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Parabola di una parabola: Neutralizzazione (im)morale

Come disinnescare un testo esplosivo e come invece farlo detonare “a salve”. III e IV secolo.

«Ma è mai possibile – forse qualcuno tra voi s’è chiesto – che dobbiamo per forza parlare di nemici ed eresie nella Chiesa?». «Insomma – verosimilmente avrà proseguito tra sé e sé – Gesù ha insegnato l’amore, il perdono e la riconciliazione: perché non la si finisce di dire, dai dogmi ai contraccettivi, chi sta dalla parte dei buoni e chi sta dalla parte dei cattivi?». E certo questo è un fatto: che ciò che l’espressione “l’essenza del cristianesimo” evoca ai nostri giorni è proprio accoglienza, tolleranza, rispetto. Resta però verissimo che anche quello di cui stiamo parlando da due settimane a questa parte è un fatto. E documentatissimo! Cerchiamo di capire, allora, che cosa è successo nel frattempo: per evitare però di pensare che le parole che abbiamo ricordato poco fa siano veramente la vera essenza del cristianesimo, così come sarebbe stata all’inizio e come l’avremmo faticosamente recuperata dopo secoli di fuliggine, ripartiamo dalla costatazione che già gli ultimi scritti confluiti poi nel “Nuovo Testamento” riportano le tracce della “caccia all’eretico”. «Infatti verrà il tempo – ammonisce la Seconda Lettera a Timoteo – in cui non si sopporterà la sana dottrina, ma per il prurito di udire qualcosa di nuovo gli uomini si circonderanno di maestri secondo le loro voglie» (4,3).

L’enunciato di base riguarda Gesù, del quale i suoi testimoni protestano essere sempre lo stesso, «ieri, oggi e sempre» (Eb. 12,18). E molti anni prima, Paolo aveva scongiurato i Galati di non prestare orecchio a chi fosse andato a insegnare diversamente da lui: «Se anche io stesso o un angelo del cielo venisse a darvi un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anatema! Come ho detto prima, ripeto di nuovo: se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema!» (Gal. 1,8-9). Che vuol dire quest’espressione minacciosa? Ma soprattutto, da dove viene tanta violenza? Erano moltissimi di quelli che venivano in contatto con Gesù, che si chiedevano: «Che è mai questo?» (p. es. Mc. 1,27) e soprattutto: «Chi è mai costui…?» (p. es. Mt. 8,27). Se ne rendeva conto lo stesso Gesù, di quello che necessariamente avrebbe causato tra gli uomini, quando diceva: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada» (Mt. 10,34).

Giusto per richiamare un po’ le ragioni delle divergenze e delle diffidenze nell’interpretazione della nostra parabola (vedi link) nel corso dei secoli: in fondo non resta al sicuro neanche il buon Dio, nelle parabole di Gesù – come si spiega che tante volte nei suoi racconti il padrone parta “per un lungo viaggio” o “ritardi a lungo”? È vero che, visto che Gesù ha sempre manifestato di credere in Dio (in un certo colmo sarebbe il senso se non lo avesse fatto!) e che tutti i suoi discepoli hanno sempre fatto altrettanto, le interpretazioni più inclini a compromettere la credibilità del buon Dio sono sempre state accuratamente evitate. Così quel grand’uomo di Girolamo di Stridone (il patrono di tutti gli studiosi della Bibbia!) scrisse un giorno in una lettera a Demetriade: «solo una cosa – e soprattutto quest’unica cosa prima di tutte le altre – dicendo e ripetendo raccomando a te, che sei nata da Dio: occupa il tuo animo con l’amore per la sacra lettura e non accogliere nella buona terra del tuo cuore il seme del grano e delle erbacce, perché non accada che il nemico – quando dorme il padrone (che è il “nous”, ossia la mente, sempre collegata a Dio) – venga a seminare anche la zizzania, ma di’ sempre: “lungo le notti ho cercato colui che il mio cuore ama”» (Lettera 130,7).

Come è chiaro, in questa lettura il grande esegeta glissa come se niente fosse il problema che il testo lascia intendere: non sta scritto da nessuna parte, ma se nella notte “tutti dormivano”… dormiva anche il padrone! E come la risolviamo, se Gesù stesso dice che “il padrone è il Figlio dell’uomo”? Ma non sta scritto pure che «non si addormenta, non prende sonno / il custode di Israele» (Sal. 121,4)? Niente: il punto risulterebbe incomprensibile, quindi l’incastro delle immagini associate viene scomposto e ricomposto in una via alternativa. Così il padrone diventa, per Girolamo (ma lo stesso per Ambrogio e anche per Origene!) la parte più alta dell’uomo, che veglia su quello che accade nel cuore dell’uomo. Tutta la parabola viene dunque compresa come un’allegoria dell’umanità che tende a intorpidirsi nel suo fervore amoroso davanti a Dio. È una parabola “innocua”, adesso: perfetta per raccomandare a una gentildonna di non dimenticare di fare le sue orazioni (qualcosa del genere faceva Girolamo nella lettera).

È anche questo un uso nobilissimo di un testo sacro – ci mancherebbe! – ma vediamo un po’ dove poteva portare quello stesso modo di leggere i testi che Girolamo aveva imitato da Origene (anche se poi lo criticava aspramente!): Cromazio di Aquileia, che era un amico di uno (Rufino) che era stato un carissimo amico e collega di Girolamo (prima che un acre nemico), sottolinea fortemente la coloritura “escatologica” della parabola, ossia il fatto che c’è un evento del racconto che si propone come figura della “fine di tutte le cose” – la mietitura. Che succede allora? Il destino del grano e della zizzania, raccolti rispettivamente in covoni e fascî, è quello di essere sottoposti a un’energia particolare: la zizzania, infatti, viene presa e bruciata “nella fornace ardente”, mentre i chicchi di grano “splenderanno come il sole”. Un bel modo per dire del duplice effetto che fa, alla fine del mondo, il bagliore abbacinante del corpo di Cristo (cf. Fil. 3,21): per alcuni è splendore di bellezza, rinvigorente e gioioso; per altri è un tormentoso ed eterno supplizio. E chi sarebbero questi “altri”? Cromazio ha in mente qualcosa di ben preciso: visto che “il regno del Padre” coincide – nella sua lettura – con il corpo di Cristo, quelli che non potranno sostenere la vista della carne di Dio Figlio sono evidentemente quelli che hanno negato la risurrezione dei corpi. Essi si trovano allora svergognati, confusi, accusati e tormentati per l’eternità dal semplice contrasto tra le loro false credenze (ecco, torna l’eresia!) e la verità delle cose, che è la splendida carne di Cristo.

Che succede, qui? La parabola serve da catalizzatore di una dottrina che risolve un altro problema (che di per sé la parabola non risolve affatto, anzi lo pone!): come fa a esserci un inferno eterno nel mondo del buon Dio? La risposta (che non è solo di Cromazio ma di un’enorme schiera di pensatori attraverso tutte le epoche) suona così: il sole in cui splendono i chicchi di grano e la fornace in cui viene bruciata la zizzania sono in realtà una cosa sola – ossia Dio, che alla fine «sarà tutto in tutti» (1Cor. 15,28). Con qualche sensibile variante, questo è lo stesso schema che starà alla base del “contrappasso” tipico dell’Inferno di Dante: c’è un aspetto del Mistero che ogni dannato ha particolarmente offeso, nella morale, nella dottrina, nell’ethos – in quell’aspetto preciso si patisce la vittoria che la verità riporta sull’errore.

Con Dante però facciamo un passo troppo lungo, e forse anche brusco: spendiamo allora una parola su quel genio di Origene di Alessandria, che è uno degli autori preferiti di Cromazio e Girolamo, come avevamo detto, ma che non poteva essere ripreso pari pari. Anche Ambrogio, da Milano, leggeva molto di lui, ma doveva selezionarne le parti “innocue”. Perché? Che aveva di così incandescente Origene? Beh, molte cose, ma nella fattispecie queste due: da un lato, per una variegata serie di ragioni, egli credeva che prima di nascere gli uomini già esistessero, in Dio, e che poi – per una “colpa antecedente” (non è il “peccato originale”!) – cadessero in corpi mortali; dall’altro egli nutriva la convinzione che alla fine dei tempi ci sarà una “ricapitolazione generale” di tutto (la chiamava “apocatastasi”), e che in questo “recupero universale” anche il diavolo sarà reintegrato nell’amore di Dio, per non distaccarsene più.

Ma allora come si spiega la fornace ardente? Origene ritiene, con quelli che lo seguono, che l’ira di Dio sia proprio ciò che distruggerà tutto il male in tutti gli uomini, liberandoli quindi per sempre dalla schiavitù del peccato. Gregorio di Nissa scriverà: «Quando il fuoco avrà consumato l’elemento che è contro natura ed è stato consegnato al fuoco eterno, allora fiorirà anche la natura di costoro e maturerà fino a produrre il suo frutto […]. Esso riprenderà una buona volta, dopo lunghi giri di anni, la forma comune a tutti gli uomini – quella di cui all’inizio eravamo stati rivestiti per volere divino» (L’anima e la risurrezione, 76).

Quali siano i limiti di queste teorie – così innegabilmente affascinanti – lo vedremo un’altra volta. Abbiamo buttato un occhio all’Oriente (con appena qualche accenno ad autori occidentali) per prepararci ad affrontare la vicenda in cui si traccerà la prima grande crisi di coscienza della Chiesa

Foto: http://www.elotrolado.net/hilo_imagenes-historicas_515578_s430.


About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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