Diritto e pregiudizio ovvero “dossier-adozione”
In Italia, uno più uno meno, c’è bisogno di un ministero nuovo: il “Ministero delle Fobie”. Oppure si proponga qualcuno, di buona volontà, per inventariare tutti i presunti pregiudizi da abbattere e relativi diritti da tutelare: s’è perso il conto. Dove giri, infatti, dicono ci sarebbe uno cattivo che ha paura di qualcuno buono che ha paura di un altro cattivo che ha paura di tutti. C’è un preoccupante marasma di pregiudizi e diritti: roba da avere fobia delle fobie.
Se dicessi che il presidente della Camera, Laura Boldrini, e il ministro delle Pari Opportunità, Iosefa Idem, hanno presenziato al Gay Pride nazionale di Palermo, lo sapete già. Se dicessi che Maria Grazia Cucinotta è la madrina, perché – dice – «la politica ha un atteggiamento vigliacco sull’omofobia, e i politici hanno paura di far approvare una legge a tutela dei diritti degli omosessuali», lo sapete già. Se dicessi che molti altri stanno manifestando a favore della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, lo sapete pure. Se voi sapete già tutto, noi sull’argomento in questione abbiamo già scritto più di un anno fa (link e link), quindi non vi annoieremo e non ci ripeteremo.
Il punto, qui, vuole essere un altro. Quali sono i pregiudizi reali e i diritti veramente disattesi, quando si parla di matrimonio e adozione? Chi è veramente discriminato e non tutelato? E da chi? Per scoprirlo, facciamo incursione nella legge sull’adozione nazionale e internazionale. La nostra fonte è il rapporto sull’adozione, per l’anno 2012, della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Commissione per le adozioni internazionali (link).
Chi può adottare? – I requisiti per l’adozione internazionale sono gli stessi che per l’adozione nazionale, e sono previsti dall’art. 6 della legge 184/83 (come modificata dalla legge 194/2001) che disciplina l’adozione e l’affidamento. Leggiamo: «L’adozione è permessa ai coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni, o che raggiungano tale periodo sommando alla durata del matrimonio il periodo di convivenza prematrimoniale, e tra i quali non sussista separazione personale neppure di fatto e che siano idonei ad educare, istruire ed in grado di mantenere i minori che intendono adottare». Quindi, per adottare bisogna:
– essere coniugati al momento della presentazione della dichiarazione di disponibilità;
– provare documentalmente o per testimonianza, ove il matrimonio sia stato contratto da meno di tre anni, la continua, stabile, perdurante convivenza antecedentemente alla celebrazione del matrimonio per un periodo almeno pari al complemento a 3 anni;
– non avere in corso nessun procedimento di separazione, nemmeno di fatto.
– essere in possesso delle capacità di educare, istruire e mantenere il figlio adottivo (requisiti che saranno oggetto dell’indagine dei tribunali dei minorenni tramite i servizi socio-assistenziali degli Enti Locali, dopo il primo controllo da parte del Tribunale).
Il dato su cui riflettere, ai fini del nostro ragionamento, lo offre il secondo punto: la perdurante, continua, stabile convivenza more uxorio è considerata, ai fini dell’idoneità per l’adozione, al pari di un matrimonio contratto dallo stesso numero di anni. L’essere coniugati al momento della “dichiarazione di disponibilità” all’adozione, ci sembra di poter dedurre, non è determinante ai fini della valutazione della stabilità di coppia e della richiesta capacità di educare, istruire e mantenere il figlio adottivo. Sembrerebbe, piuttosto, da intendersi come una garanzia formale per il futuro, qualora una sopraggiunta separazione di fatto potrebbe – ipotizziamo – lasciare “scoperto” l’adottato per il proprio mantenimento.
Come dimostra l’articolo di legge in oggetto, già dal 1983 per il nostro Legislatore la convivenza more uxorio ha un precipuo riconoscimento; e l’ha, per giunta, riguardo un diritto fondamentale: il diritto di un bambino ad avere una famiglia. Da qui le domande: chi si dà un gran da fare per manifestare, oggi, perché si sente discriminato e vuole essere tutelato come coppia di fatto, lo sapeva quanto è ben apprezzata la convivenza more uxorio nel nostro ordinamento? È tanto apprezzata, se non fosse chiaro, da concorrere a considerare una coppia idonea per soddisfare il diritto di un bambino ad avere una famiglia. E ancora: chi manifesta, solo oggi, per la tutela dell’istituto della famiglia fondato sul matrimonio, lo sapeva che per un bambino adottabile la famiglia è fondata solo su “tre anni” – more uxorio o matrimonio, nella sostanza, non distinguendo?
Diritto e pregiudizio: di chi, l’uno? Verso cosa, l’altro?
I single possono adottare? – La Corte di Cassazione, congiuntamente ad associazioni – anche cattoliche come l’Aibi, da anni va sollecitando un intervento del Legislatore in materia di “adozione piena” anche per i single. Tuttavia, a tutt’oggi, la persona singola può già divenire genitore adottivo in casi determinati, indicati tassativamente dalla legge:
– ottenere un’adozione in uno Stato estero, quindi domandare il riconoscimento in Italia dell’efficacia di quella adozione (vedi caso);
– essere parente di un bambino orfano di entrambi i genitori, sempreché il richiedente single abbia con il minore un rapporto affettivo e di relazione significativo;
– chiedere l’adozione di un bambino orfano di entrambi i genitori e portatore di handicap; ulteriore ipotesi, quella di un bambino che non sia dichiarato in stato di abbandono, con la conseguenza che nei suoi riguardi non può darsi luogo all’adozione legittimante (quella piena, per intenderci).
La legge, dunque, prevede che in tutti i casi suddetti l’adozione possa essere ottenuta anche da chi non è sposato nella forma di “adozione in casi particolari”. La differenza, rispetto all’“adozione piena”, è che nell’“adozione in casi particolari” il bambino adottato non assume lo status di figlio legittimo dell’adottante, e non vengono recisi i legami di sangue con la famiglia di origine. Ciò nonostante, il genitore adottivo assume verso l’adottato tutti gli obblighi che gravano sul genitore biologico, e dunque l’obbligo di mantenimento, di educazione, di istruzione.
Riflettiamo. L’istituto dell’adozione ha per fine il diritto di ogni bambino ad avere una famiglia, e di averne una ad un bambino che ne è privo. In altri termini, gli aspiranti all’adozione non vantano un diritto ad ottenere un bambino ma possono solo esprimere la loro disponibilità ad adottarne uno. Se così è, guardando al terzo punto riportato, sorge la domanda: se ogni bambino ha diritto ad una famiglia, perché i bambini portatori di handicap possono “accontentarsi” di un single di buona volontà? Se i single sono ritenuti idonei ad adottare un bambino con maggiori necessità, come un bambino con handicap, perché non sarebbero idonei ad adottare uno senza handicap? Ultima considerazione: perchè un bambino portatore di handicap, se adottato da un single, deve rinunciare allo status di figlio legittimo? Concludendo, a tutt’oggi, un bambino con handicap ha “diritto” ad una famiglia monogenitoriale, senza lo status di figlio legittimo. Se “single” poi sta per “non sposato”, e sostanzialmente non si può escludere che sia un single in una coppia di fatto o che non sia eterosessuale, chiediamo: chi manifesta oggi, perché in futuro un single non possa adottare bambini, sapeva che un single può già adottare un bambino con handicap?
Diritto e pregiudizio: di chi, l’uno? Verso cosa, l’altro?
Chi adotta chi? – Anche nel 2013 la Commissione per le adozioni internazionali ha pubblicato il rapporto sulle adozioni realizzate nell’anno precedente. Il dato più evidente e significativo, riguardo le adozioni internazionali realizzate nel 2012, è la loro consistente flessione rispetto agli anni precedenti.
Se nel 2010/2011 è stata addirittura superata la soglia delle 4.000 adozioni, nel 2012 i bambini stranieri entrati in Italia per adozione sono stati 3.106 e le famiglie adottive 2.469. Alla flessione nelle adozioni ha concorso, unitamente alla crisi economica e alla sempre crescente complessità dell’adozione internazionale, un dato positivo: lo sviluppo economico di molti Paesi d’origine dei bambini adottati ha permesso di individuare soluzioni interne, riducendo così il ricorso all’adozione internazionale. Ricordiamo che lo spirito della Convenzione de L’Aja del 29 maggio 1993, e della legge italiana sulla tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione, è basato sul principio di sussidiarietà: l’adozione cioè deve essere l’ultima strada da percorrere per realizzare l’interesse di un bambino, quando non ci sia la possibilità di aiutarlo all’interno della propria famiglia (ove sia) e del proprio paese di origine.
I dati assoluti delle coppie adottive comparati alla popolazione teorica di riferimento, cioè la popolazione residente dei coniugati di età compresa tra 30 e 59 anni, mostrano che hanno richiesto l’autorizzazione all’ingresso in Italia di minori stranieri 27, 6 coppie ogni 100mila coppie coniugate di età compresa tra i 30 e i 59 anni. Si conferma l’età piuttosto elevata delle coppie adottanti: l’età media dei mariti, alla data del decreto di idoneità, è di 42,7 e quella delle moglie di 40,7. In sintesi, poiché l’età media al matrimonio in Italia è di poco superiore ai 31 anni per gli uomini e ai 30 per le donne, si può affermare che le coppie adottive italiane iniziano il percorso che le porterà ad adottare un minore straniero dopo circa otto anni di matrimonio. Le famiglie adottive che hanno anche figli naturali sono poche rispetto al totale delle coppie adottive. Nel 2012 quasi nove coppie adottanti su dieci (84,7%) non hanno figli, mentre le altre coppie ne hanno uno (13,3%) o più di uno (2%).
Nell’analisi del percorso adottivo, l’aspetto fondamentale è quello della motivazione che sta alla base della decisione di adottare un bambino. Detto questo, si rileva che la motivazione più frequente è legata all’infertilità della coppia (il termine “infertilità” comprende qualunque problema di carattere fisico che di fatto impedisce il concepimento; vi è compreso anche il fatto che un eventuale concepimento comporti rischi genetici, la menopausa precoce e la difficoltà a portare a termine la gravidanza). Tra le coppie che hanno concluso l’adozione nel 2012, il 93,5% ha scelto di iniziare il percorso adottivo a causa dell’impossibilità di procreare. La seconda motivazione è la “conoscenza del minore”: riguarda le coppie che hanno sperimentato una positiva esperienza di accoglienza di un bambino straniero, ad esempio dei bambini accolti in Italia dopo la catastrofe di Chernobyl. La terza motivazione rilevata è ascrivibile al “desiderio adottivo”, ovvero a quella che potrebbe essere letta come la volontà di mettersi a disposizione di uno o più bambini in difficoltà. Dai dati emerge che solo il 2,7% delle coppie ha sottolineato agli operatori dei servizi che la spinta ad adottare è stata puramente umanitaria (2,5% nel 2011, 4,9% nel 2010, 9,1% nel 2009).
Una particolare attenzione merita il dato sui bambini con “bisogni particolari e/o speciali” entrati in Italia per adozione; i primi indicano bambini con patologie gravi e spesso insanabili, come quelle neurologiche e mentali, contrariamente ai bisogni particolari, che invece presuppongono un recupero nel corso del tempo, portando a una guarigione totale, e che comunque permettono uno sviluppo psicologico e sociale autonomo. Un bambino deve ritenersi con “special needs” quando, oltre allo stato di salute di cui si è detto, appartiene a una delle seguenti categorie: è grande di età (pari o sopra i sette anni); è parte di un gruppo di fratelli. I dati mostrano che, su 3.106 bambini entrati in Itala per adozione, 429 sono bambini con “special needs”, pari al 13,8% del totale.
Riassumiamo. Se solo le persone coniugate possono presentare “dichiarazione di disponibilità all’adozione”, intesa come “adozione piena”, dai dati riportati emerge che: ne fanno richiesta solo 27,6 coppie ogni 100mila coppie coniugate (tra i 30 e i 59 anni); su 3.106 bambini adottati, 429 sono bambini con “special needs”; il 93,5% delle coppie che hanno concluso l’adozione ha presentato come motivazione l’impossibilità di procreare; solo il 2,7 % lo ha fatto per “desiderio adottivo” e nove coppie adottanti su 10 non hanno figli. Naturalmente, a tutti i dati forniti dal rapporto della Commissione per le adozioni internazionali, vanno aggiunti quelli ben noti: nella motivazione (o demotivazione) ad intraprendere un percorso adottivo, molto influiscono il lungo e sfibrante iter per accertare l’idoneità e la possibilità di sostenere le spese economiche.
Concludendo, le coppie coniugate che possono adottare lo fanno poco, e lo fanno dopo molti anni di matrimonio, perché la motivazione principale resta l’impossibilità di procreare. E allora, chiediamo: perché il “desiderio adottivo” appartiene così poco alle famiglie naturali, quelle fondate sul matrimonio tra un uomo e una donna? Non dovrebbero essere, le famiglie naturali, le più educate ed aperte alla vita? La famiglia naturale non dovrebbe essere la prima, e più motivata, ad offrirsi ad un bambino che ne è privo, ancor più se è un bambino con “bisogni speciali”?
Diritto e pregiudizio: di chi, l’uno? Verso cosa, l’altro?
Tutto questo è stato scritto con la volontà di mettere a fuoco i diritti veramente disattesi e i pregiudizi reali, quando si parla di matrimonio e adozione; ancor più, per promuovere una vera educazione delle famiglie naturali al “desiderio adottivo”. Se proprio si volesse manifestare. Senza fobie, naturalmente.
Bellissimo articolo, complimenti!