Una nave in una foresta
Sulla porta della Biblioteca fondata a Tebe nel secolo XV a. C. si racconta ci fosse un’iscrizione: «medicina per l’anima». Tale definizione dà la misura dell’importanza che le raccolte librarie avevano in un passato lontano, e di quanto la lettura facesse parte della crescita non solo intellettuale ma anche spirituale di un individuo. Fino al Novecento si sono susseguite tutta una serie di opinioni e definizioni, di scrittori (si pensi, ad esempio, a Borges che immaginava lo stesso Paradiso: «come una specie di biblioteca») e non solo, che ritenevano la biblioteca ben più di un semplice luogo ove erano raccolti libri.
Ma oggi è ancora così? Visitando le biblioteche pubbliche delle nostre città (eccezion fatta per gli esempi virtuosi, ça va sans dire) pare proprio di no, è possibile individuare sostanzialmente tre tipi di funzione: quella di semplice magazzino di testi e, aggiungerei, di comodo rifugio per la polvere; quella di emeroteca, patria tanto agognata per patìti del Fantacalcio e dell’ ultimo articolo di cronaca cittadina; e in ultimo, quella di punto di raccolta dei numerosi studenti universitari in ansia (?) in vista degli esami.
Mentre sulle prime due non ci sarebbe niente da dire (chi sono io per permettermi di giudicare il sacro dominio pallonaro?), sulla terza qualcosa andrebbe aggiunto: non è tutto oro quello che luccica; il fatto di vedere la biblioteca pubblica cittadina piena di ragazzi in un primo tempo pare una situazione confortante ma poi, come ricorda anche Paola Mastrocola nel suo “La passione ribelle” (Laterza, 2016), basta fare una domanda a chi lì dentro ci lavora e si ha un’amara sorpresa: la biblioteca non è praticamente utilizzata, ognuno porta i propri libri e studia, in attesa della prossima pausa. Ora, va detto, questa non può essere la funzione primaria di un’istituzione che, come dice una delle cinque leggi della scienza libraria di Shiyali Ranganathan prevede l’uso dei libri, e che, a prescindere da ciò, oltre a un passato gloriosissimo avrebbe ancora molto da offrire a una società come la nostra.
Per individuare l’obiettivo primario di una biblioteca pubblica basta rileggere il manifesto UNESCO ad essa dedicata nel 1994: è definita come una «condizione essenziale per l’apprendimento permanente, l’indipendenza nelle decisioni […], agente indispensabile per promuovere la pace e il benessere spirituale delle menti di uomini e donne». È evidente che al di là dell’enfasi retorica qui c’è qualcosa di profondamente vero ma al tempo stesso di largamente irrealizzato e cioè l’idea che la lettura, i libri e uno spazio ad essi dedicati, siano in grado di favorire la maturità nelle decisioni.
Il punto di partenza è sicuramente la mancanza di una reale educazione alla lettura, capace di guardare oltre il semplice testo scritto; Josè Saramago ne “La caverna” (Einaudi, 2000) parla dell’incapacità di percepire che: «le parole sono soltanto delle pietre messe di traverso nella corrente di un fiume, sono lì solo per farci arrivare all’altra sponda, quella che conta è l’altra sponda». L’ «altra sponda» è la possibilità di utilizzare la propria mente per l’ esercizio critico, perché leggere richiede questo, sollecita una riflessione su cosa e quanto del libro che si ha in mano si è compreso e condiviso. Richiede insomma partecipazione attiva. Quando ciò avviene allora la biblioteca può diventare una nave, custode di sapienza e di tutto il bello che la mente umana è in grado di partorire, che ci imbarca per darci la possibilità di arrivare a un’ «altra sponda» cioè alla piena consapevolezza delle nostre capacità, la quale poi permette di esercitare nella vita concreta, reale, il nostro spirito critico.
Ma il viaggio della nave oggi è difficile perché è impedito, non le viene permesso neanche di cominciarlo; è come se si trovasse in una foresta anziché in mare, con alberi (diminuzioni di personale, di acquisti e di orario) che la circondano e le ostruiscono il passaggio.
L’unico modo per ripartire è tagliare quegli alberi e permettere a tutti, adulti, giovani e bambini, di imbarcarsi per quel bellissimo viaggio che si chiama libertà.