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Michelangelo Buonarroti e la marchesa di Pescara

Religiosità e vita artistica nella Roma dell’età della Riforma luterana e della Riforma cattolica. Michelangelo, Vittoria Colonna e gli “spirituali”.

Per il 450° anniversario della morte di Michelangelo Buonarroti (Roma, 18 febbraio 1564) arriva a Roma, ai Musei Capitolini, la mostra “Michelangelo, incontrare un artista universale”. Dal 27 maggio al 14 settembre, i visitatori potranno vedere più di centocinquanta opere provenienti da importanti musei, da collezioni italiane e straniere. La mostra, strutturata in nove sezioni espositive, ha come tema la contrapposizione: “la notte e il giorno”, “l’amore celeste e l’amore terreno”, “l’antico e il moderno”, “la vita e la morte”, “la vittoria e la prigionia”, “la regola e la libertà”; a testimoniare le difficoltà dell’uomo e dell’artista nell’ideazione e nell’esecuzione delle sue opere, e dei fruitori a penetrarne a fondo il significato. Tra le tante complesse questioni che avvolgono la vita e l’arte di Michelangelo, non possiamo trascurare le insidie insite in ogni ricerca che voglia confrontarsi con il rapporto esistente tra arte e religiosità: la religiosità di un artista si traduce immediatamente o necessariamente nelle opere da egli stesso create?

Michelangelo Buonarotti, Pietà per Vittoria Colonna.

Mentre creava negli anni Quaranta i suoi ultimi capolavori – tutta la produzione artistica compresa tra il Giudizio Universale (1536-1541) e la Cappella Paolina (1542-1550) –, Michelangelo fu in grandi rapporti di amicizia con Vittoria Colonna (1492-1547), marchesa di Pescara, e un gruppo di alti prelati e cardinali – designati già dai contemporanei come gli “spirituali” del cardinale inglese Reginald Pole (1500-1558) – appartenenti alla più famosa e controversa corrente riformatrice operante in seno alla Curia romana nell’epoca del protestantesimo nascente. Di qui il sillogismo critico – ragionato da studiosi della caratura di Henry Tode e Charles de Tolnay ­– secondo cui la Colonna sicuramente avrebbe esercitato un influsso sulla religiosità e nel processo creativo di Michelangelo negli anni Quaranta, e non solo per i due disegni superstiti realizzati direttamente per la marchesa di Pescara: una Pietà (Boston, Isabella Stewart Gardner Museum) e una Crocifissione (Londra, British Museum); una terza opera, la Samaritana al pozzo, è nota solo attraverso disegni e incisioni. Opere tutte non datate, ma collocate dalla critica generalmente fra il 1538 e 1541, e più tardi fra 1545 e 1546, sulla base della loro menzione in alcune lettere fra Michelangelo e la Colonna [1].

Vittoria Colonna nacque a Marino nel 1490 (1492?). Figlia di Fabrizio Colonna e di Agnese di Montefeltro, fin da piccola fu promessa sposa a Ferdinando Francesco Ferrante d’Avalos, condottiero delle truppe imperiali di Carlo V, e così acquisì il titolo di marchesa di Pescara. Dopo il matrimonio si trasferì nel Castello Aragonese di Ischia, dove era solita invitare gli uomini di lettere più illustri del momento – tra i quali Bembo, Castiglione e l’Aretino. L’interesse per la letteratura la portò ad affermarsi come poetessa con la composizione delle Rime Amorose, la prima opera di Vittoria Colonna incentrata sull’amore nuziale. Dopo la morte del marito, Vittoria vive nella depressione per molti anni, meditando anche il suicidio. Lasciata Ischia nel 1536 si recherà a Roma con l’intenzione di ritirarsi in convento, ma finirà con lo stringere rapporti intellettuali e spirituali con eminenti personalità del mondo cattolico. A Viterbo Vittoria Colonna incontrerà il cardinale inglese Reginald Pole, nominato legato di quella città nel 1541, intorno al quale si era raccolta la confraternita degli “spirituali” o Ecclesia Viterbiensis, composta maggiormente da reduci del circolo napoletano di Juan de Valdès [2]. Il ritrovamento da pochi anni del Quinternus litterarum Marchionissae Piscariae, nell’Archivio del Sant’Uffizio (Congregazione per la Dottrina delle Fede), è risultato fondamentale non solo perché arricchisce di ben sei lettere il carteggio esistente tra la poetessa e una delle figure religiose più enigmatiche del Cinquecento – il cardinale Pole, quanto perché illumina uno dei momenti più delicati della storia della Riforma cattolica. Alcune di queste lettere, fedelmente ricopiate dagli originali, recano – infatti – le censure manoscritte condotte dall’esaminatore dell’Inquisizione. Questo, se non indica necessariamente l’esistenza di un vero e proprio processo a carico della Colonna, conferma almeno il vaglio cui furono sottoposti i suoi scritti; evidenza, questa, che conferma inequivocabilmente la vicinanza della Colonna al gruppo degli “spirituali” e il ruolo rilevante ricoperto dalla corrente riformatrice nel clima storico degli anni Quaranta del Cinquecento. Nel panorama degli anni convulsi che vedono la Riforma luterana da una parte la Riforma cattolica dall’altra, il lavoro degli storici ha faticosamente ricostruito l’esistenza di un’altra posizione, intermedia fra le altre due, e sostenitrice di una diversa soluzione del conflitto con il mondo luterano, una “terza via” [3]. Sul piano politico, gli “spirituali” perseguivano un’ipotesi di riforma della chiesa dall’interno dell’ortodossia cattolica, che ridimensionasse i mali più vistosi che affliggevano l’istituzione ecclesiastica – riforma della curia; lotta al fiscalismo; rafforzamento dell’autorità dei vescovi; drastici interventi contro l’immoralità dei frati e preti – ma deprecavano ogni polemica antipapale e la rottura da Roma operata da Lutero. Dal punto di vista religioso, gli spirituali viterbesi, pur rimanendo all’interno della Chiesa, si proponevano di portare avanti il dialogo con i protestanti. Espressione dell’opzione spirituale del gruppo era il Beneficio di Christo, (“Trattato utilissimo del beneficio di Giesù Cristo crocifisso verso i cristiani”), un testo scritto dal monaco benedettino Benedetto Fontanini da Mantova e rivisto e ampliato da Marcantonio Flaminio, pubblicato anonimo a Venezia nel 1543. Il libro, pur attingendo ai Padri della Chiesa Agostino, Origene, Basilio, risentiva ampliamente dell’influenza dei testi di Lutero, Melantone, Calvino, e vi era ben evidente soprattutto l’eco del pensiero di Juan de Valdès. Il Beneficio di Christo circolò in tutti gli ambienti dell’evangelismo italiano e del circolo valdesiano a Roma [4]. Il successo del libro fu senz’altro dovuto alla dolcezza dei toni più che alla complessità dottrinale. Sorta di manuale consolatorio, esso esalta Dio come misericordioso e dispensatore di salvezza attraverso il dono gratuito del “beneficio di Cristo”, cioè della giustizia resa agli esseri umani riscattati (redenti) dai loro debiti grazie a Cristo. Il Beneficio di Christo fu violentemente attaccato già nel 1544 da Ambrogio Catarino, che in quell’anno pubblicò a Roma un “Compendio d’errori e inganni luterani contenuti in un libretto senza nome de l’autore, intitolato Trattato utilissimo del beneficio di Cristo crocifisso”. Nel Beneficio di Christo, infatti, da un punto di vista dottrinario s’individuavano forti punti di contatto con la teoria della “giustificazione per fede” di Lutero. Condannato anche in sede conciliare nel 1546, fu inserito poco dopo nell’Indice dei libri proibiti stilato da Giovanni della Casa. Il Sant’Uffizio dell’Inquisizione provvide poi a ricercare e distruggere quante più copie potesse dell’opera, e così del trattatello se ne persero le tracce fino a quando una copia venne ritrovata nel 1855 nella biblioteca di St. John’s College a Cambridge. Il circolo di Viterbo cui aderirono, tra gli altri, il cardinale Giovanni Morone, Vittore Soranzo, il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, Alvise Priuli e la nobildonna Giulia Gonzaga, ebbe vita breve, solo fino all’autunno del 1542. Un discorso a parte meriterebbe la complessa vicenda del cardinale Pole. Contradditorio, al limite del nicodemìtico, nel suo ondeggiare tra le idee dell’evangelismo e l’assoluta fedeltà alla Chiesa Cattolica, il cardinale inglese abbandonò il Concilio di Trento (1545-1563), adducendo motivi di salute. Gli storici concordano oggi nel ritenere che fu quello un modo per non apporre la propria firma sotto il decreto De iustificatione (7 gennaio 1547), che non condivideva, nel quale furono fissati i limiti dell’ortodossia e innalzato il baluardo teologico dell’articolo sulla giustificazione; fu rigettata sia la dottrina protestante della “giustificazione per fede” sia la dottrina della “doppia giustificazione” proposta dal cardinale Seripando. Alla morte di Paolo III, nel 1549, nel conclave che seguì, il cardinale Pole era considerato il principale candidato, ma all’ultimo momento il cardinale Carafa (fondatore con Gaetano Thiene dell’ordine dei teatini – dal nome latino di Chieti, Theates, diocesi di cui Carafa fu insignito) sventolò nell’assemblea la documentazione raccolta dall’Inquisizione, con la quale si provava come Pole avesse sostenuto l’eresia del Beneficio. Il cardinale Pole mancò di un voto l’elezione a papa e, pur potendo accettare l’elezione a papa per adorationem, tacque, permettendo l’elezione di Giulio III (1550-1555). Il papa appena eletto rimase molto toccato dal disinteresse di Pole, tanto da assegnarli una rendita e permettere che si ritirasse nel monastero di Maguzzano sul Lago di Garda, dove Pole scrisse una Pro Defensione per esprimere il suo parere sul cugino Enrico VIII di cui aveva condannato lo scisma dalla Chiesa di Roma, e per rispondere alle persistenti voci di una sua eresia luterana. Pole fu quindi inviato nel 1554 da Giulio III quale suo legato in Inghilterra, per aiutare Maria Cattolica nel tentativo di riportare il regno all’obbedienza romana. Ma quando nel 1555 il cardinale Carafa salirà al soglio pontificio, come Paolo IV, riprenderà la lotta aspra contro il movimento degli “spirituali” indicendo un processo contro il cardinale Morone e richiamando Pole a Roma, per aver sostenuto entrambi l’eresia del Beneficio. Pole rimase in Inghilterra protetto da Filippo di Spagna, e morì, nel 1558 a Londra, come ultimo arcivescovo cattolico a Canterbury. L’accanimento del cardinale Carafa, anche dopo l’elezione al soglio pontificio, può interpretarsi come prova di quanto articolato e fluido fu il dibattito tra cattolici e protestanti nel periodo della Riforma; di quanto le ragioni politiche dello scontro s’intrecciarono con quelle più squisitamente dottrinali; del ruolo rilevante svolto dal movimento degli “spirituali” nel clima del tempo.

Michelangelo Buonarotti, Crocifisso con due angeli dolenti per Vittoria Colonna

La ricerca storica condotta nel mondo del Beneficio ha mostrato convincentemente che l’uomo Michelangelo fu molto addentro all’ambiente degli “spirituali”, stretto com’era da un forte legame di amicizia con la Colonna. Con altri esponenti, a vario titolo legati all’ambiente del Beneficio, Michelangelo intrattenne rapporti di frequente corrispondenza; addirittura dall’Aretino, sappiamo che Michelangelo fu molto amico del Gualteruzzi (faccendiere della corte romana in strettissimi rapporti con l’Ecclesia Viterbensis), con cui divise insieme con Pietro Bembo e Vittoria Colonna una frequentazione quasi quotidiana nel 1540. Dell’intenso carteggio di Michelangelo con Vittoria Colonna ci restano oggi solo sette lettere, due dell’artista e cinque della Colonna. Tuttavia, una testimonianza importante di quell’amicizia restano i Quattro dialoghi sulla pittura di Francisco de Hollanda, il miniatore portoghese in viaggio in Italia fra il 1536 e 1541, che ebbe modo di frequentare a Roma, nel 1538, Michelangelo e la Colonna. Francisco racconta che Michelangelo era solito recarsi nelle giornate domenicali con la signora marchesa di Pescara nel convento domenicano di San Silvestro al Quirinale per ascoltare la lettura delle Epistole di San Paolo, considerate, nell’ambiente, chiave di accesso alle verità di fede. Il primo resoconto pubblico dell’amicizia tra Michelangelo e Vittoria Colonna fu pubblicato nella biografia dell’artista di Ascanio Condivi, e confermata più tardi da quella del Vasari. Condivi scriverà con enfasi, ricordando il rapporto tra Michelangelo e la Colonna: «Si doleva Michelangelo che quando l’andò a vedere nel passar di questa vita, non così le basciò la fronte o la faccia come le basciò la mano»[5]. Un rapporto intenso di amicizia spirituale e di profonda ammirazione, come questi versi dedicati alla marchesa di Pescara dallo stesso Michelangelo svelano delicatamente: «Un uomo in una donna, anzi uno dio/per la sua bocca parla,/ond’io per ascoltarla/ son fatto tal, che ma’ più sarò mio./ I’ credo ben, po’ ch’io/ a me da lei fu’ tolto,/ fuor di me stesso aver di me pietate;/ sì sopra ‘l van desìo/ mi sprona il suo bel volto,/ ch’io veggio morte in ogni altra beltate./ O donna che passate/ per acque e foco l’alme a’ liei giorni,/ deh, fate c’a me stesso più non torni» [6]. Nella biografia del Condivi, come ulteriore testimonianza del rapporto tra Michelangelo e la Colonna, ci vengono presentati i due disegni donati alla nobildonna dall’artista, cui accennavamo all’inizio del nostro articolo: la Pietà e la Crocifissione. Vasari, nella seconda edizione delle Vite, aggiunge una terza composizione sul tema della Samaritana al pozzo.

In questo excursus abbiamo cercato di mostrare come la rete di rapporti e conoscenze intessuta da Michelangelo, anche grazie all’amicizia speciale con Vittoria Colonna, testimoni come egli fu una persona – prima che un artista – attenta al dibattito religioso che stava dividendo la cristianità negli anni Quaranta. A questo punto vorremmo tornare alla nostra domanda iniziale, cioè riflettere sul rapporto tra religiosità e arte: la religiosità di un artista si traduce immediatamente o necessariamente nelle opere da egli stesso create? Nel tentativo di rispondere a questa domanda, nel prossimo articolo, cercheremo di capire se e in che misura si possa trovare traccia degli ideali religiosi degli “spirituali” nei disegni della Pietà e Crocifissione donati a Vittoria Colonna da Michelangelo, e quanto le idee religiose ed estetiche della marchesa di Pescara abbiano influito sull’artista più stimato e benvoluto dalla Roma papale. Come dire che «alla fine ci si deve pur porre la domanda se il genio casca dal cielo o si forma qui sulla terra» [7].

[nda :  continua con un articolo dal titolo “Il beneficio di Michelangelo” a questo link]

 

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[1] Cfr. Forcellino, Michelangelo, Vittoria Colonna e gli “spirituali”, Viella, Roma 2009.

[2] Juan de Valdés (1505-1541) fu un raffinato ed elegante cavaliere spagnolo trasferitosi in Italia dopo essere stato accusato di eresia in Spagna per essere stato vicino agli alumbrados (letteralmente: “illuminati di Dio”). Si trattava di circoli che ritenevano secondarie le pratiche rituali, le norme esteriori rispetto all’esperienza diretta di Dio, fatta di visioni, estasi mistica, illuminazione interiore. Valdés aveva unito questo misticismo estremo con il pensiero di Lutero. A Napoli, dove risiedette fino alla morte, animò un circolo di “spiriti eletti” tra i quali la nobildonna Giulia Gonzaga e il predicatore cappuccino Bernardino Ochino. (Sulla “spiritualità” valdesiana, cfr. anche Firpo, Riforma protestante, pp. 166-117).

[3] Cfr. Prosperi, L’eresia del Libro Grande, pp. 189-190.

[4] Incalzata dalla Riforma Luterana , la cosiddetta Riforma cattolica si nutrì negli anni Trenta del Cinquecento dello stesso bisogno di semplificazione e di purezza evangelica e come Lutero si avviò alla rilettura dei testi sacri, soprattutto le epistole di San Paolo e i Vangeli, compiendo un percorso che aveva trovato in Erasmo da Rotterdam il suo precoce sostenitore. Si ricorre perciò al termine “evangelismo” per designare questa fase caratteristica della Riforma cattolica, con cui s’indica quel gruppo di uomini che si riconobbero nello schieramento più sensibile alle esigenze di rinnovamento e al confronto con il mondo protestante sul piano teologico dottrinale. (Sull’“evangelismo”, cfr. anche Firpo, Riforma protestante, pp. 101-113).

[5] Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, a c.d. G. Nencioni, Firenze 1998.

[6] Michelangelo, Rime/235.

[7] Hauser, Le teorie dell’arte, p. 22.

[*] L’immagine: “Michelangelo e Vittoria Colonna”, quadro di F. Jacovacci (1839-1908) nel Palazzo Reale di Capodimonte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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  1. Il “beneficio” di Michelangelo

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