Decalogo: “Non dire falsa testimonianza”
Dal Kieslowski a Kierkegaard, per indagare il rapporto tra religione ed etica.
DECALOGO
di Krzysztof Kieslowski
In un precedente articolo abbiamo esposto le ragioni che hanno portato a presentare Decalogo, l’opera del Maestro Krzysztof Kieslowski ispirata ai dieci comandamenti. Nel presente articolo, cercheremo di analizzare criticamente Decalogo VIII, il cortometraggio ispirato all’ottavo comandamento: Non dire falsa testimonianza.
DECALOGO VIII
NON DIRE FALSA TESTIMONIANZA
TRAMA: Una vita frugale, solitaria ma dignitosa, ripetitiva ma non noiosa, segnata da quel genere di tristezza che evoca cause invisibili: così appare – dalle prime immagini del film – la vita di un’anziana insegnante universitaria, Sofia. In una mattina qualsiasi, Elisabetta, bella e misteriosa giornalista americana di mezza età, aspetta al varco l’insegnante chiedendo di poter partecipare al seminario di etica da lei tenuto. Sofia acconsente, ed è l’inizio di una rivelazione insospettabile. Nel corso della lezione, durante la quale si analizzano storie di vita che si dipanano tutte intorno a un “nodo etico” difficile da sbrogliare, Elisabetta chiede la parola per raccontare una storia accaduta a Varsavia nel 1943: due giovani cattolici, marito e moglie, che avevano già aiutato molti ebrei, promettono di far da padrini al “falso battesimo” di una bambina ebrea di sei anni, che, per essere ospitata da un’altra famiglia, e poter salvare così la vita, necessitava di un certificato di battesimo. All’ultimo momento, la giovane coppia si rifiuta di fornire l’aiuto promesso, adducendo come motivazione di non poter mentire – Non dire falsa testimonianza – di fronte a Dio. A questo punto si squarcia il velo dell’agnizione, la maschera del nascondimento è deposta: Sofia capisce che Elisabetta era la bambina, alla quale, lei e suo marito, avevano negato aiuto quasi quarant’anni prima. Il groviglio delle verità non è ancora del tutto sciolto. Mentre trascorrono la serata insieme, Sofia svela che la motivazione addotta della “falsa testimonianza” verso Dio era solo una scusa: lei e suo marito nel 1943 erano attivi nella lotta clandestina al nazismo e, da una fonte, erano stati informati che i coniugi disposti ad accogliere la bambina ebrea erano membri della Gestapo. Se Sofia e il marito si fossero prestati al falso battesimo, avrebbero messo a grave repentaglio l’intera organizzazione clandestina della quale facevano parte. In realtà, si seppe poi, la delazione era un ulteriore “falsa testimonianza” perchè la famiglia non apparteneva alla Gestapo. Appurata la verità da Sofia, finalmente, Elisabetta si sente liberata come fosse alla fine di un incubo. Per Sofia il “nodo etico” resta invece insoluto: non si assolve, e non si sente assolta, per aver confidato la verità ad Elisabetta e scoperto che la bambina ebrea si è comunque salvata. Sofia, oggi, non avrebbe scelto come quarant’anni fa; pensa che «la cosa più importante è salvare una bambina» e sente solo rimpianto perchè indietro nelle scelte non si torna.
COMMENTO: In Decalogo 8 Kieslowski costruisce la storia intorno ad un groviglio di “false testimonianze”, che ricadono l’una sull’altra come in un domino, a comporre un “nodo etico” simile a quelli sottoposti da Sofia agli studenti. Come avrebbero dovuto agire, Sofia e il marito, nei confronti della bambina ebrea? Ormai anziana, Sofia, pensa che «la cosa più importante è salvare una bambina»; in altre parole, trasgredire la legge del Padre – Non dire falsa testimonianza – sarebbe lecito se è fatto per salvare una vita. Del resto, che non si uccida un bambino è ugualmente un comandamento e cosa sacra in sé. Sofia e il marito, quindi, avrebbero dovuto prestarsi a fare da padrini al “finto battesimo” della bimba ebrea, trasgredendo letteralmente il dogma religioso, pur di salvare una vita innocente? Kieslowski sembrerebbe protendere per questo esito moralista più che morale, dal momento che non spiega quale sarebbe la ragione fondante di questa scelta, quella che la renderebbe incontrovertibilmente la scelta giusta, limitandosi a far dire a Sofia: «Il bene […] esiste in ognuno di noi. Le situazioni ci stimolano al bene o al male. In me quella sera non fu il bene ad essere stimolato» – «Ma chi lo stabilisce questo?» – «Colui che è in ognuno di noi […] L’essere umano è libero, libero di scegliere e se lo vuole può anche lasciarsi Dio alle spalle».
A nostro giudizio, per analizzare criticamente la storia proposta da Kieslowski, e avanzare una possibile soluzione, può essere di valido aiuto attingere all’opera Timore e tremore (1843) di Soren Kierkegaard, precisamente al paragrafo denominato Panegirico di Abramo [1], dove il filosofo analizza le implicazioni etico-religiose connesse al biblico sacrificio di Isacco chiesto da Dio ad Abramo (Genesi 22,1-18). Kierkegaard definisce Abramo «cavaliere della fede», modello esemplare di cristiano, perché «Abramo credette e mantenne la promessa»; la grandezza di Abramo consiste nell’«aver creduto sempre contro ogni speranza alla promessa di Dio». Per fede, Abramo, «abbandona la terra dei suoi padri per diventare straniero nella Terra promessa» (Eb 11,8 ss.); per fede, nonostante l’età avanzata sua e della moglie Sara, crede alla promessa che «la sua progenie sarebbe stata numerosa come le stelle del cielo» (Genesi 15, 1-6). Eppure, anche dopo ulteriori avvenimenti che confermano l’ubbidienza e la fede di Abramo, Dio lo tentò dicendo: «Prendi Isacco, il tuo unico figlio che ami, va nella terra di Moria e offrilo ivi in olocausto sul monte ch’io ti mostrerò». La richiesta di Dio sembrerebbe mettere Abramo davanti ad un “nodo etico”, il tema del film di Kieslowski. Nella società cui faceva parte Abramo, infatti, era eticamente condannato che “qualsiasi padre” uccidesse il figlio; non solo, ma con la richiesta del sacrificio del figlio, Dio sembrerebbe entrare perfino in contraddizione con se stesso, con il comandamento “Non uccidere”, e con la promessa di una discendenza fatta ad Abramo. Abramo non temporeggiò, ubbidì prontamente, non si pose dubbi sulla ragione di quella richiesta, come scrive Kierkegaard: «Sapeva ch’era Dio, l’onnipotente, che lo metteva alla prova; sapeva che si poteva esigere da lui il sacrificio più duro: ma sapeva anche che nessun sacrificio è troppo duro quando è Dio che lo vuole – e cavò fuori il coltello». Kierkegaard spiega la scelta di Abramo con il concetto di «sospensione teleologica dell’etica»: rispetto a qualsiasi “tipo” di etica, Abramo sceglie l’etica religiosa che include la fede in Dio stesso. Abramo non tentenna, non pensa ad alcuna conseguenza, non fa calcoli, non ha dubbi di alcun genere, ripone la sua totale fiducia in Dio. Se Dio comanda, qualunque sia il suo comando, ci sarà una valida ragione anche se non da noi compresa, e quella ragione supera e allo stesso tempo invera ogni altra ragione.
Il gesto di Abramo, per Kierkegaard, esprime l’essenza della religiosità e rivelerebbe il rapporto che intercorre nel cristianesimo tra fede e morale: la fede è il fondamento della morale, non la morale il fondamento della fede. La fede di Abramo, va precisato, non è la rassegnazione davanti al comandamento divino, come sarebbe per un qualsiasi eroe tragico (sacrificio di Ifigenia): Abramo, credendo contro ogni speranza alla promessa di Dio – nonostante la ragione avrebbe portato chiunque a dubitare o disperare –, anche nel momento in cui alza il coltello continua a credere che Dio gli restituirà il figlio a cui rinunciava; Abramo crede che rinunciando al figlio lo riceverà moltiplicato, e così accade: «Che siccome hai fatto questa cosa e non hai trattenuto tuo figlio, il tuo unico, io di sicuro ti benedirò e di sicuro moltiplicherò il tuo seme come le stelle […] (Gen, 22, 18)». Abramo credette, e, così facendo, si realizzò la promessa di Dio e salvò il figlio Isacco. Se in Kieslowski il “nodo etico” troverebbe soluzione in una scelta emotivamente etica – «la cosa più importante è salvare una bambina» – che entra in contraddizione con il comandamento religioso; Kierkegaard, invece, lo risolve con l’“etica religiosa”: la fede in Dio – che spesso può apparire «scandalo della ragione», un inaudito paradosso, un salto, un abbandonarsi pieno di chi crede nonostante tutto – non contrasta la morale, bensì la fonda “sciogliendo” in sé qualsiasi paradosso e “nodo etico”. «Il movimento della fede infatti si deve far sempre in forza dell’assurdo però in modo, si badi bene, di non perdere la finitezza ma di guadagnarla tutta intera».
RIFLESSIONI: Se un cristianesimo che coincidesse solo con il “credo quia absurdum”, come in Kierkegaard, scontenterebbe quanti si adoperano per mostrare a vari livelli la complementarietà tra fides et ratio; parimenti, una religione esclusivamente “entro i limiti della ragione” dimentica quanto alla fede inerisca strutturalmente il mistero, il paradosso, il salto nel buio, l’abbandono fiducioso. Oggigiorno, posti di fronte ai vari “nodi etico-religiosi” che la società ci pone, siamo spesso tentati di riportare tutto “entro i limiti della ragione”, di risolvere la fede nella ragione, ingenerando spesso incomprensioni e contrasti tra le parti. A volte, gioverebbe fare un passo indietro e ricordare che il cristianesimo non è in senso stretto una filosofia; e la fede tornerebbe a suscitare “timore e tremore” per un Assoluto al quale nulla è impossibile, anche quello che per noi resta paradosso e mistero.
———————————————
[1] Le citazioni sono tratte da: S. Kierkegaard, Timore e Tremore (Frygt og Baeven [Johannes de Silentio], 1843), in Opere, Piemme ed. 1995, pp. 192-201.
* L’immagine inserita nell’articolo è tratta da una Tavola lignea, opera di un artista attivo in Danzica (Gdansk) nel 1480-1490 ed esposta al Museo Nazionale di Varsavia. Il commento delle singole illustrazioni è tratto dal libro di padre Gianfranco Ravasi, I Comandamenti (edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2002).
Per comune ammissione di Krzystof Kieslowski e del suo sceneggiatore congiunto Krzystof Piesiewicz, la Tavola lignea è stata la prima fonte ispiratrice del progetto Decalogo. [Cfr.: Da un’intervista a Krzystof Piesiewicz di Tadeus Sobolewski, in Kieslowski, Museo Nazionale del Cinema, Torino 1989].