«Stàmo a “Redde rationem”, Serafi’…»
«Stàmo a “Redde rationem”, Serafi’…»: questa la storica battuta recitata da Nino Manfredi in un grande film di Luigi Magni (In nome del Papa Re, 1977). È la grave considerazione che un vescovo curiale fa al suo fidato domestico, richiamando direttamente la severa ingiunzione del padrone nella parabola evangelica di Lc. 16,2, poco prima di proseguire: «Serafi’, mo’ te dico ‘na cosa: qua non è che finisce tutto perché arrivano gli Italiani… Qua arrivano gli Italiani proprio perché è già finito tutto». Il film ha la sua trama e i suoi fini, che qui non c’interessano (magari un’altra volta). Volevamo invece soltanto prendere spunto da queste briciole di gran cinema per introdurci a un’altra considerazione: dall’unità d’Italia a oggi (e ne festeggiamo quest’anno un importante giubileo) abbiamo imparato che le considerazioni che si fanno sulla società italiana hanno pesanti ripercussioni su quelle che si possono fare a proposito del cinema italiano, e viceversa. La “libera Chiesa” e il “libero Stato” sono sempre stati implicati in una dinamica osmotica tale che parlare di un elemento del rapporto è sempre stato, in certa misura, parlare anche dell’altro.
Questo porta alla lapalissiana considerazione che segue: se si parla di “crisi” a livelli globali, che certo non risparmiano la nostra società nazionale, questa crisi si riflette, in certa misura, anche nella nostra “chiesa nazionale”. L’espressione è fortemente ambigua, ma è chiaro che non parliamo di “chiesa nazionale” riferendoci a un’entità ecclesiale dotata di una qualche autonomia mediana tra quella diocesana e quella universale (come avviene purtroppo in Cina, e come la storia ha visto in Francia e altrove); neppure pensiamo all’istituto – figlio del Concilio Vaticano II – delle “Conferenze episcopali” (quantunque esse possano avere in effetti un rilievo nel nostro discorso). Ma no, la nostra attenzione verte su quel modo tipico di essere Chiesa che, con le differenze del caso, pure accomuna le grandi linee della società italiana. Una categoria non ecclesiologica, dunque, non politica, ma meramente sociologica.
Scartabellando nei manuali delle ovvietà s’impara, prima o poi, che non tutte le ovvietà sono banali. Questa, ad esempio, potrebbe esserlo, ma non lo è più nel momento in cui risulta che non tutti gli analisti del caso concordano nella diagnosi: ci sono troppi conservatori nel clero o ci sono troppi progressisti? Ci sono troppi “laici impegnati” o ce ne sono troppo pochi? Ci sono troppo pochi preti o ce ne sono perfino troppi? Non su una di queste domande, dall’esito apparentemente ovvio, c’è un consenso veramente universale. Sorge un’ulteriore domanda: è questa – quella di domande così semplici cui non si dànno risposte univoche – una condizione normale del vivere civile… o no? Vogliamo sospettare, a fini meramente esplorativi, che il “no” possa avere una sua ragione di sussistenza a proposito: sono francamente troppi i segnali di disagio che a tutti i livelli della società (e della Chiesa!) si registrano, e questa condizione ben supporta – anzi, in qualche modo esige – che vi sia chi si sforza di negare lo stato di crisi, del tutto o parzialmente. Ad esempio, si può dire che “va tutto bene… se solo i matrimonî durassero e le famiglie non si sciogliessero così in massa!”; oppure che “in fondo ce la caviamo… ma se avessimo una decina di preti in più per diocesi andrebbe decisamente meglio”; o ancora che “non c’è da essere pessimisti… ma se si riuscisse a tenere i ragazzini alla messa domenicale dopo la cresima saremmo a cavallo”. Quasi un anno fa, Armando Matteo ha pubblicato un essenziale saggio (La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede, Rubbettino 2010), in cui ha profuso le proprie competenze sociologiche e psicologiche, accorpandole armoniosamente a un fine sensus ecclesiæ e a una profonda esperienza maturata sul campo del contatto trasversale con le generazioni. Non si tratta del solito polpettone moralistico (e in buona parte ipocrita) che rimpiange i tempi andati in cui non si sa che cosa doveva esserci di diverso: è una lucida analisi di quel “qualcosa” che è cambiato; analisi protesa alla ricerca, senza rimpianti, di un “aggiustamento di tiro”.
Perché ciò che Matteo rileva, nella sua analisi, è che nella Chiesa (e ribadiamo che si parla della “nostra” Chiesa in Italia) s’è come spezzata «la cinghia di trasmissione tra le generazioni» (p. 18). A ben guardare, in questa fredda diagnosi “meccanica” pare sintetizzarsi tutto ciò che nelle questioni “ovvie” prima presentate apriva un inatteso ventaglio di diverse posizioni: ma che questa “cinghia di trasmissione” si sia rotta chi può interessare? Se la Chiesa fosse semplicemente interessata alla propria conservazione, a scapito delle coscienze e delle vite degli uomini (insomma quel grottesco scarabocchio che ne fanno quelli dell’UAAR), sarebbe la più malefica delle istituzioni, e non ci sarebbe da versare neanche una lacrima in sua memoria. Ma c’è un incalcolabile patrimonio culturale, un autentico serbatoio energetico che ha alimentato l’Occidente (e l’Italia) per circa due decine di secoli: di questo si preoccupano soprattutto gli “atei devoti”, che hanno a suo tempo prontamente recensito il volume di Matteo (vedi Marco Burini, su Il Foglio del 25 marzo 2010).
Essi hanno individuato nelle sue analisi e soprattutto nelle sue proposte la scia del pensiero di Elmar Salmann, il benedettino tedesco che è stato maestro di Matteo: questo basta a fare di Matteo, per loro, il cerchio cui dare il colpo successivo a quello dato alla botte (la quale, nella fattispecie, si può esemplificare nell’euforica iconoclastia di Mancuso). L’alfabeto teologico-esistenziale che la cristianità latina ha passato alla modernità, e che in qualche modo è rimasta (inacidendosi?) anche nella postmodernità – l’alfabeto di “grazia”, “peccato”, “colpa”, “merito”, “redenzione”, “dannazione” – risulta di fatto incompreso (chissà se anche incomprensibile!) particolarmente a una generazione, ossia a quella nata dopo gli anni ’80 del Novecento. Questa generazione è stata forzosamente cresciuta in un clima di diffusa repressione sociale del fatto religioso (malgrado il risalto mediatico comunque tributato agli esponenti del clero, specie delle alte gerarchie), e ha sviluppato una singolare dissociazione che si è spinta oltre il programmatico “Cristo sì-Chiesa no” degli anni ’70, fino a una appartenenza alla Chiesa tanto apatica da risultare paradossalmente slegata dal contatto con Cristo. «Belonging without believing» è una modalità esistentiva tanto disincantata da evitare il cinismo soltanto nel corner della dissociazione dell’ambito dell’appartenenza e di quello della credenza; nonostante la sua paradossalità, la formula è degna d’essere ben considerata.
La proposta di Matteo, sulla scia di Salmann, è quella della “dieta ecclesiale”: gli eventi storici ci hanno sottratto quella visibilità, quella comprensibilità, quell’immediatezza e quel potere che avevamo. Una ragionevole estrapolazione a partire da quello che s’intravede oltre le Alpi lascia supporre che “l’inverno” non sia agli ultimi colpi di coda: in Europa le Istituzioni concertano insieme il da farsi di chiese, collegiate, monumenti vuoti, e ogni Chiesa, frammento sacramentale della Grande Chiesa, deve scegliere se (ed eventualmente come) far fronte alle necessità di pura manutenzione delle proprie strutture già necessarie (mobili, immobili e istituzionali) oppure se raccogliersi in se stessa alla ricerca dell’energia necessaria per un colpo d’ala che le permetta di “reinventarsi” in una forma storica (perché solo di questo si tratta) più adeguata alle mutate situazioni dell’habitat. È una scelta certo non facile, poiché omnis determinatio est negatio, e ogni cambiamento prevede la certezza di perdere qualcosa e il rischio di perdere qualcosa d’importante, a fronte della speranza di restare significativi. Abbiamo già ricordato (vedi link) che Benedetto XVI ha detto, in un’occasione certo non banale (era un messaggio indirizzato a tutti i membri della Curia Romana) che l’Occidente vive un momento simile a quello cui lo portarono, nel crollo dell’Impero Romano, le “invasioni barbariche”. Se quello che si dice della società ha un suo senso anche in seno alla comunità ecclesiale, è evidente che misure analoghe (nello spirito che le ispirasse) a quelle prese all’epoca da un Gregorio Magno non sarebbero fuori dall’ordine delle cose.
E perché “resistere”? Perché voler “restare significativi”? Perché quello che un “ateo devoto” non può comprendere intimamente è che quello che è in gioco non è solo la malta del decadente edificio occidentale, ma pure la ragion d’essere – restando nella metafora edilizia – di ogni singolo mattone dell’edificio: il senso religioso dei giovani è stato coartato in strettoie privatistiche che non hanno saputo dispiegarne l’autentico sviluppo, negli ultimi trent’anni come mai prima. Le conseguenze di questo sono a oggi storicamente imprevedibili, ma il compito della società ecclesiale, in ognuno dei suoi “oggi”, è ri-formarsi per poter restare fedele a se stessa (che vuol dire, ed è l’unica via, restare fedele a chi l’ha fondata).
Foto: © NASA