Non solo diritti, anche doveri!
La Giornata mondiale della sindrome di Down vista da una "porzione" di amicizia.
Nella Giornata mondiale sulla sindrome di Down un’“intervista doppia” a due amiche: da una parte c’è Flora, mamma di Giovanni – un bambino di sette anni con la sindrome di Down – e di Francesco, cinque anni; dall’altra parte c’è Simona, mamma di Gaia e di Greta, rispettivamente di sette e cinque anni. Due mamme e quattro bambini, tutti amici tra di loro. LaPorzione.it ha scelto di guardare la realtà con l’occhio della “piccola parte” – nel frammento, tutto; eccovi un “frammento” di riflessione sul tema della Giornata, una “porzione” di condivisione e amicizia.
Flora e Simona, quando eravate in attesa dei vostri bambini, avete mai pensato all’eventualità che potessero nascere con la sindrome di Down o con altra disabilità; come vi siete comportate, a riguardo?
Flora:«Con mio marito volevamo fortemente un bambino, lo abbiamo desiderato al di là di tutto e di tutti. Quando abbiamo saputo che ero in attesa, l’unico pensiero era portare a termine la gravidanza: quella vita sarebbe entrata comunque in casa nostra. Eravamo preparati, consapevoli. Nonostante aspettassi il primo figlio a quarant’anni, non mi sono sottoposta ad alcun test invasivo, niente amniocentesi o bi/tri test o chicchessia. La nascita di Giovanni, con la sindrome di Down, non ci ha impedito di desiderare un altro figlio, e, anche in questo caso, non mi sono sottoposta ad alcun test “preventivo”. Quando attendevamo Giovanni, poi Francesco, pensavamo una sola cosa: portare a termine la gravidanza e accogliere nostro figlio».
Simona: «Anche io non ho fatto alcun test invasivo, niente amniocentesi e qualsiasi cosa preveda il kit del “figlio perfetto”. Dai, come si fa? Chiamano “aborto terapeutico”, cioè considerano legale, sopprimere un feto – a quasi cinque mesi – perché non è sano. È “terapeutico” per chi, per cosa? Se un figlio non lo vuoi, è consentito abortire fino a tre mesi circa; se non è “sano”, invece, puoi sopprimerlo anche a cinque mesi, ossia quando è ancora più formato. È una pazzia: non pensano “da quanto tempo è vivo” ma “quanto è sano”. Da brividi. Non sono sposata, per motivi personali, ma dalla fede cattolica ho imparato a rispettare la vita – tutta la vita – perché non mi appartiene: non potrei uccidere un feto, tantomeno un bambino già formato. Anche il mio compagno, pur non essendo credente, la pensa come me».
Bene. Flora ci ha testimoniato che il desiderio di un figlio può essere più forte della paura. Simona, ci ha confermato che il giudizio “la vita tua dipende dalla volontà mia” non suona “legale” tantomeno “terapeutico”, tanto per la fede quanto per la ragione illuminata dal buon senso. Ora, passiamo alle difficoltà: Flora e Simona, ciascuna dalla propria prospettiva, quali sono i problemi che associate alla sindrome di Down?
Flora:«La prima cosa che mi viene in mente è il momento del parto. In sala operatoria, alla nascita di Giovanni, per pochi minuti i medici sono rimasti in silenzio e avevo subodorato ci fosse qualche problema; appena tornata in camera, ci hanno informato che il bambino sarebbe stato sottoposto al test di cariotipo e lì ho avuto quasi la certezza si trattasse di sindrome di Down. Dopo venti giorni, alle 21 di sera, mio marito risponde al telefono, poi lo vedo sedersi sul letto in silenzio: un medico, tra l’altro una donna, con due parole confermava la diagnosi. Ci saremmo aspettati un po’ più di supporto e preparazione da parte del personale medico. Il nostro pediatra, invece, è stato di molto aiuto fin dall’inizio: senza retorica, senza sentimentalismi, ipocrisie, lavora alacremente per il bene di Giovanni. Ti ho raccontato il primo problema incontrato, perché è paradigmatico di tutti gli altri che quotidianamente incontriamo a scuola, al parco giochi, nelle attività sportive, nelle ore di terapia: s’incontrano persone preparate, come le ottime maestre di Giovanni, i terapisti, il maestro di karate, e persone non preparate. La vera preparazione, però, non è data solo dalle competenze lavorative, quanto da quella sensibilità che si acquista solo facendo esperienza della vita nella sua complessità e totalità. Un medico, una maestra, un terapeuta che non mostra sensibilità e attenzione per le esigenze di Giovanni, o di altri bambini con qualche specifica difficoltà, probabilmente è un uomo o una donna che non ha sensibilità e attenzione per la vita in generale».
Simona:«Se penso a qualche problema legato alla sindrome di Down, penso alla scuola. Le classi dei nostri figli ormai sono eterogenee: stranieri, bambini di colore, disabili – di diverse disabilità, ciascuna con specifiche esigenze. Siamo tutti informati, bombardati, ci ripetono da tutte le parti le parole “integrazione”, “inclusione”, “abbattimento delle barriere culturali”; le ripetiamo, sì, ma ci sono ancora resistenze. Ti faccio un esempio solo. La cosiddetta “maestra di sostegno”, si dovrebbe sapere, non è di sostegno solo al bambino con bisogni particolari ma a tutta la classe: deve favorire l’integrazione tra i componenti della classe. Bene, vuoi sapere a che punto siamo nel 2015? In una riunione di genitori, proprio il rappresentante di classe ha sentenziato che non andava fatto il regalo alla “maestra di sostegno” perché «i loro figli non hanno bisogno del sostegno». Senza parole».
Flora e Simona, dalle vostre parole abbiamo capito che la disabilità resterà un problema fino a quando si penserà che riguardi solo “alcuni”; fino a quando non impareremo che la disabilità è una realtà della vita degna di essere esperita e condivisa proprio in quanto tale. Vi chiedo, allora: la colpa è sempre degli “altri”? I disabili e le loro famiglie hanno sempre ragione, e gli altri sono “cattivi”?
Flora:«Per me, assolutamente no. Giovanni ha pochi amici che condividono con lui la sindrome di Down; io ho amiche che non hanno figli con disabilità, e, tra di noi, c’è condivisione per sviluppare al massimo le potenzialità e le capacità di accoglienza reciproca dei nostri figli. Non mi vergogno di dire che conosco genitori di bambini, con la sindrome di Down, iperprotettivi: considerano i figli come una “specie protetta”, evitando occasioni di confronto con gli altri bambini. Sono poche, ma ci sono ancora famiglie che si vergognano e vivono la disabilità in modo frustrante. La scienza è arrivata a speculare anche su la sindrome di Down, è bene si sappia! Nell’Europa dell’est ci sono cliniche che correggono le caratteristiche somatiche dei bambini Down, come gli occhi a mandorla, e molti genitori sono favorevoli a queste pratiche. Non colpevolizzo queste famiglie, voglio solo dire che i problemi dell’accettazione e dell’integrazione non dipendono solo dagli “altri”, ma dall’atteggiamento delle stesse famiglie con bambini Down».
Simona:«Confermo quello che ha detto Flora, anch’io ho questa percezione. Credo, inoltre, che il problema vero dei genitori, e delle persone in generale, non sia una deliberata e cattiva volontà di escludere i bambini dei quali parliamo. Il vero problema è sempre l’egoismo, la superficialità e la maledetta fretta. Ospitare in casa propria un bambino con qualche specifica difficoltà, per farlo giocare con i propri figli, richiede in fondo solo qualche attenzione in più. Non scappiamo dal bambino in questione, ma dall’impegno, dalla responsabilità tanto più se richiede un impegno “supplementare”».
Bene, complimenti per la sincerità e la lucidità di analisi. A questo punto, ciascuna dalla propria prospettiva, ci potete dire come educate i vostri figli al confronto con la disabilità?
Flora:«Innanzitutto, per quello che posso, cerco di educare Giovanni e suo fratello, Francesco, con lo stesso “metodo”. Stessi diritti e stessi doveri, per entrambi. Il motto, in armonia con mio marito, è “consapevolezza dei limiti, ricerca di uguali opportunità”. Giovanni deve conoscere i suoi limiti e le sue potenzialità; non ha solo diritti ma anche doveri, e, quindi, come tutti, non deve sottrarsi alle proprie responsabilità. Tutto quello che può fare, deve fare! Per essere felice, non può perdere tempo. Il mio obiettivo è l’autonomia, come dovrebbe essere per tutte le mamme, anche se è più difficile. Mi impegno al massimo per ottimizzare il “durante noi”, sperando di renderlo il più autonomo e libero possibile quando sarà “il dopo di noi”. Comunque, come tutte le mamme, se un giorno dovesse dirmi che va a vivere da solo o si sposa, credo sarò un po’ gelosa e dovrò adattarmi a non averlo sempre con me [sorride, un po’ commossa]. È normale per una mamma, no? [sorride]».
Simona:«I bambini sono sbalorditivi, non si accorgono delle differenze perché sono interessati e curiosi di tutto. Tuttavia, inevitabilmente, entreranno in contato con la sofferenza con la morte, così come sentiranno circolare parole come “handicappato” in senso dispregiativo. Per questo, il mio “modello educativo” è: spiegare, spiegare e spiegare ogni parola che ripetano senza conoscerne bene il senso, o in modo non inappropriato. Spiego tutto con esempi pratici. Puoi spiegare per ore, ad un bambino, che non si dice “handicappato”, ma il punto è un altro: tuo figlio ha per amico, o almeno conosce, un bambino con handicap? Solo se lo ha per amico, non userà mai la parola in senso dispregiativo. Una volta mia figlia non voleva invitare al suo compleanno un compagno di scuola, perché diceva fosse violento. Allora l’ho portata a vedere dove viveva, ovvero in una casa famiglia: un posto dignitoso, certo, ma inevitabilmente diverso dal vivere con la propria famiglia. I bambini non devono conoscere la disabilita o il disagio in astratto, devono conoscere bambini con disabilità e disagio in carne ed ossa. Se saranno amici, sapranno anche dar loro rispetto».
E per quanto riguarda la chiesa e il tema della disabilità, che ci dite?
Simona:«Andiamo al nocciolo. Devo alla fede l’insegnamento che siamo tutti figli di Dio, perché abbiamo un solo Padre. Proprio da questo insegnamento procede, essenzialmente, il mio modo di rapportarmi a persone con disabilità».
Flora:«Da anni ho un riferimento spirituale, un amico speciale, al quale mi rivolgo per i miei dubbi di fede. Parlo di don Simone, – chiamatelo Simone, mi raccomando [sorride] –, che è anche il direttore de La Porzione.it [ri-sorride]. Per me è lui il tramite con la chiesa, perchè mi accompagna da prima che aspettassi Giovanni. È insostituibile per noi: è stato il primo a sapere della sindrome di Giovanni e ha battezzato Francesco. Sono molto contenta di Papa Francesco, perché dall’inizio del pontificato sta dando molta attenzione alla disabilità, alle “periferie esistenziali” e a tutto quello che per molti è considerato “scarto di vita”. Comunque anche la chiesa può fare di più e meglio su quest’argomento [sorride]».
Per concludere, vi chiedo una parola, solo una, per descrivere Giovanni.
Flora:«sei una meraviglia!».
Simona:«sei un tenerone!»
«Caro Giovanni, sei ufficialmente la mascotte de Laporzione.it! Da oggi, hai un “dovere” in più!» 🙂
Loro si sono grandi mamme e grandi persone….grazie di esistere