Diamo la Parola alla vita

Sarà la penombra o la difficoltà a schivare gli sguardi, in una sala d’attesa, qualsiasi occasione si offra, la cogli al volo per iniziare a pensare e, inavvertitamente, puoi arrivare a riflettere anche sui massimi sistemi. L’occasione della riflessione, generalmente, è suggerita dalla protagonista indiscussa di ogni sala d’attesa che si rispetti: la copertina di un giornale che, anche se vecchio di anni, per il solo fatto di trovarsi lì, assurge automaticamente alla dignità di «fresco di giornata». Questa volta la copertina ritraeva Miguel Bosé, padre felice di due gemelli avuti ricorrendo ad un «utero in affitto» detto anche, quando il linguaggio sa esprimere l’ipocrisia umana, «madre surrogata».
Il termine «surrogato» indica, per estensione, «ciò che sostituisce qualcos’altro in modo incompleto, imperfetto». La sola definizione, quindi, basterebbe per capire che una «madre surrogata» sostituisce in modo incompleto una madre, perchè riduce il complesso e la complessità che è la persona-madre ad una parte del corpo: un utero venduto, sicuramente per denaro e non sempre per bisogno. L’imperfezione, poi, credo risieda nell’innaturale e inumana condizione di chi riesce a portare qualcuno dentro di sé per nove mesi, senza amarlo al punto da non abbandonarlo. Se una donna lo fa per bisogno, le dovrebbe essere impedito perché ferisce, innanzitutto, il valore del suo stesso corpo e del suo essere persona. Se lo fa per libera scelta, le dovrebbe essere impedito perché manipola l’identità di una creatura inconsapevole. Immaginiamo che, ad una festicciola di amici, qualche compagno chieda al «prodotto del concepimento» di Miguel Bosè: «Chi sono tua madre e tuo padre?» Il bambino, perché è un bambino, se correttamente e sinceramente informato, dovrebbe inerpicarsi in un’articolata risposta del tipo: «Dunque, da un punto di vista biologico, sono figlio di un embrione fecondato non so da chi ed impiantato in un utero di una donna che non so chi sia. A crescermi, invece, non sono un padre ed una madre ma, come indicato sul mio certificato di nascita, «un genitore A» e «un genitore B».
Se questa è un’identità, mi viene da dire.
Quando il naturale e comprensibile desiderio di diventare padre o madre si trasforma in un diritto da esigere, un bambino non è elevato alla dignità di persona, di essere umano che ha valore in sé e per sé, ma è ridotto ad un bisogno: assecondare il desiderio di qualcuno di essere genitore, la libertà di qualcun altro di essere fornitore di organi o cellule da trapiantare.
Come esprime quel «santuario della vita» che è la Lettera Enciclica Evangelium vitae, quando un bambino è concepito in una prospettiva egoistica e materialistica, tutte le relazioni umane interpersonali conoscono un grave impoverimento:«[…] il corpo non viene più percepito come realtà tipicamente personale […], esso è ridotto a pura materialità, semplice complesso di organi, funzioni, ed energie da usare secondo criteri di mera godibilità ed efficienza. Conseguentemente, anche la sessualità è depersonalizzata e strumentalizzata: da segno, luogo e linguaggio dell’amore, ossia di dono di sé e di accoglienza dell’altro, secondo l’interezza della persona, diventa sempre più affermazione del proprio io e soddisfazione egoistica dei propri desideri ed istinti. La procreazione allora diventa il «nemico» da evitare nell’esercizio della sessualità: se viene accettata, è solo perché esprime il proprio desiderio, o addirittura la propria volontà, di avere il figlio «ad ogni costo» e non invece perché dice totale accoglienza dell’altro e, quindi, apertura alla ricchezza della vita cui il figlio è portatore» (n. 23).
Affinché queste parole non siano strumentalizzate, come espressione di una Chiesa omofoba e sessuofoba, giova chiarire che esse sono indirizzate a qualsiasi pratica trasformi la «vita da valore indisponibile a valore convenzionale e negoziabile». Per la Chiesa, le varie tecniche di riproduzione artificiale, anche se praticate all’interno di una coppia sposata, quando assecondano i progressi della scienza oltre il limite della legge naturale scritta nel cuore di ciascuno (cfr.Rm 2,14-15), sono ugualmente considerate «una congiura contro la vita», perché «nella biologia della generazione è inscritta la genealogia della persona»: «Affermando che i coniugi come genitori sono collaboratori di Dio creatore nel concepimento e nella generazione di un nuovo essere umano non ci riferiamo solo alle leggi della biologia: intendiamo sottolineare piuttosto che nella paternità e maternità umane Dio stesso è presente in modo diverso da come avviene in ogni altra generazione sulla terra. Infatti soltanto da Dio può provenire quella immagine e somiglianza che è propria dell’essere umano, così come è avvenuto nella creazione. La generazione è la continuazione della creazione» (n.43). Una madre, quindi, non genera «suo» figlio, ma una persona che è essa stessa, in sé e per sé, portatrice di vita e, quindi, un essere «indisponibile».
La Chiesa, altro aspetto da chiarire, non ha interessi particolari, tantomeno moralistici, nell’occuparsi di corpo, sessualità, matrimonio, maternità, se non nella misura in cui queste cose appartengono «all’uomo vivente che costituisce la prima e fondamentale via della Chiesa»: «Il Vangelo dell’amore di Dio per l’uomo, il vangelo della dignità della persona e il Vangelo della vita sono un unico ed indivisibile Vangelo». La Chiesa ha un’unica priorità: l’amore di Dio per l’uomo vivente. Siamo noi a ricoprire l’uomo vivente di qualità ed etichette, le sole che ce lo facciano rendere apprezzabile.
Ad annunciare il Vangelo della vita e per la vita, sono chiamati tutti i membri della Chiesa, «popolo della vita e per la vita». In questa testimonianza, però, le madri possono e devono avere un ruolo prioritario, proprio perché vivono l’esperienza del dono e della cura della vita sulla propria pelle. Un figlio è un dono, sì, ma anche la maternità è un dono troppo grande per essere chiuso nei confini, troppo limitati, della «madre traguardo» o, peggio, della «madre trofeo». Intendo, con queste espressioni, indicare quelle madri che, dal momento della nascita del figlio, raggiunto un traguardo in perfetta sincronia con il proprio orologio biologico, vivono l’essere famiglia in un recinto, che non sa andare oltre la propria station wagon o, al massimo, più station wagon riunite per testare i propri «figli trofeo».
Anche un dono, atteso ed accolto come tale, può trasformarsi, se non si vigila, in un possesso che chiude in sé e agli altri.
E la Chiesa, che è Madre, lo sa e lo insegna, perché una madre conosce le debolezze dei propri figli, ma vive per potenziarne le qualità. E così l’Evangelium vitae, intrecciandosi con le parole del messaggio conclusivo del Concilio Vaticano II, tocca a mio parere il livello più alto e geniale, che ne fa «il santuario della vita» per eccellenza, proprio quando esorta a realizzare la maternità nella sua completezza: «La maternità contiene in sé una speciale comunione con il mistero della vita, che matura nel seno della donna…Questo modo unico di contatto con il nuovo uomo che si sta formando crea a sua volta un atteggiamento verso l’uomo -non solo verso il proprio figlio, ma verso l’uomo in genere- tale da caratterizzare profondamente tutta la personalità della donna» (n.99).
Tutte le donne sono chiamate a testimoniare che il dono di sé e l’accoglienza dell’altro, che si manifestano in modo specifico nella maternità, possono diventare l’anima di ogni altra relazione interpersonale: «Le relazioni umane sono autentiche quando si aprono all’accoglienza dell’altra persona, riconosciuta ed amata per la dignità che le deriva dal fatto di essere persona e non da altri fattori quali l’utilità, la forza, l’intelligenza, la bellezza e la salute» (n.99).
Se l’esperienza della maternità favorisce nelle donne una sensibilità acuta per l’altra persona, una buona madre deve sentire il compito di testimoniarlo in tutta e per tutta la sua vita.
«Questo è il contributo fondamentale che la Chiesa e l’umanità si attendono dalle donne».
Felice di ritrovarvi in questa “porzione” di amici in ricerca;-) non risponderò, forse, alle domande, dico solo quello che sento. Gianna Jessen è uno splendido esempio, (le sue parole fanno vibrare) di chi, però, strano a dirsi, si trova in una condizione “privilegiata”: è sopravvissuta alla possibilità di perdere la vita e sperimenta, sulla propria pelle, la grazia di vedere che la vita è molto, molto di più, di quello che generalmente si ritenga essere il “minimo sindacale” perchè una vita sia degna di essere chiamata vita. Ma una madre che sceglie di abortire non ha la consapevolezza di Jessen perché non l’ha vissuta, le ragioni della prima non sono quelle della seconda. Paradossalmente, credo che la vera battaglia “prolife” dovrebbe essere fatta non tanto educando al valore della vita, quanto educando al senso della sofferenza e del dolore. Fino a quando chi deve decidere per la vita, avrà paura del dolore e ignoranza del senso della sofferenza, continuerà a prevalere la logica “del minimo sindacale” e delle “migliori condizioni”, senza le quali una vita non puà essere ritenuta degna di essere vissuta. Fidatevi delle parole di Jessen….
Ma “la c’è, la Provvidenza”, e qualche ciambella non è riuscita col buco: Gianna Jessen è sopravvissuta all’aborto salino che le avevano inflitto, e ora parla, denuncia, serve la verità.
Gianna non è la sola, anche se certamente la più nota e faconda: c’è anche Tim, l'”Oldenburg Baby”, che fu abortito perché gli fu diagnosticata prenatalmente la sindrome di Down. Ma è sopravvissuto. E vive, e parla, e denuncia, e serve la verità.
Dal sito di Tim (che purtroppo è solo in tedesco) s’impara anche che questi casi non sono gli unici, ma che statisticamente fino al 30% degli esseri umani abortiti (non chirurgicamente, è chiaro) nasce vivo all’appuntamento con la propria morte. Che succede poi? Beh, i dottori “terminano” l’opera che hanno iniziato. E pensare a Paesi come l’Italia, dove la legge sull’aborto permette l'”interruzione volontaria di gravidanza” ma obbliga il medico a soccorrere il bambino, nel caso in cui nasca vivo (ma che frasi devo scrivere?!). La stessa persona è, fino a venti minuti prima, un corpo estraneo che sarebbe lecito espellere “terapeuticamente”, e venti minuti dopo un povero malcapitato che bisogna aiutare a sopravvivere*!
Ipocrisia senza nome…
*: Con che frequenza, poi, questo si faccia effettivamente, è tutto da vedere. Ma non ci sono statistiche trasparenti di questa fetta del crimine.
Stefano, è un po’ che la parola “diritto” non riesce più a impressionarmi (lo fa molto di più la macabra assonanza che talvolta guadagna con “delitto”).
Un indiscutibile vanto della cristianità è che dai tempi della Didaché (dove l’aborto veniva semplicemente indicato come “la via della morte”) a quelli della Gaudium et Spes (che giustamente lo stigmatizza come “abominevole delitto”, accompagnandolo nientemeno che all’infanticidio) la linea di condanna di certi presunti “diritti” è stata fermissima.
L’ipocrisia vergognosa di certi partituccoli italiani, che recentemente hanno chiamato questo abominevole delitto “maternità responsabile”, si commenta da sé. Quello che invece ancora necessita un commento è l’incredibile ignoranza che su questo argomento la fa da padrona: forse non hai mai parlato con una donna che ha abortito e che non sa né quali sono le tecniche abortive in genere né quale hanno usato contro suo figlio…
E blaterano che “ci vogliono corsi di educazione sessuale”: certo che ci vogliono, ma non corsi in cui si spieghi come funziona un preservativo (cosa tanto banale che tre immagini sul retro della confezione bastano), bensì proprio qual è il prezzo disumano del prendere il sacrario della vita per un semplice gioco.
Beh, il testo condivisibile che per un problema tecnico non si è incollato va dalla parte citata fino a tutta la fine del tuo articolo.
Un caro saluto e a presto
Claudia,
trovo condivisibile quanto hai scritto nella parte finale dell’articolo (per intenderci da <<Tutte le donne sono chiamate a testimoniare che il dono di sé e l’accoglienza dell’altro (…) a <>
Tuttavia c’è tutto il testo che precede che in larga parte ci separa… Quando lo trovo il tempo per commentare? E poi non vorrei che pensassi che trovo il tempo solo per commentare gli articoli di Giovanni…