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La scaltra lacrima dell’inferno

«Il grande divorzio. Un sogno»: C. S. Lewis in viaggio tra inferno e paradiso, per penetrare nella logica del bene e nell'astuzia del male.

Dopo il successo delle Lettere di Berlicche, C. S Lewis (1898-1963) aveva ricevuto molte richieste per realizzare un’opera che fissasse in immagini l’essenza del paradiso. Impresa ardita, davanti alla quale perfino Dante ammise la sua resa: «A l’alta fantasia qui mancò possa» (Paradiso, XXXIII). Lewis rifiutò il compito, per dichiarata inadeguatezza, ma è pur vero che nel meraviglioso romanzo Il grande divorzio. Un sogno, scritto nel 1943, e ripubblicato da Jaca Book (Milano, 2014, pagine 140, euro 14), finì per illustrare una precisa idea di inferno e paradiso. Con un’esplicita avvertenza: «Io chiedo ai lettori di ricordare che questa è solo una fantasticheria»; un sogno, appunto, che non vuole suscitare una «materialistica curiosità sui particolari dell’ultramondo», ma avvicinare i lettori alla logica del cielo, e riflettere sull’eterno dilemma del rapporto tra Bene e Male.

Tutto inizia alla fermata di un autobus, nella penombra del crepuscolo, in una squallida città che si estende all’infinito. Gli individui in fila sono esseri irosi, queruli, meschini, e, quando giunge l’autobus, solo alcuni riescono a salire. Tra questi l’io narrante della storia. Tutti verranno trasportati in paradiso, scoprendo che il luogo che hanno lasciato non è altro che l’inferno. Niente fiamme e stridore di denti, niente demoni, ma un luogo vuoto, anzi una sorta di non luogo: una metropoli sconfinata, dispersa su distanze siderali, visto che gli spettrali abitanti sono sempre in conflitto tra loro e preferiscono vivere il più lontano possibile gli uni dagli altri. Qual è il problema di questo posto? Il problema è che i dannati non hanno Bisogni. Chiunque può ottenere quello che vuole solo immaginandolo – per questo motivo vivono tutti in solitudine, senza il bisogno di una vita comunitaria –, salvo scoprire che, se si può avere qualsiasi cosa immaginandola, si finirà per non volere cose reali. Poco dopo essere decollato l’autobus porta i passeggeri a destinazione, in paradiso. Un luogo cinto in lontananza da altissime montagne, sul ciglio dell’aurora, così fresco ed aperto che «in confronto il sistema solare pareva una stanza chiusa», e così solido e sostanziale che gli essere umani usciti dall’autobus si rivelano per fantasmi – Spettri sono chiamati – trasparenti, «macchie in forma d’uomo sulla luminosità dell’aria», incapaci perfino di cogliere i frutti di quella terra o di calcare l’erba, maledettamente rigida come diamante sotto i loro piedi. Gli Spettri sono accolti da figure radiose – Consistenti sono definiti –, i veri abitanti del luogo, solidi e belli come il paese in cui si trovano. Tra i Consistenti, l’io narrante incontra il poeta George MacDonald – cui Lewis si sentiva fortemente debitore – che gli farà da guida come Virgilio per Dante. Il paradiso di Lewis è il luogo della consistenza. Scorgendo gli eletti, l’io narrante nota che «alcuni erano nudi, altri vestiti. Ma coloro che erano nudi non sembravano per niente meno adorni, mentre i vestiti non celavano, in coloro che li indossavano, la massiccia mole dei muscoli e la raggiante leggerezza della carne». Le anime del paradiso sono consistenti e solide, perché immerse «dentro l’Amore stesso»; gli eletti non hanno bisogno dell’amore di un altro, come i mortali. In Dio hanno tutto. Hanno la gioia, che «niente può turbare», perché «la Santa Trinità è la loro dimora».

Nucleo centrale del libro è una serie di dialoghi cui assiste il narratore; un’ampia, fantastica, a tratti raggelante, serie di variazioni di un unico modello: in ogni dialogo un Consistente viene per incontrare uno Spettro, con cui è stato in rapporto durante la vita terrena, per convincerlo a seguire una strada di purificazione che gli permetta di entrare in paradiso. Ad eccezione di uno solo, tutti gli Spettri, ricevendo l’invito alla beatitudine, lo rifiutano, e tornano indietro al bus che aspetta per riportarli all’inferno – alla solitudine e all’inconsistenza. I Consistenti, proprio come il servo mandato a sollecitare gli invitati in Luca 14, sono inviati per lanciare agli Spettri una provocazione al bene; ma gli Spettri, proprio come gli invitati della parabola, rifiutano l’invito adducendo motivazioni banali, addirittura cercando di convincere le anime dei beati che in fondo si sta meglio all’inferno. Paradigmatico è il dialogo che vede protagonista un vescovo teologo liberale, il quale, facendo sfoggio di un «dolce sorriso clericale», declina l’invito a incontrare Dio faccia a faccia per mantenere l’impegno di tenere una conferenza presso una piccola associazione teologica che ha sede all’inferno; vuole dimostrare che Cristo è morto troppo giovane e invitare l’uditorio a valutare quale diversa cristianità avremmo avuto se solo il Fondatore avesse raggiunto un’età più matura. La Crocifissione? «Un disastro: quale tragico spreco…una grande promessa così presto stroncata».

La scelta degli Spettri di rifiutare la redenzione, che consentirebbe loro di accedere al paradiso, parrebbe una scelta incomprensibile; Lewis la rende di una devastante logicità, quando immagina che sia proprio uno Spettro a spiegare all’io narrante il significato dei dialoghi, e la natura della scelta tra il bene e il male che tutti i fantasmi – come del resto anche le anime umane sulla terra – si trovano a dover compiere. Lo Spettro afferma: «Alla fine ci sono due generi di persone: quelle che dicono a Dio “sia fatta la Tua volontà”, e quelle a cui Dio, alla fine, dice: “Sia fatta la tua volontà”»[1]. Tutti quelli che sono all’Inferno lo scelgono. Non c’è nulla che tenga lontano queste anime dalla gioia se non il loro rifiuto di accettarla, di lasciarsi accogliere. Come scrisse proprio il teologo svizzero von Balthasar – grande ammiratore di quest’opera di Lewis – in tutti i dialoghi «il punto di vista dell’amore celeste s’incontra con quello dell’egoismo infernale, cosicché il colloquio finisce il più delle volte senza risultato, e solo di quando in quando si trova un punto di partenza per l’intervento dell’amore, e può allora essere imboccata la strada della purificazione, la via del purgatorio»[2].

L’egoismo che ha caratterizzato in vita gli Spettri, quindi, li opprime anche da morti rendendoli incapaci di riconoscere il bene, persino quando viene data loro l’opportunità di redimersi per l’eternità. Questa idea di Lewis parte da una convinzione ben precisa, vero cuore dell’escatologia presentata in quest’opera, e cioè che le innumerevoli scelte della vita condizionino l’anima per l’eternità e che tali scelte siano il risultato perfetto della libertà dell’uomo. Eccola, dunque l’illuminazione di Lewis: «Io non penso – spiega nella prefazione – che tutti quelli che hanno imboccato strade sbagliate periscano; ma il loro riscatto consiste nell’essere riportati indietro sulla strada giusta. Una considerazione sbagliata indurrebbe a tirar dritto: invece devi tornare indietro finché avrai trovato l’errore e operare affinché esso sia chiarito, non semplicemente andare avanti. Il male può essere cancellato, ma non può “metamorfosarsi” in bene. […] Se noi insistiamo nel tener in conto l’inferno (o qualsiasi terra) non riusciremo a scorgere alcun paradiso: se accettiamo il paradiso non avremo la possibilità di trattenere neppure il più piccolo ricordo dell’inferno» [3].

Per Lewis – che ha intitolato la sua opera Il grande divorzio, in qualche modo contrapponendola al poema Il matrimonio del Cielo e dell’inferno composto da William Blake nel 1793 – la terra non deve essere considerata come un luogo a parte. Qualora venga presa al posto del cielo, essa è già una regione dell’inferno, mentre se viene accettata in conformità del cielo, costituisce fin dal principio una parte del cielo stesso. «L’intero inferno – confida MacDonald a Lewis – è più piccolo di un ciottolo del vostro mondo terrestre […]. Guarda quella farfalla. Se ingoiasse tutto l’inferno, l’inferno non sarebbe grande abbastanza da causarle alcun danno o perché ne avvertisse il sapore»[4]. Dunque, per Lewis, il bene è infinitamente più grande del male. Tuttavia, perchè il bene trionfi, bisogna «impedire all’inferno di vietare il paradiso»; impedire ai malvagi, ai «facitori di infelicità», di distruggere negli altri la felicità che essi respingono per se stessi. Partendo dalla vita terrena, perché le scelte di questa vita condizionano l’anima per l’eternità, nessuna concessione va accordata alle seduzioni del male, nessuna indulgenza meritano i «facitori di infelicità». E la compassione? Che ne è della misericordia cristiana? Su questo punto Lewis è illuminante, più che mai: bisogna distinguere, scrive l’Autore, tra l’«azione compassionevole» e la «passione compassionevole». Verso chi compie il male ci può essere un’azione compassionevole – la carità diremmo – che butta luce sulle tenebre, che sa sanare con il bene il male; ma giammai ci deve essere passione compassionevole, quel genere di indulgenza verso il male che induce gli uomini a «concedere quello che non può essere concesso e a lusingare quando dovrebbero invece dire la verità». La forza dei malvagi, dei «facitori di infelicità», sta nella «scaltra lacrima dell’inferno», che, pretendendo una compassione che non merita, cerca di imporre al bene la tirannia del male [5].

 Tra bene e male nessuna contiguità, nessuna commistione. L’unico male verso cui è ammesso provare compassione è quello che si sottomette al bene; «ma non potremmo chiamare blu il giallo per compiacere coloro che insistono a volere l’itterizia, e nemmeno fare un letamaio del giardino del mondo per il ben di qualcuno che non riesce a sopportare il profumo delle rose» [6]. Con Satana non basta una ‘separazione civile’, ci vuole un ‘grande divorzio’: «Che Satana si allontani da noi, non ne vogliamo più né un pelo né una piuma». Qui, ora, nei nostri cuori e nelle nostre tasche.

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[1] C. P. Lewis, Il grande divorzio. Un sogno, Jaca Book, Milano 2014, p. 81.

[2] H.U. von Balthasar, Sperare per tutti, Jaca Book, Milano 1988, p.41.

[3] C. P. Lewis, Il grande divorzio. Un sogno, op.cit., p.14.

[5] Cfr. Ivi, pp. 130-131.

[6] Ibidem.