Giovani cronicamente disoccupati
In Italia aumentano i giovani disoccupati. Questo il risultato allarmante che esce fuori dai dati destagionalizzati e dalle stime provvisorie dell’Istat, pubblicati il 1° Febbraio. Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è salito a dicembre (2010) al 29% dal 28,9% di novembre, segnando così un nuovo record, si tratta, infatti, del livello più alto dall’inizio delle serie storiche mensili, ovvero dal gennaio del 2004.
Il dato è in netta controtendenza con il resto dei paesi dell’Unione Europea e segna una differenza netta anche con il trend occupazionale generale della nostra nazione. Il tasso di disoccupazione a dicembre, infatti, resta stabile all’8,6%, lo stesso livello già registrato a novembre (rivisto al ribasso dall’8,7%); questo vuol dire che il nostro mondo del lavoro è segnato “dall’anzianità”, ovvero è tenuto strettamente tra le mani dal mondo degli adulti che non riescono a procurarlo alle giovani generazioni. Stiamo parlando di un dieci per cento in più della media europea, di fatto quasi uno su tre dei nostri giovani sta tutto il giorno con le mani in mano.In realtà sono molti, moltissimi, ogni giorno, i curricoli di giovani che hanno un diploma, una o anche due lauree, più master, conoscenze di più lingue, che arrivano sulle scrivanie o sulle caselle mail della aziende, piccole e grandi, italiane. Manca il ricambio generazionale, o meglio, il giovani sono pronti ma non vengono supportati e accompagnati nell’ingresso nel mondo lavorativo.
«Occorre una “diffusa ed efficace riqualificazione delle competenze, per valorizzare il capitale sociale e agganciare la domanda di lavoro», questo il primo commento delle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (Acli) in merito ai dati sulla disoccupazione diffusi in settimana dall’Istat. «I numeri esprimono con chiarezza il nostro pesante ritardo in Europa – ha spiegato il responsabile del dipartimento lavoro delle Acli, Maurizio Drezzadore – due giovani ogni 10 sono in dispersione, cioè fuori di ogni circuito di studio o di lavoro, 25 su 100 si fermano all’assolvimento dell’obbligo scolastico». Quello che sembra allarmare di più le Acli è la contraddizione tra la crescente disoccupazione giovanile, il saldo occupazionale in crescita per gli immigrati e l’ampia gamma di professioni ricercate dalle imprese, ma non reperibili su mercato. «Bisogna decidersi a superare – afferma Drezzadore – il diffuso sentimento di discredito che pervade il lavoro manuale, avviando un’azione educativa verso le giovani generazioni che rimetta il lavoro al centro delle scelte di studio e di vita di tutti». «Bisogna puntare sui giovani e la formazione – conclude Drezzadore – valorizzando il contratto di apprendistato professionalizzante, rafforzando il compito formativo delle piccole imprese e stabilendo una forte coesione tra impresa e offerta formativa professionale, aprendo la scuola alle esigenze del territorio». A fare eco alle Acli, il commento di tutto il fronte sindacale preoccupato per le ricadute sociali della disoccupazione. «Se un terzo dei giovani non lavora – denuncia Fulvio Fammoni segretario confederale Cgil – mentre una cifra ancora più alta lavora solo con contratti di tipo precario, come dicono le percentuali delle assunzioni, allora la precarietà nel lavoro sarà sempre più una precarietà sociale».
Il lavoro nobilita l’uomo recita un famoso aforisma. La nostra speranza, davanti a una situazione oggettivamente difficile, sono i tanti esempi di giovani che si impegnano tenacemente per trovare una posizione lavorativa, ottenendo un risultato positivo e duraturo nel tempo; ma non va dimenticato quello che per la nostra costituzione è l’Articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.”
La verità che emerge dai dati è quella di un Paese che non investe sui giovani e quello che è drammatico è che nessuno va al di là di una generica denuncia di quanto accade offrendo soluzioni credibili, tutelando le famiglie e applicando condizioni di lavoro che, anche dal punto di vista economico, siano semplicemente rispettose di quelli che non sono privilegi, ma semplici diritti.