La lettura? Non alletta!
Una breve considerazione sui dati ISTAT in merito alla lettura e alla sua diffusione in Italia, tra Barbara D'Urso e Martin Heidegger.
Scorrere gli ultimi dati ISTAT (aggiornati al 2015) relativi alla lettura e alla Literacy in Italia significa acquisire la piena certezza di quella che fino ad ora era solo un’opinione diffusa, ma mai chiaramente definita: l’Italia è un Paese di non-lettori, o più semplicemente, formato da persone che non ritengono necessaria la lettura per la loro crescita intellettuale, lavorativa e sociale.
L’ISTAT riporta come quasi dieci famiglie su 100 (9,1%, per la precisione) non possiede libri in casa e che meno della metà dell’intero Paese si dedica nel tempo libero alla lettura. I dati risultano ancora più sconfortanti qualora si vada a vedere proprio il livello di «competenza alfabetica funzionale» (la già citata Literacy), cioè la capacità di lettura e comprensione di testi scritti (ma anche di grafici e tabelle), atta a migliorare il proprio «stare al mondo» nella società dell’informazione; l’Italia presenta una percentuale molto bassa (27,1%) rispetto alla media OCSE (39,3%) al livello cruciale della scala (il terzo), al quale corrisponde la capacità di valutare criticamente le informazioni lette.
Quest’ultimo dato è altamente significativo visto che certifica come il territorio italiano sia sempre più popolato da «analfabeti funzionali»; il problema non è nuovo: già diversi anni fa il compianto Tullio De Mauro aveva segnalato il problema (cfr. ad esempio De Mauro, La cultura degli italiani, Laterza, Bari 2010), ma vox clamantis in deserto.
La situazione diventa ancora peggiore qualora si raffini la ricerca e si guardi al territorio abruzzese: anche se la percentuale generale di lettori è più alta rispetto al dato italiano (36,2%), c’è solo un allarmante 8,4% di cittadini -dai sei anni in su- che in un anno è riuscito a leggere da 4 a 7 libri; è evidente come nel nostro territorio la lettura sistematica sia attività neanche lontanamente praticata. Si badi, quando si parla di libri letti nelle statistiche, non ci si riferisce per forza a testi come Essere e tempo di Martin Heidegger ma anche a Quanti anni mi dai? di Barbara D’ Urso, ossia a letture evidentemente più “disimpegnate”. Ora, se per la D’ Urso potrebbe esserci un fondamento di ragionevolezza nel non volerlo leggere, e quindi il dato potrebbe essere giustificato e anzi giudicato più che confortante, non si capisce perché ci si debba privare anche di Heidegger (nome da sostituire a piacere con qualsiasi autore che abbia un colorito tendente all’ umano e che non conduca talk show nel pomeriggio).
Chi o cosa impedisce a noi italiani di inoltrarci in quello che Marcel Proust nel 1906 ha definito un vero e proprio «santuario» (M. Proust, Il piacere della lettura, Feltrinelli, Milano 2016), ossia l’atto del leggere? E soprattutto perché, qualora si legga un libro, questo non riesca ad essere oggetto di analisi, o per dirla con Paul Beauchamp, non «dà da pensare»? Le risposte a queste domande sono molteplici e non si può qui neanche lontanamente provare a elencarle.
Per ora limitiamoci a una premessa essenziale: c’è la tendenza a ritenere che Internet possa sostituire in maniera definitiva i libri, sia come strumento di conoscenza critica sia come mezzo di svago, ma questo è impossibile oltre che non auspicabile.
Innanzitutto come afferma giustamente Umberto Eco in una sua Bustina di Minerva datata 2007: «Internet provvede un repertorio fantastico di informazione ma non provvede filtri per selezionarla», e questo è un nodo cruciale, un problema che neanche la scuola il più delle volte sa risolvere. E l’educazione nel mondo contemporaneo consiste proprio nel saper filtrare le informazioni, nel saperle valutare, e non nell’ acquisirle. Ma la Rete ha cominciato a renderci incapaci di profondità di pensiero, visto che ci fornisce in un istante tutto ciò di cui abbiamo bisogno senza sforzi (si pensi a Google).
Un’ altra questione da tener presente, ma che avrebbe bisogno di ben altro spazio per essere trattata a dovere è quella dell’incapacità nella società odierna di fare silenzio; la lettura infatti domanda silenzio, come quando si entra in un qualsiasi luogo sacro, ma per far ciò bisogna fare spazio, accantonare il proprio ego per ascoltare quello che l’«Altro da sè» vuole dire, nel nostro caso specifico il sempre beneamato volume che abbiamo tra le mani.
Quando impareremo a spegnere il nostro smartphone o notebook e saremo capaci di silenzio potrà esserci spazio per quel miracolo di cui ci racconta Pietro Citati in Ecco il romanzo del lettore: «[Per] conoscere il senso dell’esistenza, dobbiamo aprire un libro: là in fondo, nell’ angolo più oscuro del capitolo, c’è una frase scritta apposta per noi».