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«Arrivano i clowns» non fa ridere

Sulle elezioni 2013, la parola a Cicerone.

Dimmi come parla e ti dirò la politica che fa. Un politico, si giudica dal programma e dai valori? Bene! Il linguaggio dei politici rivela tutto quello che vuoi sapere.

Per Grillo, gli avversari sono tutti zombie: c’è lo Psiconano-Berlusconi, Topo Gigio-Veltroni, Rigor Montis e Morfeo-Napolitano. Parlare di problemi politici-sociali-economici intercalando parolacce, gestacci, un linguaggio del corpo scomposto, battute comiche, è consuetudine. Grillo non è il primo né l’unico, dalla Seconda Repubblica in giù. Nella Prima Repubblica, l’attacco all’avversario era duramente politico-ideologico; tuttavia, dentro e fuori le sedi istituzionali, il linguaggio restava allusivo, controllato, pungente, mai volgare, – come quando Cossiga disse: «Se Berlusconi e’ il nuovo De Gasperi, io sono il nuovo Carlo Magno». Con la Seconda Repubblica, invece, iniziò una trasversale tendenza all’invettiva personale e volgare, in un crescendo inarrestabile. In principio fu il faccia a faccia televisivo tra il Cavaliere Berlusconi e il Professore Prodi, che nel 2006 se la cantarono a vicenda – davanti alle telecamere – a colpi di «ubriaco», «utile idiota della sinistra», «poveraccio», «coniglio». Poi ci furono sempre loro, e via via tutti gli altri, chi più chi meno. Si potrebbe scrivere un libro: “Cronache della Seconda Repubblica del Turpiloquio”. Così facendo, siamo arrivati al The Economist che titola «Arrivano i clowns» («Send in the clowns») per annunciare il risultato delle ultime elezioni italiane. Non c’è più differenza «tra palco e realtà»: i nostri politici sono percepiti come “clowns”, per mestiere, per indole naturale, e, i più, per tentativi disperati.

I politici, quando nelle interviste si chiede ragione del loro linguaggio, rispondono che nel parlare comune la volgarità è sdoganata – come dicessero: “Siamo come voi, parliamo come voi”. La gente comune interpreta la volgarità, e relative invettive personali, come l’eco che sa dare voce alla propria rabbia e all’esasperazione tracimante – cioè, le ragioni per cui va ancora a votare. Del resto, meglio la volgarità che l’ipocrisia della Prima Repubblica: “Quelli parlavano bene, ma quante ne hanno fatte!”. Una prova ulteriore sarebbe la parentesi del governo Monti. Austerity, e distacco dalla gente comune, perfino nel modo di parlare: linguaggio “sobrio-grigio”; uso ripetitivo di anglicismi (“spread”-“spending review”); frasi-tormentone vagheggianti (“ce lo chiede l’Europa”); tecnicismi astratti (“abbiamo messo in sicurezza i conti”).

La volgarità, insomma, tollerata e tollerabile, sarebbe diventata anche sinonimo di sincerità, di concretezza, e di una politica “vicino alla gente”. È veramente così? Oppure, quando non si hanno molti argomenti da dimostrare, viene più facile insultare un avversario e divertire le persone? L’eloquenza, è solo un affettato e superfluo formalismo?

Non è il giudizio estetico-morale, sui politici che ricorrono o non ricorrono alla volgarità, quello che ci interessa; neppure promuoviamo il partito “Accademia della Crusca per l’Italia”. Vorremmo riflettere su quanto il linguaggio di un politico sia rivelativo della propria professionalità – dei contenuti e dei valori che egli può rappresentare; perché «Come nessuno può essere facondo su ciò che non conosce, non vi è neppure chi sia in grado di parlare eloquentemente di ciò che conosce anche molto bene, se ignora come si deve comporre e rifinire un discorso» (M. T. Cicerone, De Oratore, Libro Primo, 14 [63]; ed. BUR 2012, p.163).

Cicerone, nel De Oratore, considera l’oratoria come fondamento del vivere civile e del diritto: «l’oratoria ha sempre avuto importanza ed è sempre prevalsa presso i popoli liberi e principalmente nelle comunità governate dalla pace e dall’ordine» (I, 8 [31]). Gli uomini sono incomparabilmente superiori alle bestie, perchè discorrono e possono esprimere a parole i propri pensieri: «quale altra forza avrebbe potuto raccogliere in un sol luogo gli uomini, o condurli da un’esistenza selvatica e agreste a questo vivere umano e civile o istituire leggi, tribunali, diritti, una volta formatesi le comunità civili?» (I, 8 [33]). La parola ha un valore assoluto, in sé e per sè; ma nulla è più insigne di un «oratore compiuto» («perfecti oratoris»), «perché ha la capacità di avvincere con la parola l’attenzione degli uomini, guadagnarne il consenso, spingerli a piacimento dovunque e da dovunque a piacimento distoglierli» (I, 8 [30]). Intesa come uso efficace e convincente della parola, l’oratoria non è solo fonte di prestigio personale ma anche d’incomparabile utilità «per la salvezza di molti cittadini e dell’intero stato». Per questo, Cicerone esorta i giovani a coltivarne lo studio «da poter dare onore a voi stessi, vantaggi agli amici, giovamento allo stato» (I, 8 [34]).

Perché un «oratore compiuto» può portare giovamento allo Stato? Quali sono i requisiti necessari, perché un oratore sia veramente degno di questo nome?

Un buon oratore porterà giovamento allo Stato – scrive Cicerone –, perchè non può sussistere «valentia di parola» se chi parla non conosce bene gli argomenti di cui parla: «Mi chiedo se sia possibile parlare pro o contra un generale, senza esperienza di arte militare o spesso anche senza conoscere la geografia; se sia possibile parlare davanti al popolo per fare approvare o respingere una legge, ovvero in senato intorno ad una qualsiasi parte dell’amministrazione dello stato, senza profonda conoscenza teorica e pratica della politica; mi chiedo se sia possibile pronunciare un discorso che infiammi o plachi sentimenti e passioni – prerogativa, questa, principale dell’oratore – senza uno studio approfondito di tutte le teorie psicologiche ed etiche sviluppate dai filosofi»(I, 14 [60]).

L’oratoria, scrive Cicerone, è «sintesi di molti studi e discipline»: il discorso deve «sbocciare e sgorgare abbondante dal sapere»; se non è sotteso un contenuto ben conosciuto o padroneggiato, il discorso dell’oratore sarà «vuoto e puerile». Oltre alla profonda conoscenza, per rendere un discorso efficace e convincente ci vuole anche grazia, una bella voce, una certa resistenza fisica, un aspetto gradevole; tuttavia, alle doti naturali e all’ingegno vanno sempre accompagnati esperienza ed «exercitatio». Un buon oratore deve essere abile a: reperire gli argomenti (inventio), organizzarli secondo logica e importanza (dispositio et ordo), ornarli con stile (elocutio), fissarli nella memoria (memoria), pronunciare un discorso con dignità e grazia (actio).

Per quanto riguarda l’esposizione di un discorso, Cicerone non esclude l’oratore possa fare ricorso all’umorismo, «perché suscita simpatia verso chi l’ha scatenata, è indice di acume e arguzia; mette in ginocchio l’avversario, gli crea difficoltà, lo indebolisce, lo intimidisce, lo confuta; spesso con uno scherzo e una risata riesce a dissipare accuse odiose che non sarebbero facilmente confutabili con argomentazioni (II, 58 [236]). Non esclude poter far ricorso ad aneddoti (anche non veritieri), caricature, motti di spirito, giochi di parole, doppi sensi. In ogni caso, «l’oratore dovrà usare le facezie con attenzione, perché bisogna soprattutto avere rispetto dei sentimenti del pubblico, per non correre il rischio di offendere persone che godano del suo affetto. A riguardo non solo è di norma non dire insulsaggini, ma, se si può dire qualcosa di spiritoso, l’oratore deve evitare di portare lo scherzo al livello di quelli dei buffoni o dei mimi» (II, 58 [238-239]. La valutazione delle circostanze, l’autodisciplina e la moderazione nell’uso del motto, sono i tratti che distinguono l’oratore dai mimi («mimorum») e dai buffoni («ethologorum»).

Cicerone è lapidario, quando dice di un cattivo oratore «voleva solo far ridere: uno dei risultati più modesti, a mio parere, che possa ottenere l’intelligenza» (II, 60 [247]).

L’eloquenza, e l’abilità retorica, non sono superflui formalismi: rivelano la professionalità di un oratore – di un politico, in particolare – perchè non si può parlare bene di ciò che non si conosce bene; perché, per saper esprimere bene ciò che si conosce, sono necessari studio, esperienza e dedizione; perché, ricorrere all’umorismo fine a se stesso, è indice di mancanza di argomenti da dimostrare e di rispetto nei confronti dei sentimenti del pubblico.

Quanti, tra i nostri politici, sarebbero bocciati da Cicerone? Sicuramente boccerebbe il gratuito umorismo del The Economist, con la sua facile copertina «Arrivano i clowns» («Send in the clowns»). E tutto questo non fa ridere.