Il senso religioso è filo lanciato nel vento
«Quando miro in cielo arder le stelle; / Dico fra me pensando: / A che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / Infinito seren? che vuol dir questa / Solitudine immensa? ed io che sono?» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 84-89).
Qualche anno fa, durante una lectio magistralis, il poeta Davide Rondoni ricordava come don Giussani dicesse di ripetere a memoria la poesia di Leopardi quando tornava dall’aver fatto la comunione in seminario: «toccando la cosa più certa, più cara che aveva, l’Eucarestia, la sottoponeva alla verifica del dramma di Leopardi». La certezza non cresce perché la confermi in modo meccanico e distratto, ma la ripetizione della certezza è nella sua costante verifica. Se l’esperienza religiosa è un fenomeno umano, Giussani insegnava che solo la vita può verificare la certezza che è Cristo la Salvezza. Che Gesù Cristo sia il senso del mondo, per cui il partecipare a Lui mi salva, deve poter reggere di fronte a questa poesia di Leopardi perché essa esprime perfettamente l’esperienza universale del senso religioso e il modo in cui si svela nella vita di qualsiasi uomo. Proviamo a svolgere il ragionamento suggerito dalle parole di Rondoni.
Ai tempi di Leopardi, il “pastore errante” era considerato una figura mitica. Era il pastore afgano, probabilmente di quelle nuove regioni che si andavano scoprendo; insomma, era il canto dell’ultimo uomo scoperto, dell’uomo naturale. Per De Sanctis era come Abramo, oppure il protagonista di un salmo della Bibbia (Cfr. Salmo 8). Infatti, con l’inquieto domandare di fronte ad un cielo apparentemente muto, il pastore conferma che – nella misura in cui vive, nessun uomo può evitare certe domande, a prescindere dalla propria appartenenza etnica, culturale, religiosa e storica: «“Qual è il significato ultimo dell’esistenza?”, “Perché c’è il dolore, la morte, perché in fondo vale la pena vivere?”. O, da un altro punto di vista: “Di che cosa e per che cosa è fatta la realtà?”». Il senso religioso – scriveva don Giussani – si identifica con la natura del nostro io in quanto si esprime in queste domande, «coincide con quel radicale impegno del nostro io con la vita, che si documenta in queste domande» (L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, p. 59).
Come detto nel precedente articolo, al pari di Montini che parla di «essenziale struttura», anche per Giussani il senso religioso «nasce con noi, come una parte della nostra struttura originale». Vi è in noi una struttura nativa che, nell’impatto con la realtà, si mette in moto, per esplicitarsi in quelle domande fondamentali che nessun uomo può evitare, e che esprimono un imprescindibile «bisogno di verità, anche se non sono ancora un criterio di verità». L’unica condizione per essere uomini veramente religiosi è mantenere il senso religioso sempre in attività, sempre “confermato”; bisogna avere un «cuore inquieto» e vivere intensamente la realtà come «segno», perché le domande ultime si destano solo nel rapporto con la realtà. Per fare un uomo veramente religioso ci vuole un uomo che sia sempre desto come un “pastore errante”, e poi quella “luna” da saper guardare e quelle “domande” da saper ben formulare. È inutile proporre la religione vera come la risposta, se un uomo non sa più fare domande ultime. Come ci ricorda sempre don Giussani, citando Niebuhr: «Niente è tanto incredibile quanto la risposta a una domanda che non si pone» (R. Niebuhr, Il destino e la storia. Antologia degli scritti, BUR, Milano 1999, p. 66). Anche Montini, nella Lettera Pastorale per la Quaresima del 1957, scriveva: «La vita contemplativa è quasi deserta; la nostra società manca di silenziosi, di solitari, di ricchi d’interiorità, come manca di cenobi spirituali e di cori oranti, che guidino e accompagnino l’incerto pellegrinare umano verso il suo supremo destino». Montini, con Giussani, sentiva come il senso religioso non trovasse nell’atmosfera culturale, morale e sociale moderna le condizioni migliori per la sua difesa e per la sua educazione. Molte le ragioni che concorrevano alla decadenza della vita religiosa indicate da Montini, così sintetizzate: «l’umanesimo profano; la manomissione dell’ordine morale; la conquista del mondo naturale fine a se stessa; lo zelo antireligioso e anticonfessionale del laicismo politico e dell’ateismo». A presidiare sapientemente e coraggiosamente, in difesa del senso religioso, restava solo la «nostalgia degli spiriti veglianti e sofferenti nel mondo letterario e filosofico e nella vita vissuta». È un’immagine della vita dell’uomo moderno che è anche la nostra vita; per le stesse ragioni di ieri, anche oggi, vediamo estinguersi “pastori erranti”, con il cuore inquieto rivolto alla “luna”, mentre si moltiplicano persone affaccendate nelle proprie attività, sempre più distratte e meno disposte all’atto religioso. Se è chiaro che ogni qual volta il senso religioso sia pigro e spento la venuta di Dio trova la porta chiusa, vale ancora il monito di Montini a tutti i cristiani: «La nostra missione deve essere la restaurazione del senso religioso»; «poniamo la nostra attenzione pastorale su questo punto: come conservare, come tener desto, come indirizzare il nostro senso religioso?».
Per prima cosa – scriveva Montini nella Lettera Pastorale per la Quaresima del 1957–, bisogna che «gli spiriti veglianti e sofferenti nel mondo letterario e filosofico e nella vita vissuta» sappiano sempre meglio «suscitare voci nuove, squillanti, originali, convincenti, di professionisti della verità». Occorre una «riabilitazione razionale del senso religioso, perché è stato troppo confuso con forme inferiori dello spirito, imperfette, infantili, sentimentali, ingenue, superstiziose»: «Bisogna rieducare la mentalità contemporanea a “pensare Dio”». Come nel Canto notturno del pastore errante dell’Asia le domande ultime scaturiscono dall’incontro con la realtà, così, oggi, il passaggio speculativo che innalza l’uomo a Dio potrebbe avvenire naturalmente dall’osservazione delle cose stesse create dall’uomo. Bisogna ridare spiritualità al lavoro, e «far sgorgare un umanesimo spiritualista dalla nostra età materialista». Un meccanico davanti alla sua macchina dovrà dire contento: «“È nuova, è mia; ma dovrà aggiungere ancora più contento e pensoso: “Io ho più scoperto, che inventato; ho scoperto proprietà e leggi anteriori al mio pensiero; io non ho fatto che applicarle; io sono arrivato più vicino alla manifestazione naturale di una sapienza che non conoscevo, a cui prima non pensavo; sono arrivato ad un incontro insospettato con Dio”». Bisogna allargare nel lavoratore gli orizzonti della ragione, «bisogna restituirgli la curiosità metafisica, e l’ambizione di risalire alla ragion d’essere di ciò che gli sta davanti»: «Vorremmo che le scuole del lavoro facessero loro [i lavoratori] intravedere questa vocazione, questa redenzione, questa nobiltà religiosa dell’opera umana. Vorremmo che la preghiera si associasse al lavoro; lo consolasse, lo nobilitasse, lo santificasse». Come il mondo del lavoro per gli adulti, così tutte le agenzie educative dovrebbero prodigarsi per conservare e formare il senso religioso dei fanciulli: «Il nostro mondo, su questo, è contraddittorio perché mentre non cessa di circondare il fanciullo dell’arte pedagogica e sanitaria più progredita, consente poi che letture, spettacoli, e sport profanatori siano facilmente accessibili e determinino nel suo spirito perturbazioni nocive e forse fatali al suo equilibrio psichico e morale. Si coltivano e si pestano fiori; con gelosa cura si coltivano, e con colpevole indifferenza si calpestano». L’attenzione per i fanciulli, scrive Montini, deve proseguire verso i giovani. Età così delicata, che va assistita e curata come nessun altro periodo della vita: «la direzione spirituale è, in questo periodo, pedagogia provvidenziale, delicatissima e di alto interesse».
Per conservare, tener desto e indirizzare il senso religioso bisogna innanzitutto formare «silenziosi, solitari, ricchi di interiorità», capaci di vivere intensamente la realtà come «segno», perché le domande ultime si destano solo nel rapporto con la realtà. Ma coltivare un «bisogno di verità» è sufficiente per arrivare a Dio come «criterio di verità»? Verificando nel cuore questa domanda, immaginiamo, Don Giussani trovava nella poesia di Leopardi la conferma che il senso religioso, lasciato a se stesso, non sia sufficiente per trovare la verità – la risposta al desiderio infinito di senso dell’uomo. Il solo bisogno di verità, e il pellegrinare solitario, infatti, conducono il pastore a niente altro che a questa amara conclusione: «Forse in qual forma, in quale / Stato che sia, dentro covile o cuna, / È funesto a chi nasce il dì natale». (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 141-143).
Il senso religioso è necessario ma non sufficiente per effettuare il passaggio speculativo che innalza l’uomo a Dio; talvolta, addirittura, la domanda di infinito dell’uomo – lasciata a lungo senza risposta – può farlo piombare nel leopardiano «tedio», allorquando la vita comincia a venirti a noia e tutto precipita nel nulla: «Abisso orrido, immenso, / Ov’ei precipitando, il tutto obblia». (Ivi, vv. 35-36).
Scriveva Montini, nella Lettera Pastorale per la Quaresima del 1957, con mirabile sensibilità poetica: «Il senso religioso è filo lanciato nel vento, e se non incontra una mano celeste, che di là lo attiri e lo congiunga con la realtà del mistero divino, quali nostri messaggi recherà veramente al regno divino, quali nostri messaggi recherà veramente al regno dei cieli; quali a noi, non dubbi, non fallaci, potrà esso recare?». La letteratura, la filosofia, la storia delle religioni e la vita vissuta ci documentano l’instancabile desiderio, tante volte umile e sublime, tante altre volte fantastico e ignobile dell’anima umana verso il divino; ma sempre infruttuoso e destinato a non avere risposta o la risposta sbagliata «se Dio non avesse, nella su infinita saggezza, nella sua immensa bontà, preso l’iniziativa della rivelazione, della instaurazione della vera religione. Sì occorre una religione vera per difendere il senso religioso dal troppo facile pericolo di sbandamento».
Tutte le religioni, e i cammini ispirati dal senso religioso, sono giusti in quanto ricerca dell’uomo verso dio. Tuttavia, è solo nella Rivelazione che Dio stesso entro nella storia, per essere ascoltato e creduto, e Cristo rappresenta il culmine dell’attuazione del senso religioso perché con Lui abbiamo la comunicazione personale nell’amore. Scrive Giussani, nel Senso Religioso: «Cristo è come il pilastro fondamentale della vita del senso religioso. Egli è la “pietra d’angolo”»; «non più l’incerta ed errante ricerca, non più il rapporto del servitore e del padrone, ma l’adesione intima e totale nell’amore». La continuità di Cristo nel tempo e nello spazio è la Chiesa, per volontà stessa di Cristo: «Siano perfetti nell’unità e il mondo riconosca che tu mi hai mandato e che li hai amati, come hai amato me». L’autorità della Chiesa – Papa e Vescovi – sono il pilastro di sostegno del senso religioso di ogni età, sono la Roccia su cui lo Spirito umano può costruire il suo rapporto con Dio. Si può dire – scrive Giussani, – «che il senso religioso, lontano da questa “Pietra” – che prolunga nei secoli l’unico fondamento, Cristo – costruisce invano – costruisce sulla sabbia». Infatti, questa comunicazione personale di Dio all’uomo, si realizza attraverso i libri sacri, affidati all’interpretazione autentica della Chiesa; i sacramenti, come gesti della Chiesa, e quindi di Cristo continuato nei secoli; le preghiere quotidiane, proiezione del senso religioso stesso sulla vita. Tuttavia, scrive Giussani, la comunicazione personale di Dio trova compiutezza e completezza solo nella santa Messa, fulcro della vita del senso religioso, luogo concreto dove l’uomo può raggiungere il suo oggetto divino. Più la verità di Cristo si comunica all’uomo, più questa penetra il suo modo di concepire tutte le cose e di impostare tutta l’esistenza. «Si realizza così la cultura cristiana: a livello personale, rendendo cristiana tutta la mentalità dell’io; a livello collettivo, rendendo cristiano l’ambiente e la storia – rendendo cristiana la civiltà». Tutti coloro che hanno creduto in Cristo hanno il compito di recare a ogni tempo, luogo, cultura, la Sua comunicazione: tutti sono profeti, tutti sono testimoni. La Chiesa ha bisogno di testimoni laici. Il testimone è un mandato, un apostolo, Cristo ha mandato gli apostoli capeggiati da Pietro; questi hanno trasmesso la loro missione ai vescovi, guidati dal sommo Pontefice. Ogni cristiano se vuole essere veramente inviato, deve dipendere dalla Gerarchia ecclesiastica, dall’Autorità della Chiesa. Conclude, Giussani: «Come Cristo è entrato dentro l’umanità, ma in questa umanità ha portato uno spirito nuovo; così, i cristiani devono essere testimoni nel mondo senza essere del mondo».
Per fare un uomo veramente religioso ci vuole un uomo che sia sempre desto come un “pastore errante”, e poi quella “luna” da saper guardare e quelle “domande” da saper ben formulare. Ma le domande sono vere domande quando sono rivolte ad un Tu che è Altro da noi, e che, proprio in quanto tale, può rispondere a quella domanda di senso Infinito che ognuno porta con sé. Senza risposta la vita scivola nel “tedio”, e le domande metafisiche stesse ci vengono a noia. Della domanda non resta che l’oblio, l’assenza della riposta. Solo un Tu ci salva, un Tu capace di rispondere a tutte le domande: «Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore / Rida la primavera, / A chi giovi l’ardore, e che procacci / Il verno co’ suoi ghiacci./ Mille cose sai tu, mille discopri, Che son celate al semplice pastore». (Ivi, vv. 73-78). Ma la “luna”, seppure conoscesse le risposte, non saprebbe comunicare con l’uomo.
“Tu sai, Tu certo, Signore”, si diceva don Giussani tornando dall’aver fatto la comunione.