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Del punto di non ritorno: la morte

Contro le insidiose implicazioni di un modo di dire troppo diffuso

La morte, si sa, è uno degli argomenti più scomodi e meno tollerati della nostra società tollerante e comoda: si può fare apertamente il suo nome, al limite, nei trattati filosofici o teologici, ovvero quando si parla della morte di tutti (ossia di nessuno); parlare invece della morte di qualcuno (vale a dire della morte vera e propria) è cosa tanto biasimevole da necessitare sempre almeno il supporto di qualche perifrasi. Si dice allora che “l’estinto” (leggi “il morto”) “se n’è andato”, “non è più tra noi”, “s’è spento” o – per chi vuole dare alla propria censura il profumo del paradiso – “è tornato alla casa del Padre”.

Inutile che il lettore avvertito salti sulla sedia esclamando “ecco, lo sapevo io! Anche il mio parroco lo dice sempre!”; inutile tanto quanto mettersi a stilare una lista di ricorrenze celebri del più perverso ed errato giro di parole atto ad evitare l’orribile parola “morto”. Inutile perché non c’è davvero nessuno che sia in linea di principio alieno da questa aberrazione, tanto la troviamo diffusa ovunque: non l’ignoranza, non la saccenza, non l’eresia (altra bestia rara, a trovarla allo stato brado!), ma la pura e banale superficialità è la radice perversa di quest’uso. Cercando su Google l’espressione “tornato alla casa del Padre” – lo si verifica facilmente – si viene immessi in una serie di risultati inerenti perlopiù a pagine diocesane o parrocchiali: non fa meraviglia che tra suore, preti, e perfino vescovi, non si avverta il pericolo insito in certe formule – quando un’espressione diventa “un modo di dire” si sfocano le sue implicazioni e si perde di vista la portata del suo significato. Perfino l’alto prelato che il 2 aprile 2005 diede al mondo la notizia della morte di Giovanni Paolo II utilizzo l’espressione “tornato alla casa del Padre”, e – forse per ribadire meglio il concetto – il giorno dopo anche la Redazione de L’Osservatore Romano avrebbe titolato con quella frase in formato gigante.

Ma dov’è, allora, il pericolo nascosto in un’espressione tanto usata, dal suono tanto religioso, e dotata perfino di così alti e grandi patroni? È nella voce del verbo “tornare”, che – senza scomodare lo Zanichelli e il Devoto-Oli – implica sempre, nell’intenzione di chi lo usa, l’idea che il soggetto dell’azione sarebbe già stato dove ora si sta nuovamente recando. Perché mai, dunque, dovrebbe risultare strano, al senso della fede, che si dica che con la morte si torna alla casa del Padre, dove già si era stati? Una simile domanda non può porsela chi conosce bene la dottrina cattolica, ma può porsela a pieno diritto sia chi non sa niente del cristianesimo sia chi è dedito all’esercizio dello studio della teologia. Tralasciamo quindi quelli che hanno studiato bene il Catechismo e ci rivolgiamo prima a quelli totalmente digiuni di dottrina cristiana, poi a quelli che vogliono saperne un po’ di più.

Già al secondo paragrafo del primo capitolo della Parte Prima (delle quattro di cui si compone), il Catechismo della Chiesa Cattolica recita così: «[…] Con la sua apertura alla verità e alla bellezza, con il suo senso del bene morale, con la sua libertà e la voce della coscienza, con la sua aspirazione all’infinito e alla felicità, l’uomo si interroga sull’esistenza di Dio. In queste aperture egli percepisce segni della propria anima spirituale. “Germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile alla sola materia”, la sua anima non può avere la propria origine che in Dio solo» (CCC 36). Arricceranno il naso, certamente, i propugnatori dell’autonomia totale dell’essere umano, eppure il ragionamento non fa una grinza: i sassi non condividono con le piante la vitalità, ma le piante condividono coi sassi la fisicità; le piante non condividono con gli animali la sensibilità, ma gli animali condividono con le piante la vitalità; così ogni ordine di enti non può concepire in sé ciò che l’oltrepassa – e l’unica eccezione nota a questa norma di natura si dà nell’uomo.

Il fatto che l’anima sia creata da Dio, però, non significa – di per sé – che essa non abbia mai potuto essere “nella casa del Padre”. Altrove, più precisamente all’inizio della Parte Terza, il Catechismo si fa più chiaro: «Dotata di un’anima spirituale ed immortale, la persona umana è in terra “la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa”. Fin dal suo concepimento è destinata alla beatitudine eterna» (CCC 1703). Nell’anima, quindi, sussiste il destino dell’uomo – ossia quello alla felicità che, come disse Agostino, «non è nulla, se non è per sempre» – dal momento che in essa risiedono le domande che a quel destino alludono: l’anima esiste, però, dal concepimento dell’essere umano, e non da prima. “Il concepimento, però – potrebbe obiettare l’amico digiuno di dottrina cristiana – è affare biologico, che riguarda semplicemente i genitori del nascituro”. Obiezione comprensibile, ma che torna a scontrarsi contro l’asserto metafisico sopra esposto: i gameti maschili e femminili non contengono, di per sé, se non ciò che fa un uomo, ma non ciò che fa che un uomo sia un uomo. Più chiaramente: i cromosomi consolidati in un embrione a partire dal bagaglio del gamete maschile e di quello femminile determinano strettamente le dimensioni dei polmoni, il colore degli occhî, la consistenza delle ossa, la complessità della corteccia cerebrale del nascituro e anche, purtroppo, eventuali menomazioni fisiche o mentali; essi non potranno determinare, però, che tipo di vita quell’uomo vorrà condurre, e come intenderà disporre dei proprî talenti, di chi e di cosa s’innamorerà e chi e cosa sceglierà di amare. Quel principio di trascendenza di ogni essere umano è indisponibile a qualsivoglia riduzionismo, è ciò che viene chiamato “anima umana” ed è pure ciò per cui l’anima umana (a differenza di quella degli animali) è detta “spirituale”, e per questo (tra l’altro) non soggetta alla dissoluzione che con la morte investe una parte dell’uomo.

Nel primo capitolo della seconda sezione della Parte Prima, però, il Catechismo si esprime in modo più chiaro, in merito alla nostra questione: «[…] ogni anima spirituale è creata direttamente da Dio – non è “prodotta” dai genitori – ed è immortale: essa non perisce al momento della sua separazione dal corpo nella morte, e di nuovo si unirà al corpo al momento della risurrezione finale» (CCC 366). Ecco che si torna alla morte, dunque, perché evidentemente quello di “anima” è un concetto che s’è delineato a confronto con l’esperienza della morte.

Ciò non vuol dire, tuttavia, che il concetto di anima sia stato inventato da “uomini di Chiesa” (per i loro soliti loschi scopi, che le fiction ci hanno finalmente insegnato a fiutare smaliziatamente): il concetto di “anima”, anzi, non compare quasi per nulla, nelle Scritture, e dove compare non indica quasi mai ciò che oggi s’intende con “anima”. Furono i filosofi greci – diciamo Platone, per comodità – a escogitare il concetto di “anima”, e lo escogitarono soprattutto per far fronte a un altro versante dell’esperienza di trascendenza che ogni uomo fa: la conoscenza. “Sapere cose” (che per Platone non significa avere una certa erudizione di fatti e fatterelli storico-letterarî, ma conoscere verità necessarie e immutabili, come quelle matematiche, geometriche e musicali) mette in contatto ogni singolo uomo con una realtà universale e trascendente. Per questa ragione, anche se non così dozzinalmente, Platone non vede di meglio che immaginare che qualcosa dell’uomo – ciò che lo rende diverso dagli animali, cui pure per non pochi versi somiglia tanto – preesista all’uomo, e che sia in una condizione tale da riuscire a vedere quelle verità che poi nella vita umana imparerà a “conoscere”, praticamente “ricordandole”. Non che Platone non s’interessasse della felicità, ma anzi per lui accedere continuamente al mondo della conoscenza della verità era un metodo per consolidare la consapevolezza della propria chiamata alla felicità, e della possibilità di conseguirla.

Nelle Scritture, invece, si respira tutta un’altra aria: non si parla quasi mai di “anima” ma, semmai, di “népheš”, ossia di quel respiro che distingue tanto vistosamente una persona da un oggetto inanimato. “Népheš” significa quindi generalmente “tutto l’uomo in quanto è quel particolare essere vivente che è”: generalmente il termine è stato tradotto nel greco dell’Antico e del Nuovo Testamento col termine “psyché”, che è quello stesso utilizzato da Platone e dai filosofi per dire “anima”, ma ancora in quasi tutto il Nuovo Testamento (Paolo, Luca e Giovanni conoscono qualche eccezione) il termine sta semplicemente per “la vita” di qualcuno o, per metonimia, quello stesso qualcuno. In un passo (Lc 12, 4-5) Luca riporta, ad esempio, un discorso di Gesù in cui si fa chiara distinzione tra chi può far morire solo il corpo (e che quindi non va temuto) e chi invece può far morire sia il corpo sia l’anima (e che Gesù stesso consiglia di temere). Già alla fine del primo testo del Nuovo Testamento (primo quanto a scansione cronologica), Paolo salutava i Tessalonicesi augurando loro che tutto ciò che essi erano, «spirito, anima e corpo» (1Ts 5, 23), si conservasse irreprensibile per la venuta del Signore. Non ci serve qui dilungarci sulla distinzione tra spirito e anima, visto che essa viene riassorbita nel concetto di “anima spirituale”, che è poi l’oggetto della dottrina cattolica. Un’ultima osservazione va fatta su una tipica locuzione scritturistica, che è quella (espressa in varie perifrasi) del “rendere l’anima”: “rendere” ha il medesimo valore del “tornare” da cui è nata questa nostra pagina? No, certamente, e per almeno due buone ragioni: la prima è che in “rendere l’anima” è precisamente evidenziata una scissione – la morte – tra un soggetto che rende e uno (lo stesso!) che è reso, e implicitamente viene riaffermato il principio per cui l’anima è stata anzitutto creata da un altro (da Dio) e ricevuta da/in un essere umano al primo momento della sua esistenza; la seconda è che tra la prima e la seconda espressione passano molti secoli e una consapevolezza dogmatica incommensurabilmente diversa.

Molto, moltissimo ancora ci sarebbe da dire, ma bisogna tentare una sintesi estrema, perché bisogna enunciare ancora almeno un paio di concetti: anzitutto bisogna dire che la dottrina della preesistenza dell’anima al corpo – ossia l’eresia che soggiace all’espressione incriminata di cui parliamo – è una dottrina che ha avuto una sua grande vitalità anche nel cristianesimo (per motivi tutti diversi da quelli platonici, e con effetti di proporzioni difficilmente calcolabili). Si ricordi, per tutti, che il grande Origene elaborò un sistema dottrinale globale di cui l’asserto della preesistenza delle anime era uno dei due fuochi. Origene fu condannato, perfino da morto e perfino più di una volta, nonostante l’indiscutibile genialità della sua costruzione speculativa.

In secondo luogo va detto che le buone intuizioni platoniche sull’anima sono state assunte massicciamente, nel cristianesimo delle origini, e mano a mano “purificate” tramite una prospettiva aristotelica, che tendeva a ridurre il dualismo tra anima e corpo (il quale comportava necessariamente anche un certo modo d’intendere la vita cristiana e l’ascesi): con l’assimilazione di Aristotele – avvenuta in un processo incredibilmente lungo, pregiudicato da profonda diffidenza nei confronti dello Stagirita – i cristiani cominciarono man mano a pensare l’anima come “forma del corpo”, e così a meglio comprendere l’unità dell’essere umano e lo straordinario trauma che è per un uomo la morte. L’uomo esiste da principio in quanto uomo vivo, e non in quanto uomo morto successivamente animato: l’anima e il corpo coesistono quindi sempre e unicamente insieme, mutuamente compenetrate, l’anima tuttavia rivolta alla trascendenza con la sua inesausta domanda d’assoluto. La morte è l’evento per il quale la materia del corpo umano viene privata del principio vitale, e tutto ciò che non poteva vivere da sé comincia istantaneamente e irreversibilmente a dissolversi; parimenti il principio vitale, quello che conteneva “il germe e la promessa dell’eternità” comincia a vivere in una modalità inedita, dal momento che aveva sempre e unicamente vissuto animando un corpo. L’anima umana, infine, viene creata per essere per sempre un’anima umana – ossia associata a un corpo – e non un puro spirito, e in questo senso anche la risurrezione (pur non giungendo assolutamente ad essere un “diritto” dell’essere umano) rispecchia nella Rivelazione libera di Dio un compimento congruo di ciò che s’intravede abbozzato nello stadio storico della condizione umana.

La modalità inedita in cui un uomo comincia a vivere dal momento della morte fisica (fino alla risurrezione del corpo e poi oltre, nell’eternità) è stata detta da Gesù “andare nella casa del Padre” (cf. Gv 14). “Andare”, per l’appunto. Quanto alla destinazione, resta sottinteso che in quel frangente Gesù parla per “i buoni” (sì, perché l’inferno esiste). In ogni caso, però – e questo vale indistintamente per buoni e cattivi – nella casa del Padre nessuno c’è mai stato, quindi nessuno può tornarci.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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