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Un Dio da imitare

Omo-logarsi in Cristo: quando a conformarsi non si sbaglia

A scorrere un calendario cristiano (mica c’è solo quello romano!) si resta indifferenti solo se i nomi da quello riportati risultano assolutamente insignificanti per chi li legge, indifferenti tra loro in tutto tranne che nel nome. Il nome, evidentemente, non basta a conoscere chi lo porta, talvolta neanche negli aspetti più macroscopici: chi se l’aspetterebbe, che Nino di Georgia sia una donna? Se il nome non svela – normalmente (ci sono sempre i casi di Agata e di Agnese) – chi lo porta, tanto meno svela chi lo riporta: insomma, che razza di gruppo è questo, di cui fanno parte re e mendicanti, vergini e spose, prostitute diventate imperatrici e regine diventate dame di carità? Ci sono bambini e vecchî, guerrieri e infermiere, gente che ha ucciso e gente che è stata uccisa, gente che è stata perseguitata e gente che ha perseguitato: «Non vorrei mai entrare in un club – è la brillante battuta che Wilde metteva sulle labbra di un suo personaggio – che fosse disposto ad avere me tra i suoi membri».

E così, in un certo senso, si può dire che la Chiesa è al contempo il club popolare dai più stretti requisiti d’ammissione e il club esclusivo dai più larghi requisiti d’ammissione. Sfogliare il calendario soffermandosi sulle vicende dietro ai nomi ne dà la certezza: nella Chiesa c’è veramente posto per tutti, ma a delle condizioni strettissime (e viceversa). La difficoltà che viene nel discernere i modelli viene, a conti fatti, dall’incapacità di andare oltre i modelli, ovvero di ricondurre la sterminata varietà (che vuol dire “libertà”) dei santi esemplati all’ineffabile semplicità (che vuol dire “Grazia”) del loro prototipo, che solo è Santo.

Questa incapacità risulta evidente quando si ascoltano i disperanti versi del Laudate hominem di Fabrizio De Andre’, che rinunciava a vedere in Cristo una vera divinità «perché non si imita / imita un dio. / Un dio va temuto / e lodato. Lodato!». Una mente cresciuta a forza di dottrina cristiana genuina non può che osservare, immediatamente, come nulla vieti che alla lode si unisca l’imitazione; se invece ci si mette nei panni del contemporaneo infarinato di cristianesimo – del quale De Andre’ è un buon esemplare (e su cui, peraltro, ci siamo già intrattenuti qui e qui) – si può facilmente riconoscere che ha ragione – non si imita un dio.

È un tratto caratteristico di tutte le religioni che conosco, antiche e moderne: la divinità non deve e non può essere imitata, e questa imitazione costituisce anzi l’archetipo del peccato. C’è un’unica eccezione a questa norma teologica universale: la rivelazione giudaico-cristiana. Con ciò si devono chiaramente comprendere anche le religioni sorte in età moderna o contemporanea per più o meno diretta imitazione della novità cristiana: che Sai Baba insegnasse a “essere misericordiosi come è misericordiosa la Madre celeste [egli stesso]” è ben più che un’eco letteraria – è plagio. D’altro canto, anche un fortunatissimo inventore di religioni come Maometto, profondamente permeato del cristianesimo più superficiale, non ha valorizzato, nello scrivere i testi che sarebbero confluiti nel Corano, la novità della rivelazione giudaico-cristiana, la richiesta di Dio di essere imitato.

Sicuro: Zeus e Giove non chiesero mai di essere imitati, e quando Prometeo s’azzardò a portare agli uomini il fuoco finì incatenato a uno scoglio con un’aquila a rodergli il fegato tutti i giorni! Non a caso, in effetti, ai cristiani che leggevano queste storie Prometeo ricordava tanto Gesù (salvo per il fatto che quest’ultimo fu crocifisso dagli uomini, e non dal Padre!). Benché infatti, specie nei primi tre secoli dell’avventura cristiana, in tanti si siano sforzati di dimostrare che il Dio degli ebrei (e di quello che poco dopo tutti avrebbero chiamato “antico testamento”) era radicalmente diverso da quello di Gesù Cristo, quello che emerse dal paziente “sfregamento ecclesiale” dei testi fu tutt’altro.

Sì, alcune tracce di quella teologia ancestrale del Dio che non vuole farsi imitare persistono in alcuni testi dell’Antico Testamento (si pensi anche solo alla vicenda della torre di Babele Gn 11), ma già nel Pentateuco si trovano due importantissimi pilastri della teologia e della morale religiosa giudeo-cristiana: il codice di purità (Lv 11-16) e il codice di santità (Lv 17-26), collegati tra loro ma distinti. Il primo è l’insieme delle leggi che hanno a che fare con i tabù, personali e sociali, e certamente non costituisce un patrimonio esclusivo dell’Ebraismo, tantomeno del Cristianesimo. Il secondo, invece, è la scoperta del fondamento teologico dei contenuti del primo, e risponde, in pratica, alla domanda “che c’entra il fatto che Dio è grande e misterioso col ciclo mestruale delle donne e con le piaghe dei lebbrosi?”. Cognizioni mediche e igieniche a parte, l’idea fondamentale – una folgore della storia del pensiero teologico! – è che un popolo che conosce il vero Dio non può permettersi di comportarsi come tutti gli altri, che non lo conoscono: «Il Signore disse ancora a Mosè: “Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo”» (Lv 19,1).

Centinaia e centinaia di anni dopo, lo stesso testo fu ripreso in uno degli ultimi libri del Nuovo Testamento (e di tutta la Bibbia), la Prima lettera di Pietro: «A immagine di colui che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta, poiché sta scritto: voi sarete santi, perché io sono santo» (1Pt 1,13).

Cos’è successo, nel frattempo, da Mosè a Pietro (tanto per capirci)? Beh, le tradizioni profetiche e la storiografia deuteronomistica hanno studiato e ristudiato, fino allo sfinimento, il nesso tra la santità di Dio e quella degli uomini, nonché – viceversa – quello tra l’infedeltà degli uomini e l’allontanamento di Dio (che comunque prepara nuovi piani per riuscire nel suo progetto). Soprattutto, però, Pietro ha visto di persona “il giorno del Grande Perdono”, lo Iôm Kippûr che Mosè aveva solo profetato, anticipandolo con un’istituzione cultuale (Lv 16): l’idea del capro che viene mandato a morire dopo aver raccolto in una maledizione tutti i peccati del popolo non era mai uscita dall’immaginario religioso degli ebrei (e anche oggi nessuno parlerebbe di “capro espiatorio” se quel capitolo non fosse stato scritto) ed ecco a cosa pensava il Battista al vedere Gesù che gli passava davanti: «Ecco l’agnello di Dio» (Gv 1,36).

Tralasciamo qui come si mescolino e si rimescolino in Gesù l’immagine dell’agnello e quella del capro, e teniamo presente che il suo comandamento nuovo – consegnato proprio alla vigilia del vero “giorno del Grande Perdono” – riprende le fila della legge antica e le sigilla in un nodo inestricabile. «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34) non è altro che la fusione – divina! – di «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18) e di «siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo» (Lv 19,1).

Solo l’uomo-Dio poteva trascinare l’uomo a compiere integralmente un’azione di Dio, dal momento che aveva mostrato come Dio compiva integralmente azioni umane: per questo motivo il Cristianesimo è l’unica religione in cui Dio può e deve essere imitato. Non l’aveva capito, Paolo, che scriveva ai Corinzî: «Fatevi miei imitatori come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1)? Sapeva così bene, Paolo, quanto fossero reali le conseguenze di quell’imitazione, che non aveva avuto timore di scrivere, letteralmente: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Era vivo e vegeto, Paolo, quando scriveva così, ed era ancora lontano dallo scrivere a Timoteo: «Il mio sangue sta per essere sparso in libagione» (2Tim 4,6); tuttavia l’Apostolo già sapeva che quando un uomo sta imitando Cristo è Cristo che vive in lui, e da quel momento tutte le sue giornate, senza più distinzione tra “sacro” e “profano”, sono un «sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1).

Che praticamente tutti gli Apostoli (fa eccezione solo Giovanni, forse) siano morti nelle prime ondate di persecuzione contro questa nuova “schifosa superstizione” (così Plinio, Tacito e Svetonio) ha causato un prodigio linguistico inaudito: la parola greca con cui veniva chiamato il testimone durante i processi civili e penali – màrtys – venne usata per indicare quelli che andavano a morire per aver semplicemente confermato di essere cristiani. A parte che non s’è mai visto un processo dove è il testimone che va a morte, che significa chiamare l’imputato col nome del testimone? Che cosa testimonia? A chi? Forse testimoniano ai pagani l’autenticità del loro essere cristiani? Sì, certo, ma questo l’aveva già preannunciato Gesù; era molto più importante e più degno di nota che i martiri testimoniavano ai cristiani che il cristianesimo funziona davvero, e che in qualche modo misterioso Gesù dà la forza di morire ingiustamente con serenità, proprio come lui.

Ai terremoti linguistici si accompagnano quelli sociologici e culturali: non solo i martiri venivano ritenuti delle autentiche imitazioni di Cristo – così che sui loro corpi si costruivano altari e chiese e, casomai sopravvivessero, li si riteneva sacerdoti anche senza ordinazione (!) – ma si faceva largo l’idea che non sempre il giudice è quello che in un processo ha in mano la situazione. Cose simili s’erano viste soltanto con la morte di Socrate, ma questi (vuoi per l’unicità del caso, vuoi per la vaghezza del riferimento al “démone” cui solo Socrate prestava obbedienza) non poteva che restare isolato.

Resta un problema, che ci riporta a capo della nostra trattazione: se imitare Dio non è peccato, ma anzi il peccato è proprio non imitarlo, perché il diavolo – che le Scritture dicono essere «peccatore fin dal principio» (1Gv 3,8) – è stato definito sempre più, tra l’evo tardoantico e il medioevo, “la scimmia di Dio”, ossia colui che lo imitava (in senso di spregio)? È che la chiave dell’imitazione di Dio è l’imitazione di Cristo, come diceva Paolo (quel “…come io lo sono di Cristo” ha un deciso senso limitativo: in quanto e per quanto), ma il diavolo si pone proprio come l’Anticristo. Il fatto è che il diavolo imita il dio ancestrale-tribale che non vuole essere imitato – il dio di cui parla De Andre’ – ovvero un dio che, in definitiva, non esiste. Per questo Lucifero s’è costretto alla solitudine e all’infelicità eterne – con tutto quanto comportano, e che si chiamano brevemente “dannazione”.

Dall’altro lato c’è la possibilità di imitare gli innumerevoli imitatori di un Dio unico, semplice, ineffabile e indescrivibile: la sua Grazia s’intreccia con la libertà degli uomini nei toni di un invito suadente. Ecco perché Agostino, sentendo di Antonio, di Atanasio, ma ancor prima di Paolo, e vedendo nei suoi giorni Simpliciano che gli raccontava di Vittorino, Ponticiano e tanti altri, si chiese: «Se questi e queste sì, perché io no?» (cf. Confessioni, VIII,27).

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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