobre.
Il Convegno ha tratto ispirazione dall’elaborazione dell’indicazione contenuta nel numero 46 degli Orientamenti pastorali della Chiesa per il decennio in corso, «Educare alla vita buona del Vangelo»: «La scuola ha il compito di trasmettere il patrimonio culturale elaborato nel passato, aiutare a leggere il presente, far acquisire le competenze per costruire il futuro, concorrere, mediante lo studio e la formazione di una coscienza critica, alla formazione del cittadino e alla crescita del senso del bene comune. La forte domanda di conoscenze e di capacità professionali e i rapidi cambiamenti economici e produttivi inducono spesso a promuovere un sistema efficiente più nel dare istruzioni sul “come fare” che sul senso delle scelte di vita e sul “chi essere”».
La Chiesa ha dedicato ben un decennio al problema educativo, perché la Chiesa è esperta della persona e del suo primato: non si può costruire una “città degli uomini” senza un’antropologia adeguata, che punti alla formazione di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Per la politica, e buona parte della società civile, invece, l’educazione sembra non avere più un fondamento e un fine antropologico, e la scuola non essere più luogo privilegiato di educazione integrale: educazione e scuola sono diventati un problema – se non addirittura due problemi – da gestire, in termini di efficienza organizzativa e produttività economica.
La scuola “come fare” – la scuola efficiente nell’organizzazione ed economicamente produttiva – è proprio la scuola di cui si parla in queste settimane: polemiche e ricorsi annunciati per il concorso che dovrebbe portare all’assunzione di 11.542 insegnanti nelle scuole materne, elementari, medie e superiori, ma che sembra non volere nessuno; mobilitazioni contro la proposta di innalzamento a 24 ore, a parità di stipendio, dell’orario di cattedra degli insegnanti di scuola media e superiore; ulteriori tagli alla scuola, quantificabili in circa 200 milioni di euro con la spending review, cui aggiungere altri 184 milioni previsti dalla legge di stabilità.
Da decenni, ormai, la scuola è ridotta alla semplificazione e banalizzazione di politiche scialbe, fatte solo di “numeri” e “cose”. Il Convegno Nazionale degli insegnanti di Azione Cattolica ha voluto rispondere a questo insano orientamento, spostando il dibattito dalla scuola del “come fare” a quella del “chi essere” : di quali insegnanti, e di quale scuola, hanno bisogno oggi i ragazzi, i giovani, le famiglie, la società?
Il dibattito critico su queste domande ha portato alla stesura di un documento che, più che un formulario di pratiche da adottare, vuole suggerire uno stile, un atteggiamento etico e professionale, per essere buoni insegnanti in una buona scuola. Prendersi cura, corresponsabilità, partecipazione, accoglienza e professionalità – secondo il documento – sono le parole chiave intorno alle quali costruire uno stile buono per una buona scuola, tenendo a cuore il presente e il futuro di ciascun alunno e dell’intero Paese, di cui tutti gli alunni sono cittadini con pari diritti. “Prendersi cura”: lo stile del “prendersi cura” si configura come un’autentica cura della relazione educativa tra insegnante e alunno. Strategie e metodologie didattiche non devono rivolgersi ad alunni astratti, o genericamente pensati, ma a singoli individui, nel riconoscimento delle esigenze educative, formative, esistenziali, di ciascuno e di tutti; “Corresponsabilità”: bisogna costruire una virtuosa alleanza tra scuola e famiglia, attraverso il rispetto delle reciproche competenze. La famiglia non deve delegare alla scuola tutti i compiti educativi, tantomeno deve essere la prima agenzia educativa a screditare l’operato e minare l’autorevolezza degli insegnanti. La scuola, da parte sua, attraverso la valorizzazione degli organi collegiali, deve coinvolgere le famiglie nell’individuazione, e relativa attuazione, di comuni e permanenti finalità formative; “Partecipazione”: la scuola deve diventare comunità educante, capace di trasmettere e condividere quei valori che favoriscano il comune senso di appartenenza, sia radicandosi nel territorio specifico in cui la scuola opera, sia intessendo legami con culture, etnie e religioni differenti; “Accoglienza”: al fine di arginare il preoccupante fenomeno della dispersione scolastica, la scuola realizza appieno la sua funzione pubblica se è capace di creare ambienti accoglienti e sereni, ponendo attenzione al sostegno delle varie forme di diversità, disabilità, e svantaggio; “Professionalità”: è necessario investire maggiormente nella preparazione e nella formazione permanente degli insegnanti e dei dirigenti scolastici, affinché svolgano il loro lavoro con passione educativa, tenendo a cuore, in un ambiente culturalmente qualificato, la crescita integrale di ciascuno e di tutti.
Lo stile buono, elaborato dal Convegno, e complessivamente definito come “prendersi cura”, ci ha richiamato alla memoria – con le dovute distinzioni, e relativa contestualizzazione – il complesso e controverso metodo pedagogico di Don Milani, e l’esperienza unica della Scuola di Barbiana. L’innovazione di Don Milani, infatti, partiva proprio da un principio sintetizzato nel motto della scuola “I care”, letteralmente “Io mi prendo cura”, in dichiarata contrapposizione al “Me ne frego” fascista. Don Milani fu figura controversa della chiesa cattolica negli anni ‘60 e ‘70: i suoi scritti non ricevettero mai l’imprimatur, e, in seguito ad uno scritto in difesa dell’obiezione di coscienza, venne processato per apologia di reato e, assolto in primo grado, morì prima che fosse emessa la sentenza di appello. Nel 1954, a causa di screzi con la curia di Firenze, venne mandato a Barbiana (Vicchio, Firenze), minuscolo e sperduto paese di montagna, dove iniziò il primo tentativo di scuola a tempo pieno, rivolto ai ragazzi delle classi popolari che, per ragioni geografiche e socio-economiche, erano fortemente svantaggiati rispetto ai coetanei di città. La scuola sollevò immediatamente molte critiche, tanto dal mondo della chiesa (nè Giovanni XXIII né Paolo VI intervennero mai a suo favore), quanto dal mondo laico. Per rispondere a queste critiche, gli allievi della scuola insieme a Don Milani scrissero un libro, dal titolo «Lettera ad una Professoressa» (Scuola di Barbiana, Libreria Editrice Fiorentina,1967), che mentre spiegava i principi della Scuola di Barbiana, criticava la scuola tradizionale, invitando esplicitamente i genitori ad organizzarsi, per non permettere alla scuola di escludere gli alunni svantaggiati.
Molti degli argomenti di «Lettera ad una Professoressa» sono comprensibili solo tenendo conto del contesto geografico, storico, e socio-economico, nel quale presero vita; tuttavia, in quel libro – sapiente nel contenuto, ma essenziale nella forma, come la montagna abitua ad essere la sua gente – troviamo una critica alla scuola di allora che, purtroppo, pulsa viva ancora nella scuola di oggi, e sulla quale pensiamo sia bene riflettere. La critica che i ragazzi di Barbiana muovevano alla scuola pubblica era di essere diventata «come un ospedale che cura i sani e respinge i malati» (Ivi, p.20), e, così facendo, finisce per tradire il suo vero fine, «perché a scuola si va per imparare e andarci è un privilegio» (Ivi, p.15). In sostanza, la scuola non deve essere un luogo che promuove e premia chi ha mezzi e talenti in partenza ed espelle chi non ha tutto ciò; la scuola non deve essere un obbligo né un diritto, nella misura in cui non sa essere un “privilegio”, cioè, un posto dove chi non ha mezzi e talenti in partenza possa imparare come procurarli, per riscattarsi e “promuoversi”. La tanto decantata meritocrazia, come misura per giudicare nella scuola, deve diventare, per prima cosa, misura per giudicare la scuola in sé. Una scuola che vale è una scuola che premia il “merito” che essa stessa sa creare, affrontando tutti i generi di differenze che, per natura, faranno sempre confluire nella scuola tanto i “Pierini”, i favoriti in partenza, quanto i “Gianni”, gli svantaggiati in partenza. La Scuola di Barbiana si proponeva in alternativa alla scuola pubblica, perché non aveva lo scopo esclusivo di esaltare chi ha merito, quanto quello di individuare modalità didattiche e pedagogiche per dare a tutti gli studenti, anche quelli che partivano sfavoriti, la possibilità di avere successo: «Il maestro dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualcosa e così l’umanità va vanti» (Ivi, p.112). Le difficoltà vanno recuperate, non vanno punite; gli insegnanti non devono promuovere solo i meritevoli, ma fare in modo di trasmettere i saperi di base veramente a tutti, e non solo a parte degli studenti: questo dovrebbe essere un obbligo per la scuola elementare e media inferiore, e uno stile diffuso per tutto il sistema istruzione.
Ai tempi di «Lettera ad una Professoressa», il problema della dispersione scolastica, come accuratamente riportato nei grafici disegnati dai ragazzi di Barbiana, era legato soprattutto a problemi socio-economici; oggi, a distanza di sessant’anni, il 20% della popolazione non va oltre la terza media, e, alle cause socio-economiche della dispersione, devono aggiungersi quelle legate a tutti i generi di devianza, alla disabilità, e alla sfida interculturale. Dicevano i ragazzi di Barbiana: «La scuola ha un solo problema. I ragazzi che perde» (Ivi, p.35).
L’esperienza educativa della Scuola di Barbiana resta unica, in parte datata e, a tratti, anche intrisa di una sana retorica e di una candida utopia, ma resta valido il motto di fondo “I care”, rilanciato indirettamente dal “prendersi cura” del Convegno degli insegnanti di Azione Cattolica. La scuola che sa “prendersi cura”, di ciascuno e di tutti, non è una scuola perfetta, perché la scuola perfetta non esiste, ma è una scuola civile che rispetta l’Art. 3 della Costituzione («Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzioni di razza, lingua, condizioni personali e sociali»). Se è una scuola cattolica, ha il dovere di essere civile e anche cristiana, come echeggia in questo monito di Don Milani a tutti gli insegnanti: «La scuola selettiva è un peccato contro Dio e contro gli uomini. Ma Dio ha difeso i suoi poveri. Voi li volevate muti e Dio v’ha fatto ciechi». «[…] E per chi lo fate? Voi per l’ispettore. Lui per il provveditore. E lui per il ministro. È l’aspetto più sconcertante della vostra scuola: vive fine a se stessa» (Ivi, p.106; 24).