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Teoria (dogmatica) della relatività

Può un dogma evolversi? No: deve. Ecco le meravigliose potenzialità e i terribili rischî connessi a questa necessità.

Se fosse così facile stabilire «ciò che sempre, ciò che ovunque, ciò che da tutti è stato creduto e insegnato» (Vincenzo di Lérins, † 450, vedi «Relativa-mente-dogmatica»), si sarebbe già un pezzo avanti – e non è un caso che in queste discussioni, comunque preventivate, ci siamo addentrati per lo stimolo di un lettore che non condivide con noi l’intera ampiezza del canone biblico cattolico (la famosa “collezione” cui più volte ci siamo riferiti). Certo, l’espressione di Vincenzo profuma troppo di verità perché la lasciamo cadere a buon mercato, ma i secoli intercorsi tra lui e noi (oltre che la distanza che c’è tra la sua opera eresiologica e le nostre conversazioni) ci consigliano di sfumare prudentemente i bordi di quell’affermazione.

Ripartiamo quindi proprio da questa “collezione”, cercando di collocarla all’interno di qualche dato storico. È senz’altro vero, come moltissimi sanno, che l’elenco definitivo del canone biblico è stato fissato soltanto dal Concilio di Trento (il Decreto sui Libri sacri è dell’8 aprile 1546), ma non si può che travisare la portata di questo dato se si omette di osservare la concordia cui giunsero in pochissimi secoli, non senza un percorso talvolta tormentato, le maggiori chiese dell’ecumene cristiano (diciamo, per intenderci, del bacino mediterraneo). L’esempio senz’altro più interessante è quello costituito dal cosiddetto “canone muratoriano” (clicca link): questo prezioso frammento è una “fotografia” storiografica di quel tormentato fermento biblico che dicevamo – una testimonianza verosimilmente risalente alla seconda metà del II secolo. Ricaviamo notizie circa alcune lettere attribuite da alcune chiese a Paolo e ritenute contraffatte da altre; sappiamo che generalmente si leggevano le Apocalissi di Giovanni e di Pietro, ma anche che molti non accettavano quest’ultima. Resta misteriosa, ad esempio, la ragione per cui l’antichissima Didaché (di datazione variabile tra il 50 e il 90 del I secolo!) non è stata definitivamente accolta dalle chiese, pur essendo stata ritenuta ispirata in alcune di esse, mentre la Seconda lettera di Pietro costituisce oggi patrimonio indiscusso di tutti i Canoni scritturistici cristiani, pur essendo di datazione molto tarda (alcuni la datano addirittura fino agli anni Quaranta del II secolo).

A questo problema “tutto cristiano” ne va aggiunto un altro che è quello del confronto col canone ebraico delle Scritture: fa sorpresa vedere con quanta ingenuità ancora oggi si consideri il canone ebraico (quello corto) “più puro” del canone cattolico (quello lungo) in quanto sarebbe anteriore a questo. Il cosiddetto Sinodo di Iamnia, infatti, radunatosi poco dopo la distruzione del Tempio a opera dei Romani (70 d.C.), aveva il dichiarato duplice intento di preservare la fede d’Israele dalle conseguenze teologiche e liturgiche della menzionata distruzione del Tempio (non ci si pensa mai…) e di differenziare la comunità giudaica da quella setta “eretica” – detta ancora oggi “dei Nazareni” – che rintracciava nelle Scritture tradotte in greco (quelle più diffuse e accolte) le profezie messianiche. Esempio: il profeta Isaia (VIII secolo a.C.) aveva parlato di “una ragazza” (Is 7,14) che avrebbe concepito e partorito un liberatore a Israele. Poco più di mezzo millennio dopo, traducendo quel passo, degli ebrei tradurranno il termine ebraico per “ragazza” con il termine greco per “vergine”. E fin qui, nulla di particolarmente problematico: sennonché al nostro Matteo (quello del Vangelo!) sembrò meraviglioso poter riscontrare in quel passo quello che aveva imparato nelle sue ricerche sulla nascita di Gesù, e così la stesura di un passo della Scrittura comune a tutti i canoni cristiani (Mt 1,22-23) implica e richiede l’ispirazione di un passo veterotestamentario secondo la versione in una lingua che è costata ad altri libri l’espulsione da alcuni dei canoni scritturistici cristiani.

Chiunque abbia un minimo di accortezza si accorgerà che qui – per dirla in modo colorito – “non è in ballo la Madonna”, ma proprio Cristo e le Scritture, visto che Matteo ragiona così: «Gesù è il Messia perché fu concepito verginalmente» – quindi perché la versione greca (che tradisce significativamente il testo ebraico) è ispirata.

Questa complessa digressione, per la quale chiedo scusa (ma le matasse intricate chiedono pazienza), dice perché le chiese della prima cristianità ebbero grande cura e considerazione della versione greca delle Scritture, come (e con) gli stessi ebrei, finché a questi esse non costarono (per un pelo!) lo smarrimento di ogni identità: Svetonio scrive che sotto l’impero di Claudio (49 d.C.) a Roma «i Giudei litigavano spesso per istigazione di Cristo»; questo piccolo “puntello laterale” conferma che furono gli ebrei (che avevano prodotto la traduzione greca ben prima della nascita di Gesù) a condannare le Scritture greche quando videro che esse si prestavano bene alle argomentazioni della setta dei “Nazareni”. Questi, a loro volta, se le tennero strette non a sfregio degli ebrei, ma per le medesime ragioni per cui quelli ora le rifiutavano.

Tornando allora alla irenica e solenne definizione di Vincenzo, che dobbiamo dire? In un certo senso, risulta evidente che nemmeno nella Scrittura tutti hanno insegnato ovunque e sempre la stessa fede: si pensi soltanto alla “povera” Efeso, che si vide fondata da un “Apostolo-non-apostolo” come Paolo (che insegnava a non curarsi né delle consuetudini pagane né delle prescrizioni giudaiche, maledicendo chiunque avesse insegnato diversamente! Gal 1,8 ; 5,12) e che fu poi ri-evangelizzata da Giovanni e dai suoi seguaci (i quali tornavano a imporre i precetti di purità della legge giudaica, e che maledicevano chiunque avesse detto o fatto qualcosa in contrario, ebrei compresi! Ap 2,2-3.20). Che dire? Chi sono questi che hanno insegnato “ovunque” e “sempre” la medesima dottrina?

Probabilmente sono quelli che hanno saputo cogliere l’unicità della “collezione” delle Scritture – siglandola con la categoria di “ispirazione divina” (2Tm 3,16 ; 2Pt 1,21) – e che hanno poi saputo resistere alla duplice tentazione di concordare a forza i passi discordanti o di setacciare il canone per trovarvi un “sotto-canone” di autenticità “più densa”. In contesti enormemente diversi e col concorso di cause incommensurabili tra loro Marcione e Lutero hanno ceduto a questa seconda parte della tentazione (la più raffinata, va detto): quello che veramente li accomuna, a cavallo dei tredici secoli e più che li dividono, è il fascino per Paolo e per il suo pensiero. L’uno e l’altro ritagliarono la nostra “collezione” su misura a quello che pareva loro essere l’essenza della teologia di Paolo: il primo facendo fuori addirittura tutto l’Antico Testamento; il secondo “appena” sette libri.

Ora, è chiaro che le questioni sono indicibilmente più complesse di quanto qui appare: Marcione passò come il prototipo dell’eretico per tutta l’antichità (come lui solo Ario e Nestorio!); Lutero è stato ritenuto per diversi secoli, nella modernità, la radice di ogni eresia. Quello che però fa veramente stupore è che – a distanza di secoli – non pare intravedersi la serenità per cui potremmo ricollocare nel suo tempo l’entusiasmo umanistico di chi credé di essere autorizzato a sforbiciare le Scritture, raccogliendo per noi i buoni frutti che il suo operato certamente ha prodotto.

La lezione che abbiamo ancora da imparare da Vincenzo è proprio quella che ci mostra che il dogma evolve anche profondamente, ma lasciando intatta l’identità primordiale – e anzi, sviluppandone armonicamente le potenzialità – come avviene per il corpo umano dal concepimento all’età adulta (clicca link).

La Scrittura è, così, come un embrione della fede (e, tra l’altro, essa dichiara esplicitamente di essere aperta a un progresso guidato dallo Spirito: Gv 16,13): coartarla in un utero ecclesiale che non voglia saperne di assecondare i suoi movimenti significa abortirla. In quest’ottica comprendiamo che solo un’attenzione paziente e amorosa può sorvegliare la crescita del deposito della fede nella coscienza di chi ha incontrato Gesù e nella storia delle chiese e di tutta la Chiesa, tramite quello che un Concilio ha felicemente chiamato «il soprannaturale senso della fede» (Dei Verbum 10). Il tempo, la fiducia, l’amore, la speranza (che sono gli ingredienti essenziali della Chiesa) sono ciò che concorre a dire qual è il tradimento che resta fedele allo Spirito e quale quello che lo uccide inchiodandolo alla lettera (Cf. 2Cor 3,6).

Ovvio: anche sulla più bella delle fronti può spuntare il più brutto dei brufoli, ma ogni madre responsabile sarà assidua, nei controlli prenatali, per un amore che spera e confida di poter dare alla luce suo figlio sano, non vagliando l’eventualità di non farlo nascere.

C’è quindi un un “relativismo cristiano”, che consta precisamente del sospendere ogni giudizio su qualsivoglia entità – salvo che non la si riferisca a Cristo, quale questi si dà a conoscere nella storia a partire dalle Scritture, sempre ancora «come in uno specchio e in maniera confusa» (1Cor 13,12). Il dogma è quindi un’esigenza di libertà della ragione del credente, che gli impedisce di ricadere al di sotto di una certa “soglia di verità”, lasciando spalancato al di sopra lo spazio immenso del mistero di Dio – le nostre soglie di verità saranno lì tanto superflue quanto qui ci sono necessarie. Anche questo è il “relativismo cristiano”.

Foto: © http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=29&id_n=14503

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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