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Il “beneficio” di Michelangelo

Da Michelangelo, a lezione di “libertà espressiva” nell’arte religiosa.

Nel nostro articolo “Michelangelo e la marchesa di Pescara”, crediamo di aver dimostrato come Michelangelo – negli anni difficili del più grave conflitto verificatosi dentro la chiesa cattolica, in seguito alla Riforma luterana – intrattenne rapporti di amicizia con Vittoria Colonna e i suoi amici, noti come gli “spirituali”, appartenenti alla più famosa e controversa corrente riformatrice operante dentro la Curia romana negli anni Quaranta del Cinquecento. Persino poco prima di morire, Michelangelo stava lavorando a un Christo per il cardinale Morone a dimostrazione della stima che egli nutrì per uno dei principali perseguitati del gruppo degli “spirituali”. Dopo l’incontro con Vittoria Colonna – come scrive il de Tolnay – Michelangelo aveva appreso la dottrina della giustificazione per sola fide e ne era rimasto profondamente colpito; da quel momento la sua religiosità fu tutta presa dal problema della salvezza, centrata sul sacrificio (“beneficio”) e l’esempio di Cristo. Dalla fitta corrispondenza intrattenuta con il nipote Leonardo, sappiamo che Michelangelo elargiva elemosine, l’unico modo che conoscesse di fare “buone opere” per sua ammissione; non solo se ne preoccupava assai, ma lo faceva in modo scrupoloso e con una precisa strategia: il nipote doveva accertarsi del reale bisogno in cui versassero gli eventuali beneficiari, e la sua predilezione doveva essere accordata ai “poveri vergognosi”, ossia cittadini nobili decaduti che – non essendo abituati a mendicare – richiedevano un’attenzione particolare [1]. Aderire alla “giustificazione per fede” e allo stesso tempo curarsi delle “opere buone”, va precisato, non deve considerarsi una contraddizione: nell’ambiente del Pole, del Contarini (il cardinale che fu tra i fautori della dottrina della “doppia giustificazione”) e del Beneficio in generale, il valore delle opere era stato recuperato a differenza del mondo protestante: le opere non avevano valore in sé ma erano riflesso della vera fede, quella che sola giustifica l’uomo [2]. Sempre dalla corrispondenza giunta fino a noi, sappiamo che Michelangelo teneva in considerazione i sacramenti, soprattutto la confessione, ma ritenesse che per la salvezza dell’anima potesse bastare il sincero pentimento in punto di morte con la comunicazione diretta fra Dio e l’uomo, priva di mediazioni. Insomma, anche solo per quanto detto, la religiosità degli anni Quaranta di Michelangelo appare – dal punto di vista teologico – perfettamente aderente a quanto indicato dalla dottrina del Beneficio, e sarebbe così confermata anche per questa via la contiguità di Michelangelo al gruppo degli “spirituali”. Tutto questo non implica, comunque, automaticamente, che di tali ideali religiosi si ritrovi traccia anche nelle creazioni di Michelangelo. La questione va sottoposta a cauta verifica, facendo debiti distinguo tra l’uomo-Michelangelo e l’artista-Michelangelo, tenendo sempre presente che le convinzioni religiose di un’artista non devono necessariamente e direttamente tradursi nelle sue realizzazioni. Esigenza di nicodemìtiche cautele, banalmente detta ipocrisia mista a convenienza, o espressione di uno specifico modo d’intendere il rapporto intercorrente tra religiosità e arte?

Michelangelo Buonarroti, Tomba di Giulio II, marmo, Roma, San Pietro in Vincoli

Molti studi – partendo dalle ricerche di de Tolnay, lo storico che ha dedicato tutta la vita allo studio di Michelangelo – si sono dedicati alla questione della “nuova religiosità” dell’artista negli anni Quaranta, concentrando l’attenzione soprattutto sull’analisi del Giudizio Universale, che, composto proprio tra il 1536 e il 1541, sembrava il più adatto a verificare la presenza o meno di tracce della religiosità degli “spirituali” nelle opere dell’artista. Tuttavia Michelangelo, come attesta una sua lettera all’Aretino, alla fine di novembre del 1537 aveva già iniziato l’opera – commissionata da Clemente VII, probabilmente fin dal 1532 – e ne aveva in mente l’impianto generale, che era poi quello tradizionale dell’iconografia dei Giudizi medievali [3]; per questo motivo, il Giudizio non può considerarsi espressione di orientamenti religiosi maturati nell’artista solo dopo l’incontro con la Colonna, documentato con certezza alla fine del 1538. Quanto detto, comunque, è già occasione per una prima acquisizione sul rapporto intercorrente tra la religiosità dell’uomo-Michelangelo e le opere realizzate dall’artista-Michelangelo. Come rivela la composizione del Giudizio Universale, l’artista che operava nei luoghi chiave della cristianità non avrebbe mai potuto prescindere dal committente, dal vincolo iconografico del già esistente, così come dalle cautele richieste a chiunque solo sfiorasse temi religiosi in quegli anni. Tuttavia, è innegabile che Michelangelo non rinunciò mai alla propria libertà espressiva, fosse pure ritagliandosi lo spazio creativo nei dettagli quando non potesse farlo, come nel caso del Giudizio Universale, nell’impianto generale. All’inizio come alla fine della sua straordinaria carriera artistica, infatti, non ci fu opera che Michelangelo non abbia discusso e modificata convincendo i suoi committenti, solitamente papi o principi di sangue. Basti pensare a come l’artista sconvolse il programma della Sistina (1508-1512), passando dall’incarico della semplice fascia di Profeti, l’unica voluta inizialmente da Giulio II, alla creazione del meraviglioso Olimpo cristiano finale; ancor di più, giova ricordare i sei contratti, e corrispettivi progetti, che ci vollero – dal 1505 al 1545 – per far terminare all’artista la Tomba di Giulio II nella basilica di San Pietro in Vincoli a Roma [4]. Studi recenti, effettuati su quest’ultima opera, hanno verificato come Michelangelo, solo nel 1542, sostituì nell’impianto iconografico le tradizionali Virtù Teologali e Cardinali con due statue – la Vita attiva e la Vita contemplativa, ossia due concetti religiosi di grande attualità dentro la riflessione teologica del gruppo di Viterbo: il giusto equilibrio tra la vita attiva e la vita contemplativa, la fede e le opere, rappresentava per l’Ecclesia Viterbiensis, lo abbiamo detto, la via che deve perseguire il buon cristiano per la salvezza. Ancora una volta, Michelangelo, senza scardinare tout court il codice iconografico di riferimento e senza contrastare le attese del committente, attraverso una rielaborazione tematica e stilistica, era riuscito a ritagliarsi uno spazio creativo, che, in questo caso specifico, conferma la sua posizione nel dibattito religioso interno alla chiesa cattolica degli anni Quaranta: la posizione di mezzo tra la tradizione e le nuove istanze poste dalla Riforma Luterana fatta propria dagli “spirituali”.

Michelangelo, Pietà per Vittoria Colonna, disegno a matita nera, Boston, Isabella Stewart Gardner Museum

Quello fin qui descritto è l’artista-Michelangelo che opera da protagonista nei luoghi ortodossi della cristianità; ci resta da vedere, ora, se e in che misura si possa trovare traccia degli ideali religiosi degli “spirituali” nelle ‘opere private’, come i due disegni realizzati direttamente per la Colonna: una Pietà (Boston, Isabella Stewart Gardner Museum) e una Crocifissione (Londra, British Museum), opere presentate già nel precedente articolo [cliccare sulle figure per ingrandire]. Naturalmente, quale importanza avesse il tema del crocifisso all’interno di una religiosità profondamente cristologica quale fu quella della Colonna e dell’Ecclesia Viterbiensis sembra quasi superfluo ricordarlo. Cristo rappresenta l’unica via di salvezza del buon cristiano, il quale non potendo contare sul perdono in virtù del suo ben operare, dipende interamente da Lui: il sacrificio del Figlio sulla croce è stato il migliore beneficio che Dio Padre potesse donare al popolo di peccatori. La centralità di Cristo, indubbiamente, è il principale punto di contatto tra la religiosità espressa da Michelangelo nei due disegni e quella professata dagli “spirituali”. Tuttavia, se nell’ambiente del Beneficio Maria e i santi erano profondamente ridimensionati rispetto a Cristo, unico protagonista della salvezza del cristiano, nella Pietà di Michelangelo la Vergine ha un ruolo centrale. Solida come una matrona romana, la Vergine è addirittura compositivamente imponente: sul suo corpo è regolata e impostata tutta la composizione. Proprio dietro al suo capo, sul braccio lungo della croce, Michelangelo ha voluto apporre un verso di Dante: «Non vi si pensa quanto sangue costa» (Paradiso XXIX), un’invettiva del Poeta contro i teologi accusati di alterare il significato delle Sacre Scritture. Dante additava al cristiano, in questi versi, l’esempio di Cristo le cui sofferenze erano state fondamentali per diffondere la Parola di Dio e con esso una religiosità vissuta nel calore della fede più che nell’astrattezza della dottrina; un monito per il cristiano, questo, chiaramente più che gradito a una religiosità cristologica come quella degli “spirituali”. In realtà, anche Vittoria Colonna aveva scritto una lettera-trattato probabilmente per Ochino – Pianto della Marchesa di Pescara sopra la Passione di Christo o Meditatione del Venerdì santo (fra il 1539 e 1541) – in cui Maria assumeva un ruolo centrale. Tuttavia, leggendo bene la composizione, non sfuggono differenze tra la composizione della nobildonna e la rappresentazione dell’artista: la compostezza della Vergine di Michelangelo, che sostiene il figlio morto accogliendolo nel suo corpo e rivolgendo il volto al cielo in senso di sottomissione alla volontà del Padre, si discosta totalmente dalla Vergine disperata in lacrime descritta dalla Colonna nel Pianto [5]. Michelangelo è distante dalla Colonna anche nella raffigurazione del corpo di Cristo – tanto nella Pietà quanto nella Crocifissione: il corpo cui allude la Colonna è quello lacerato dalle ferite della flagellazione, con i capelli intrisi di sangue [6]; al contrario, il corpo disegnato da Michelangelo presenta appena accennati i segni del martirio: non è il Christus patiens con il capo riverso sul petto, ma il Christus triumphans “vivo” sulla croce. La “Vergine lacrimosa” e l’anatomia del “corpo martoriato”, del resto, non appartengono alla poetica e al registro stilistico di Michelangelo. Dall’analisi dei disegni realizzati per la Colonna, comparati proprio con

Michelangelo Buonarroti, Crocifisso con due angeli dolenti per Vittoria Colonna, disegno a matita nera, London British Museum

i testi scritti dalla stessa, emerge come anche nelle composizioni private l’artista non abbia mai rinunciato alla propria libertà espressiva, non accogliendo interferenze dell’amica nel processo creativo. La Pietà e la Crocifissione non devono essere considerati la diretta e necessaria illustrazione dei pensieri teologici della Colonna e del Beneficio, piuttosto frutto di una rielaborazione nella quale Michelangelo rimase fedele alla propria poetica e anche a certa tradizione iconografia sul tema della “pietà” e della “crocifissione” [7].

Dalla nostra lunga analisi è emerso come l’uomo-Michelangelo, negli anni Quaranta, maturò una religiosità del tutto sovrapponibile a quella del gruppo degli “spirituali”. L’artista-Michelangelo, abbiamo visto, elaborò temi cari agli “spirituali” senza rinunciare alla propria libertà espressiva, sia quando operava nella Roma papale sia quando realizzava opere per privati. Ma cosa significava “libertà espressiva”, per Michelangelo? Ci sembra sensato poter dire, dopo questo studio, una cosa semplicissima – del resto, la grandezza di un genio non è tale perché chiara ed evidente? –, ossia che la grande libertà espressiva di Michelangelo fu tutta nel non voler mai invertire l’arte con la religione. Michelangelo fu perfettamente consapevole dell’alto valore persuasivo delle immagini, lo conferma un passo dei Dialoghi di Francisco de Hollanda in cui dichiara che nulla è più nobile che fare una buona pittura, e che questa unisce l’uomo a Dio [8]; tuttavia, tanto si trattasse di esprimere la verità del dogma quanto dell’eventuale legittimazione della posizione degli “spirituali”, Michelangelo mai si sostituì ai vescovi o ai teologi. Tanto nella realizzazione della Tomba di Giulio II quanto nei disegni per la Colonna, Michelangelo non s’investi dell’autorità di ‘sacerdote’ di una sorta di ‘religione dell’arte’, ma godè nel saper restare un artista che elaborava – attraverso la tradizione iconografica da una parte e la sua personale poetica dall’altra – i temi religiosi della cristianità. Il discorso meriterebbe una riflessione a parte, accenniamo solo a quanto l’arte religiosa contemporanea sia, con evidenza, un pullulare di ‘soggettività’ che identificano la libertà espressiva con una figura mostruosa: la ‘tabula rasa. L’artista libero di esprimersi sarebbe quello che non ha più un committente con il quale interloquire; una tradizione iconografica del già esistente cui attenersi; una poetica elaborata a partire dalla tradizione di un maestro e dall’esperienza in una “bottega”; la contro-prova di avere un autentico talento. Questa è l’illusione di una libertà espressiva che viene confusa con l’autoreferenzialità, per cui il ‘sacerdote’ della ‘religione dell’arte’ diventa il predicatore delle proprie idee religiose, cioè di un’ideologia solitaria. Michelangelo, invece, aveva per committenti papi e principi di sangue; aveva una tradizione iconografica vincolante; una personale poetica cui restare fedele; maestri da rispettare; contro-prove del proprio talento da superare. Insomma, Michelangelo era così ‘vincolato’ che riuscì a dare talmente tanta forza creativa e libertà espressiva alle idee religiose degli “spirituali” da farle risultare non ‘stonate’ nella tomba di un papa, e non perfettamente ‘allineate’  nei disegni per la nobildonna dell’Ecclesia Viterbiensis. Il “beneficio” di Michelangelo, genitivo soggettivo o oggettivo piacendo.

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[1] Cfr. M. Buonarroti, Lettere, a c.d. Stone-Speroni, Milano 1963, p.264: «Quando tu avessi notizie di qualche estrema miseria in qualche casa nobile, che credo ve ne sia, avvisami, e chi; che per insino in cinquanta scudi io te gli manderò che gli dia per l’anima mia. Questi non à nno a diminuir niente di quello che ò ordinato lasciare a voi: però fallo a ogni modo».

[2] Cfr. Del Beneficio di Cristo, in Ginzburg-Prosperi, Giochi di pazienza, pp.224-225: «[…] tutte le opere, che fa il cristiano, sono opere di Cristo, perciochè le vuole come cose sue; e, perché sono imperfette, et egli è perfetto e non vuol cosa imperfetta alcuna, con la sua virtù le fa perfette, a fine che la sua sposa stia sempre allegra e contenta e che non tema. Perciocché, quantunque le opere sue siano defettuose, sono però grate a Dio, per rispetto del suo Figliuolo, sopra il quale egli continuamente risguarda».

[3] Cfr. Michelangelo in Roma a Pietro Aretino in Venezia (20 novembre 1537), cit. in Tuena, La passione dell’error mio, p.34: «Al divino Aretino. Magnifico messer Pietro Aretino, mio signore e mio fratello, io, nel ricevere de la vostra lettera, ho avuto allegrezza e dolore insieme. Sommi molto rallegrato per venire da voi, che sete unico di virtù al mondo, et anche mi sono assai doluto, però che, havendo compìto gran parte dell’historia, non posso mettere in opra la vostra immaginazione, la quale è sì fatta, che se il sì del giudicio fusse stato, et voi l’haveste veduto in presentia, le parole vostre non lo figurarebbero meglio».

[4] Lo studio della tomba di Giulio II in San Pietro in Vincoli si è imposto all’attenzione critica in occasione del restauro quinquennale, terminato nel 2003, guidato da Antonio Forcellino. Fino ad allora, il complesso architettonico e scultoreo aveva avuto scarsa considerazione tanto da risultare appena menzionato negli studi michelangioleschi. I recenti studi hanno confermato quanto l’opera sia concettualmente legata profondamente al mondo degli “spirituali”, non escludendo che proprio questo abbia contribuito alla sua scarsa considerazione. Per un approfondimento sul tema, cfr. Forcellino, Michelangelo, Vittoria Colonna e gli “spirituali”, Viella 2009.

[5] V. Colonna, Pianto: «Vedo la dolce Madre col petto colmo de ardentissima charità […] immo far del suo corpo quasi morto una sepoltura in quella hora […] parmi che il dolor […] hora nel toccar el sacro Corpo de Christo se allargò con maxima abondantia, et uscì per li occhi con più amare lacrime, et per la bocca con più accesi suspiri […]». Il componimento e pubblicato da Campi, Michelangelo e Vittoria Colonna, pp. 177-122; la cit. è a p. 117.

[6] Ibidem: «Io penso Padre, che la Regina del Cielo lo pianse in più modi, prima come humano, vedendo il bellissimo corpo formato de la sua propria carne tutto lacerato e quei capelli con tanto studio da lei conservati esserli stati cagion de molestia, che pieni del pretioso sangue li cascavan sul volto».

[7] La figura di Cristo è sorretta letteralmente da due angioletti, senza ali, come nella tradizione figurativa michelangiolesca, e molto simili ai genietti classici che Michelangelo disegna dai tempi della Sistina in poi. Il corpo di Cristo presenta i tratti inconfondibili dell’anatomia di Michelangelo: nelle potenti fasce muscolari delle braccia, nel largo torace, e giù fino alle gambe. Non il corpo di un uomo martoriato è raffigurato nella Pietà e nella Crocifissione, ma lo strazio sopportato da un corpo vivo. Anche se la discussione è ancora aperta, il tema della Pietà o Vesperbild – la Madonna con in grembo il Cristo  morto appena deposto dalla croce –, in scultura, avrebbe origini alla fine del XIV secolo tra Germania e Francia; l’iconografia rimanda ad un tema devozionale usato come momento di contemplazione religiosa nelle prime ore malinconiche della sera, ai vespri. Cfr. sul tema, Forcellino, Michelangelo, Vittoria Colonna e gli “spirituali”, op.cit..

[8] Bessone Aurelij, Dialoghi Michelangioleschi, p.64.