Società e dignità della persona
La società avrà per scopo, in tutti i suoi ordini, di creare quelle condizioni esterne (bene comune) adeguate alla conservazione, allo sviluppo e al perfezionamento della persona (G. La Pira)
Una grande figura del secolo scorso, purtroppo molto spesso dimenticata (per ragioni ideologiche), afferma, in uno dei suoi scritti più importanti, che «la società deve organizzarsi in modo tale da aiutare la persona a raggiungere i suoi fini» (G. La Pira, La nostra vocazione sociale). In questo senso, ogni intervento politico ed economico sulla società deve tener conto di una lex anteriore non regolata, ma regolante, capace, cioè, di illuminare e guidare l’agire del politico o del tecnico di turno, aiutando a non cedere in questo modo alle logiche dell’esclusivo interesse personale o del solo equilibrio finanziario degli Stati. Si tratta, in altri termini, di considerare il valore in sé della persona umana e, di conseguenza, del suo lavoro: una verità che possiamo definire patrimonio comune dell’umanità. Difatti tutti gli uomini riconoscono, intuiscono la presenza di una dimensione valoriale, di un ordine morale da rispettare e che viene prima di qualsiasi altro discorso.
Dopo questo breve preambolo, volgiamo l’attenzione al testo che ha ispirato questo articolo: Il reddito minimo di cittadinanza. Per il lavoro e per la società di Valerio Pisaniello. Il lavoro – come si evince dal titolo e come nota l’Autore sin dalle prime pagine – affronta una questione alquanto complessa e travagliata, ma assai importante e legata a quanto dicevo poc’anzi. Infatti – afferma Pisaniello nell’introduzione – «un basic income che sia legato al diritto di cittadinanza e non basato sulla povertà sarebbe un reale sostegno al reddito in grado di salvaguardare la dignità della persona in modo tale che essa non sia schiava né di ricatti né tanto meno dipendente dagli andamenti ciclici del mercato» (V. Pisaniello, Il reddito minimo di cittadinanza, ABE, Avellino 2016, p. 7). Il testo si snoda in quattro capitoli, tutti di estremo interesse e in cui si intrecciano puntualmente riflessioni personali e analisi storiche, politiche, economiche e sociologiche. Il secondo capitolo è quello più interessante dal punto di vista teorico perché l’A. analizza il problema in chiave filosofica, legando il reddito minimo ai diritti fondamentali dell’uomo, in un tempo in cui «l’instabilità [nel mondo del lavoro] è divenuta ormai una regola sociale» (p. 42) e, molto spesso, i diritti di cui si parla così tanto (e alcune volte in modo assai vago) sono universalmente riconosciuti solo sulla carta. La posizione dell’A., proprio perché riconduce il reddito minimo ai diritti della persona, evitando la vuota retorica di molte rappresentanze politiche, si presenta come una proposta di estremo interesse tesa a costituirsi come «un fattore non solo di tutela individuale ma anche di progresso collettivo» (p. 44). In questo modo – nota Pisaniello, sulla scia di Amartya Sen – il reddito minimo non è più presentato con la veste dell’assistenzialismo sic et simpliciter, ma «può realizzare il pieno sviluppo individuale spostando l’interesse dai mezzi a quello delle effettive opportunità. L’intenzione non è quella di garantire l’uguaglianza di risultato, ma è quello di arrivare all’uguaglianza delle opportunità in modo da fungere come leitmotiv per la realizzazione delle proprie aspirazioni» (p. 47). L’A., dunque, presenta la sua proposta in una veste nuova il cui scopo è non costituirsi come un mezzo per risolvere un problema, ma per evitare che il problema sorga (potremmo parlare in questo senso di proposta preventiva), sicché il sussidio porterà non all’inattività, bensì alla promozione dell’autonomia del soggetto (e in questo senso la proposta mostra il suo lato costruttivo). La posizione di Pisaniello, però, per avere piena attuazione e un’effettiva incidenza sociale, deve innestarsi su una struttura statale capace di mettere al centro la persona; difatti non è possibile affrontare questioni economiche o – come è stato notato – «i problemi della distribuzione del lavoro come bene o ricchezza sociale in modo adeguato né si risolve il dilemma storico posto dalle correnti trasformazioni tra sviluppare la flessibilità e la creatività del lavoro individuale o creare le condizioni per una produttività sostenibile e per la cooperazione sociale, se rimaniamo all’interno di una cultura che riduce il lavoro a mera merce di scambio. Questa cultura implica inevitabilmente una concezione individualistica e una pratica accaparratrice del lavoro, al cui rimorchio il lavoro di ogni tipo rischia di diventare il tardo succedaneo della proprietà privata borghese» (G. Manzone, La dignità umana e cristiana del lavoro; cfr. anche G. Manzone, Teologia morale economica, Queriniana, Brescia 2016). Quanto detto dall’A., insomma, può trovare piena corrispondenza solo quando, nella società, c’è una gerarchia di fini che rende capace di superare ogni tipo di riduzionismo: «La società ha, quindi, per scopo la produzione dell’integrale e gerarchico bene comune, necessario alla conservazione e perfezione della persona e l’attribuzione proporzionale di esso a tutti i membri del corpo sociale. La società appare, quindi, come una grande comunità umana nella quale tutti producono questo integrale e gerarchico bene comune destinato a essere proporzionatamente distribuito a ciascuno […]. La norma regolatrice di tali azioni è questa: fare che le azioni di tutti i membri del corpo sociale convergano nello scopo comune della produzione del comune bene. Quindi, tutta la regolamentazione positiva si ispirerà a questa norma fondamentale naturale. Questo principio è di grande attualità: significa che una sana sociologia non può accettare, specie nel campo economico, il principio della meccanica confluenza delle azioni economiche, individuali caro al liberalismo economico. Il mondo economico è un mondo che va regolato mediante l’applicazione a esso dei principi di comunità sopra indicati. E ciò proprio in vista del valore finale dell’uomo e, quindi, della effettiva libertà di tutti: perché non vi è dubbio che la disapplicazione di questo principio – com’è avvenuto nel mondo liberale – ha avuto gravi ripercussioni sulla costruzione del mondo politico e sulla stessa vita religiosa, morale, culturale e familiare di tutti: la ricchezza eccessiva e l’eccessiva povertà – conseguenze ineluttabili di tale disapplicazione – incidono sfavorevolmente sulla vita spirituale dei ricchi e dei poveri. Questa ripercussione è vera, anche se va respinta la concezione di Marx che fa dei valori spirituali degli epifenomeni dei valori economici» (G. La Pira, La nostra vocazione sociale).
Per concludere: ogni proposta economica può aver senso e un peso effettivo sul tessuto sociale solo tenendo presente la dignità della persona, dignità che non si esaurisce in una logica che riflette solo l’equilibrio finanziario in larga scala. Pur essendo importante, questa logica non può costituirsi come regola regolante di ogni agire politico; ci sono valori che vengono prima della politica e della stessa finanza: in altre parole, le regole della politica e del mercato non sono un assoluto, ma solo – come ho detto inizialmente, citando La Pira – un mezzo per raggiungere il fine e il fine della società è il bene comune: «la regola della vita associata – afferma Caffarra – è la forza normativa che esercita la verità circa il bene comune nei confronti della libertà di ogni associato. Se così non fosse, se cioè non esistesse nessun [a verità circa un] bene comune, inevitabilmente il diritto, la norma non sarebbe alla fine che l’imposizione del più forte al più debole. Se non esiste la forza della giustizia, saremmo consegnati totalmente alla giustizia della forza» (C. Caffarra, La responsabilità sociale dell’impresa: abbozzo di una riflessione etica, 29 novembre 2005; cfr. A. Livi, Etica dell’imprenditore).