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Credi in Dio, “per vedere l’effetto che fa”

Una lettura dell'omicidio di Luca Varani, senza arrendersi all'idea che esista un male fine a se stesso. Il diavolo crea «l'insensato su ordinazione».

L’omicidio di Luca Varani, compiuto da Marco Prato e Manuel Foffo, colpisce per la brutalità con cui è stato consumato e il degrado esistenziale nel quale è maturato. Ci troviamo di fronte ad una di quelle “situazioni limite” in cui il male si manifesta in tutta la sua realtà, come male assoluto. “Volevamo uccidere per vedere l’effetto che fa”, ammettono gli assassini, e l’opinione pubblica fatica a comprendere il senso di tale affermazione. Com’è possibile spingersi al punto di “uccidere per vedere l’effetto che fa”, arrivare a distruggere se stessi ed un altro essere umano per “nulla”?

La brutta storia dei nostri giorni potrebbe uscire dai vicoli più solitari, dalle bettole più sordide, dalle stamberghe più malsane, sede del vizio e della degradazione morale, descritti con realismo da Doestoevskij nei suoi romanzi, là dove il male – attraverso un’ampia fenomenologia – è identificato sostanzialmente con il peccato: la deliberata e consapevole infrazione della legge morale oggettiva, divina, per la volontà di conquistare una libertà illimitata. Ivan, uno dei protagonisti de I fratelli Karamazov (1880), scientemente sentenzia che: «Se Dio non esiste, tutto è permesso». Durante una riunione di famiglia, Ivan, spiega bene le ragioni per cui una vita morale senza un criterio superiore di giustizia, senza un Autore garante della legge morale stessa non abbia senso. L’uomo, ossia tutti gli uomini, non sono capaci di auto-regolamentarsi da soli, non basta una generica pietas umana a garantire che gli uomini non vadano “oltre” un certo “limite”. Argomentando ai presenti, Ivan, fa notare come nel mondo non ci sia assolutamente qualcosa capace di costringere tutti gli uomini ad amare i propri simili perchè «non esiste affatto una legge naturale per cui l’uomo debba amare l’umanità». L’unica cosa che trattiene l’uomo dal male è la fede in Dio e nell’immortalità della propria anima, senza la quale non ci sarebbe più qualcosa di immorale e «tutto diventerebbe lecito perfino l’antropofagia». Chi non crede in Dio e nell’immortalità della propria anima, aggiunge Ivan, non avendo limiti al proprio egoismo, essendo legge a se stesso, arriverà a sostenere che non solo «il delitto deve essere permesso, ma deve essere riconosciuto all’uomo come la soluzione più necessaria, più ragionevole e quasi più nobile della condizione in cui si trova» [1]. Per essere oggettiva, effettivamente vincolante per tutti gli uomini, la legge morale deve dipendere da un principio superiore ovvero precedente all’uomo stesso.

Torniamo ai fatti di cronaca. Due adulti che scelgono di chiudersi in una casa per sfidare la resistenza del proprio corpo e della propria mente abusando di droga e alcol, astenendosi dal mangiare e dal dormire, e usano come oggetti i corpi di altri uomini fino ad arrivare all’omicidio brutale, non stanno “solo” trasgredendo la legge morale, il diritto, la pietas; piuttosto stanno spingendo la propria libertà all’estremo per affermare il proprio io “al di là del bene e del male”, di ogni coscienza, di ogni morale, di ogni principio, fino ad impossessarsi degli attributi di Dio. Questi ragazzi della Roma odierna sembrano la personificazione del protagonista di Delitto e Castigo (1866), il nichilista Raskòl’nikov, che, uccidendo a colpi di accetta una vecchia usuraia, vuole dimostrare a sé stesso se è un «Napoleone o un pidocchio», se appartiene agli «uomini comuni», per i quali la legge morale è sacra, o agli «uomini non comuni», quelli capaci di farsi una legge morale, e afferma con soddisfazione: «Non ho ucciso una persona, io; ho ucciso un principio!» [2]. Bisogna sbarazzarsi di Dio per affermare la propria divinità, per diventare “uomo-Dio”: questo significa “uccidere solo per vedere l’effetto che fa”.

A quali esiti conduce la concezione del male di Dostoevskij? La radice del male è «lo spirito di autodistruzione e del nulla», fa dire Dostoevskij ad Ivan nella Leggenda del Grande Inquisitore, e la distruzione non può che generare anche autodistruzione. I romanzi di Dostoevskij sono pieni di suicidi come quello di Smerdjakov, che s’impicca, dopo aver compiuto un delitto, non per rimorso o paura della condanna, ma per estrema volontà di affermare il proprio io, come scrive in un biglietto: «Distruggo la mia vita di mia volontà e per mio desiderio, non accusate nessuno». Altro effetto del male è la perversione, il piacere di trasgredire che si prova soprattutto quando ad essere violata è l’innocenza – che esercita nei perversi un’attrazione speciale –, come accade al padre Karamazov che vìola una giovane demente e muta, stracciona e mendicante, sgradevole e sudicia, attratto dalla sua innocenza. Conseguenza del male è considerata anche la disgregazione della personalità, lo sdoppiamento tra la parte buona di sé e un alter ego malvagio che altri non è che la personificazione stessa del diavolo, come rivela il sogno di Ivan in cui egli colloquia con il diavolo: «Tu sei una menzogna, la mia malattia, il mio fantasma […]. Sei l’incarnazione di me stesso, però di un mio lato soltanto […]. Tu sei me, me stesso, solo con un altro muso» [3]. Così, lentamente, s’insinua il male nell’uomo; il male che distorce la realtà, non permette all’uomo di discernere il bene, anzi, sostituisce se stesso al bene facendosi passare per bene. Il diavolo mira al nulla, mira a distruggere nell’uomo l’immagine di Dio per sostituirla con quella del nulla.

Suicidio, perversione, sdoppiamento e disgregazione della personalità sono tutte conseguenze del male che troviamo nei personaggi – in carne ed ossa – dell’omicidio di Luca Varani. Questi uomini sono dèmoni che personificano la realtà del male nella sua opera distruttiva e nullificante. Non sono “più cattivi” o “meno buoni” degli altri uomini; sono il male in opera, deliberatamente e coscientemente in opera, per instaurare disgregazione, insensatezza, nulla, come il diavolo stesso, con sarcasmo, afferma ne I fratelli Karamazov : «Io aspirerei in modo semplice e diretto all’annientamento. “No, vivi – dicono – perché senza di te non ci sarà nulla. Se sulla terra tutto fosse sensato, allora non succederebbe niente, senza di te non ci sarebbero eventi, e invece ce ne devono essere”. Dunque io faccio il mio servizio, a malincuore, perché ci siano eventi, e creo l’insensato su ordinazione»[4].

Non rinunciamo a comprendere le ragioni di quel “volevamo uccidere per vedere l’effetto che fa”, non lasciamo che questa frase risuoni nel nulla di senso alimentando altro nulla. Respingiamo l’insensato fermamente, rispondendo che Dio esiste, quindi, non tutto è permesso”. Facciamo emergere dal male la luce del riconoscimento di Dio, così il bene sarà bene e il male sarà male. E su tutto, comunque, l’ultima parola spetta all’altra protagonista dei romanzi di Dostoevskij: la Grazia.

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[1] Cfr. F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, Rusconi, Milano 2004, pp. 74-75.

[2] Le citazioni sono tratte da: F. AGNOLI, Perché non possiamo essere atei, Piemme, 2010.

[3] F. DOSTOEVSKIJ, op. cit., p.664.

[4] Ivi, p.675.

[5] Cfr. L. PAREYSON, Dostoevskij: filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino, 1993.