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Fioccano anime all’inferno?

Davvero esiste l’inferno? E quelli che lo dicono vuoto? Il profilo di una pericolosa illusione

«Non ti pare che la conclusione spinga troppo sull’idea che l’inferno sia non-vuoto?» Così mi aveva scritto un lettore – un amico che segue costantemente le nostre rubriche – a proposito dell’articolo in cui avevamo preso spunto dalla demonizzazione mediatica con cui s’era accompagnato il rovesciamento di Gheddafi per osservare come un procedimento analogo abbia delineato, nelle Scritture che Israele e la Chiesa si sono trasmesse, la figura del nemico di Dio. In effetti concludevamo dicendo che colui che risultava rivelato dall’ingigantimento dell’ombra del “principe di Tiro” (Ez 28) è una persona che ha misteriosamente pervertito la propria perfezione originaria condannandosi a un’eternità di pianto sconsolato.

L’osservazione dell’amico-lettore mi aveva immediatamente divertito e al contempo intristito: evidentemente, non è in via autonoma che le persone sono arrivate a formarsi un’idea d’inferno tale che lo si possa contemplare “vuoto”. Evidentemente è in atto una rimozione collettiva dei terrificanti affreschi medievali a carattere parenetico, nonché degli argomenti retorici che nutrivano pamphlets come il celebre Quaresimale del P. Paolo Segneri (S.J.). Nella raccolta di omelie quaresimali che il famoso gesuita pubblicò nel 1674, per esempio, si legge di un Arcivescovo che, al capezzale di un “nobile cancelliere”, da lui “amatissimo”, lo supplica di tornare in qualche modo a rivelargli qualcosa dell’aldilà. Nel trigesimo dalla morte – e senza con questo plagiare in alcun modo il buon vecchio Dickens, visto che questi non sarebbe nato che un paio di secoli più tardi – il defunto appare all’Arcivescovo, con la faccia e le vesti peste: avverte l’amico prelato di essersi dannatoparte per la sua superbia, parte per la sua sensualità») e poi domanda quanto tempo sia trascorso dal suo decesso. Alla risposta dell’amico, il dannato esclama: «“Trenta dì? […] Non più? Non più? […] Guai! Guai! Guai! […] Oh poveri noi dannati! […] Tutti noi giù nell’inferno riputavamo che già fosse vicino il dì del Giudizio” […] – “E perché?” – “Perché, come le nevi fioccan d’inverno sopra la terra, così le anime fioccano nell’inferno” […]. E detto questo, diede un orribilissimo grido e sparì» (Nel Giovedì dopo la seconda Domenica, Predica XIV, seconda parte).

L’immagine della raccapricciante nevicata d’anime ha terrorizzato decine di milioni di ascoltatori di prediche per tutto l’evo moderno: da ogni pulpito, con poche varianti, spesso e volentieri l’immaginazione di intere popolazioni è stata nutrita a base di una martellante insistenza sui novissimi (la morte, il giudizio, l’inferno e il paradiso). Nessuno di noi e dei nostri contemporanei è del tutto immune alla nausea che da questo nutrimento, come da un’indigestione, ci è pervenuta: si ha come l’impressione di assaporare un piatto preparato forse con ingredienti proprî e congrui, ma in dosi totalmente sballate.

Nessuno di noi e dei nostri contemporanei, allo stesso modo, è tanto ingenuo (quanto ai pregiudizî storico-critici) da non sospettare che una simile predicazione abbia influito anche sul racconto che nel 1941 suor Lucia di Fatima pose per iscritto: «Ella [la Vergine] ancora una volta aprì le Sue mani, come aveva fatto i due mesi precedenti. I raggi [di luce] apparvero per penetrare la terra e noi vedemmo come un vasto mare di fuoco e vedemmo i demòni e le anime [dei dannati] immersi in esso. Vi erano poi come tizzoni ardenti trasparenti, tutti anneriti e bruciati, con forma umana. Essi fluttuavano in questa grande conflagrazione, ora lanciati in aria dalle fiamme e poi risucchiati di nuovo, insieme a grandi nuvole di fumo. Talvolta ricadevano su ogni lato come scintille su fuochi enormi, senza peso o equilibrio, fra grida e lamenti di dolore e disperazione, che ci terrorizzavano e ci facevano tremare di paura (deve essere stata questa visione a farmi piangere, come dice la gente che mi udì). I demòni si distinguevano [dalle anime dei dannati] per il loro aspetto terrificante e repellente simile a quello di animali orrendi e sconosciuti, neri e trasparenti come tizzoni ardenti. Questa visione è durata solamente un attimo, grazie alla nostra buona Madre Celeste, che nella sua prima apparizione aveva promesso di portarci in Paradiso. Senza questa promessa, credo che saremmo morti di terrore e spavento».

E poi, che valore dogmatico dare alle dichiarazioni di suor Lucia? Che cosa significano esse per la nostra fede? Siamo vincolati a crederle? Certo che no, come non lo siamo ogni volta che ci troviamo in presenza di una rivelazione privata, pur se non discordante con la grande rivelazione pubblica – nella quale risiede invece una forza dogmatica vincolante per chi intende aderire alle parole del Dio che si comunica all’uomo. Il resoconto della veggente di Fatima, che fu messo per iscritto su richiesta del proprio vescovo ventiquattr’anni dopo il 13 luglio 1917 – data in cui la visione avrebbe avuto luogo – ha una sua qualche rilevanza semplicemente per il fatto che fu Pio XII, nel 1942, a divulgarlo.

Personalmente, resto colpito soprattutto da alcuni dettaglî del racconto, ad un tempo caratterizzati da forte realismo e non meno surreali di una tela di Dalì: «[…] su fuochi enormi, senza peso o equilibrio», oppure «[…] animali orrendi e sconosciuti, neri e trasparenti come tizzoni ardenti» – sono immagini che non mi riesce di figurarmi nella semplice fantasia di una pastorella. Questo, tuttavia, non fa di esse espressione certa di una rivelazione divina.

La rivelazione divina incontestabile, però – quella raccolta dalla fede della Chiesa, quella su cui la fede della Chiesa è fondata e in cui essa si riconosce – non risparmia parole, nell’Antico e nel Nuovo Testamento, sull’Inferno, tanto che il Catechismo della Chiesa Cattolica può recitare, sul finire della Prima Parte: «La Chiesa nel suo insegnamento afferma l’esistenza dell’inferno e la sua eternità. […]. La pena principale dell’inferno consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l’uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira» (1035). Ora, ciascuno può facilmente tornare con la mente ai numerosi passi in cui Gesù, riecheggiando espressioni dei Profeti, parla di “fuoco eterno”, di “pianto e stridore di denti”, di porte chiuse per sempre (Mt 24-25 ; Mc 13 ; Lc 21); ci si potrebbe dilungare a enumerare – Bibbia alla mano – le tragiche allusioni di Paolo a “quelli che si dannano” per il misterioso non accogliere il disegno della misericordia divina, mentre rimbombano al cuore le oscure parole dell’Apocalisse sul tempo in cui «gli uomini cercheranno la morte e non la troveranno; desidereranno morire, e la morte fuggirà via da loro» (9,6).

Non serve però dilungarsi nell’elenco delle testimonianze scritturistiche, numerosissime e (spesso) chiarissime, perché ciò su cui è più interessante riflettere è che fin dall’inizio dell’avventura cristiana nella storia non sono mancati teologi (più o meno grandi) che in un modo o nell’altro hanno ritorto la verità rivelata dell’inferno in modo da fare di esso al più una lunghissima e severissima punizione, destinata – tuttavia – a essere riassorbita nell’amore di Dio. Tali dottrine non sono state mai accolte nell’insegnamento della Chiesa (quando non sono state seccamente condannate come eretiche), la quale ha il dovere di restare sulla breccia della rivelazione divina, anche a costo di vedere le proprie ragioni ammutolire. Da Origene a Von Balthasar, tuttavia, questa ricorrenza letteraria evidenzia piuttosto il costante sforzo speculativo di reintegrare (a qualunque costo) tutta la Rivelazione nel trionfo definitivo del Regno di Dio.

In effetti, è pura verità che alla fine di tutte le cose «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28), e che ogni teoria dell’inferno deve far quadrare i conti con essa. L’altissima visione dantesca si premura di farlo non appena i piedi dei suoi protagonisti giungono alla porta dell’inferno. Sotto la terzina che molti ricordano a memoria, e prima del lapidario endecasillabo che veramente tutti ricordano a memoria (e che molti hanno perfino inciso sui banchi scolastici), sta la produzione più alta e nitida del genio teologico di Dante (in merito all’inferno), che riconosce e fonda la bontà del supplizio eterno “nel mondo del buon Dio”: «Giustizia mosse il mio alto Fattore; / fecemi la divina podestate, / la somma sapienza e ‘l primo amore. / Dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterna duro» (If. III,4-8).

Proprio perché in ogni teologia (che è fede professata e pensata) l’inferno rischia di restare poggiato con imbarazzo su una mensola, come una bomboniera di cattivo gusto (che però non si ha il coraggio di buttare, nell’eventualità che passi a trovarci chi ce l’ha regalata), è ultimamente invalsa nella predicazione la vulgata per cui «l’inferno non esiste, e se esiste è vuoto». Ora, dato che la prima affermazione appare irragionevolmente e indifendibilmente falsa, i più si arroccano sulla seconda, chiamando per questo in causa l’autorità di Hans Urs Von Balthasar, teologo svizzero tra i più grandi del Novecento (morto pochi giorni prima di ricevere la berretta cardinalizia). La tendenza è tanto disinvoltamente diffusa che perfino a La Civiltà Cattolica si sono fatti un dovere d’intervenire con una nota chiarificatrice: sul Quaderno 3788, datato al 19 aprile 2008, il P. Giandomenico Mucci S.J. ha dettagliatamente e chiaramente esposto il pensiero di Von Balthasar nella sua ortodossia, respingendone le divulgazioni frettolose ed erronee («L’inferno vuoto», 132-138). È perfettamente congruo alla pietà della fede cristiana sperare che tutti gli uomini siano salvati, e del resto mai la Chiesa ha impegnato la sua autorità per definire lo stato di dannazione di chicchessia; questa sola doverosa concessione alla speranza non può però sovrastare e schiacciare l’intera analogia della fede, che insegna senza ambiguità le verità del giudizio e dell’inferno.

Né dell’inferno si può protestare che esso sarebbe “una mera possibilità” atta a garantire la libertà delle creature: come se si trattasse della minaccia di una punizione terribile che comunque il babbo buono usa solo per educare i bambini e che non giungerebbe mai a mettere realmente in atto. L’inferno come possibilità è la modalità in cui ciascuno deve concepire per sé la rivelazione sul castigo eterno, cui ci si espone rifiutando pertinacemente l’amore di Dio: vale a dire, è per me (per il momento) che l’inferno è “solo una (orribile) possibilità”, non per tutti e in assoluto. La grossolana sgrammaticatura teologica della formula “inferno vuoto” tradisce il concetto di un “inferno” che assomiglia più a un garage che a uno stato spirituale: in quanto tale (almeno fino alla risurrezione dei morti), l’inferno non può “esistere ma essere vuoto”, perché la condizione per cui uno stato spirituale si dà è che vi si trovi qualcuno (un po’ come dire che non può esistere la felicità, se non c’è alcuna persona felice al mondo). Ora, che vi sia in questo stato almeno una caotica pluralità di creature spirituali è attestato in molti passi della Scrittura, non ultimo nella Lettera di Giuda (questa sconosciuta!): «Ora io voglio ricordare a voi […] che gli angeli che non conservarono la loro dignità ma lasciarono la propria dimora, egli [Dio] li tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del gran giorno» (5-6).

La speranza che nessun uomo si sia esposto alla condanna eterna, del resto, non allevia minimamente il problema teologico che l’inferno comunque resta: esso è lo stato più prossimo all’annichilimento delle creature, dove tutte le potenze della persona (spirituali e, nel caso delle persone umane, anche psichiche e fisiche) sono contraddette e straziate in misure di cui le più atroci malattie – fisiche, morali, psichiche e spirituali – non dovrebbero verosimilmente essere che pallide immagini. Conciliare tutto questo con le perfezioni divine non diventa più facile se ci sono meno dannati, o se solo i demonî si dannano, e neppure se vi fosse un unico angelo caduto a subire questo supplizio: il Dio che ha rivelato di gioire della conversione dell’empio come gioisce il pastore che a fronte di un gregge salvo ritrova l’unica pecora smarrita, proprio quel Dio deve poter essere infinitamente ed eternamente felice (unitamente coi suoi santi) anche nella perfetta conoscenza del destino di angoscia mortale che stritolerà in eterno quella pecora.

Questo è il problema, e non lo risolveranno formulette consolatorie coniate ad hoc: nessun uomo sensato s’illuderebbe di non dover più pagare le tasse per il fatto che un passante, per strada, glie lo avrebbe garantito. Molti uomini, invece, sembrano ritenersi sensati (magari anche “teologi acuti”) per essere i primi a credere alle menzogne che ammanniscono agli altri. Ora, Lucia di Fatima e Paolo Segneri non sono una fonte della rivelazione, ma questi neppure, mentre Benedetto XVI ne è, se non altro, un interprete autentico. Sempre nell’articolo sopra ricordato, il P. Mucci ha evidenziato (con buona finezza filologica) un paio di passi dell’enciclica Spe Salvi in cui la traduzione italiana avrebbe sensibilmente mitigato il testo tipico (latino): «Possono esserci [ma il testo latino recita: “Sunt quidam”, cioè “Vi sono alcuni”] persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all’amore. Persone in cui tutto è divenuto menzogna; persone che hanno vissuto per l’odio e hanno calpestato in se stesse l’amore. E questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile [ma il testo latino recita: “nihil sanabile invenias”, ovvero “non troverai/non si troverà…”] e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno» (18).

Se parlando dell’inferno non salgono le lacrime agli occhî non si sta capendo di cosa si parla, o ci si sta forse pericolosamente illudendo di non dover essere sottoposti a un giudizio che ne contempla la possibilità: questo è abusare della Verità, che Dio ha rivelato per la nostra salvezza, e non per la nostra condanna. Se parlando dell’inferno non sosteniamo la durezza tenebrosa del mistero della pietà divina, che comprende l’ira eterna per il mysterium iniquitatis, ci stiamo sottraendo all’ascolto della Verità; essa ci è stata rivelata perché renda casta la nostra fede nell’obbedienza, e non perché il nostro teologare pretenda di insegnare a Dio i suoi misteri.

Inscrivere il deforme poligono dell’inferno nel cerchio perfettissimo della Grazia divina richiede ben altro che una banale difesa d’ufficio dell’Onnipotente: Dio basta a sé stesso, e nella croce di Cristo il suo giudizio s’è già innalzato al di sopra di ogni replica e di ogni appello. Se all’inferno fiocchino anime, o no, a noi non è dato saperlo. A noi non restano che poche parole di Cristo – «il Regno è in mezzo a voi», «quanto è difficile entrare nel Regno», «vegliate per non entrare in tentazione», «avrete forza dallo Spirito» – e il conforto dei suoi apostoli: «Convincete quelli che sono vacillanti, altri salvateli strappandoli dal fuoco, di altri infine abbiate compassione con timore, guardandovi perfino dalla veste contaminata della loro carne. A colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire davanti alla sua gloria senza difetti e nella letizia; all’unico Dio, nostro salvatore, per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore, gloria, maestà, forza e potenza prima di ogni tempo, ora e sempre. Amen!» (Gd 22-25).

 

 

Immagini: In evidenza, fotogramma tratto da «Una notte su Monte Calvo», in Fantasia, Disney, 1940.

Nel corpo, miniatura dell’inferno tratta dall’Hortus Deliciarum, Herrad von Landsberg, ca. 1180.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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2 Comments on Fioccano anime all’inferno?

  1. logitech // 10 Agosto 2012 a 13:49 //

    Se Dio ci facesse vedere l’inferno scomparirebbe il peccato dalla terra. Ma così sarebbe amato per terrore e non per amore. Inoltre intaccherebbe la libertà che ci ha donato che nessuno nè uomo, nè satana e neppure Lui scalfisce. Che meriti avremmo se fossimo obbligati ad amare Dio? Nessuno. E’ in virtù del nostro libero arbitrio che scegliamo l’amore o scientemente l’inferno, rifiutando anche l’ultima chiamata alla grazia per esalare l’ultimo respiro nell’impenitenza finale. In vita, è in forza della nostra libera volontà, che amiamo o rifiutiamo ogni grazia. Quest’ultimo caso rende quasi impossibile la salvezza, non essendosi mai…

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