La forza di dire no
La storia del no di Gaetano Salvemini al fascismo come invito ed esempio ad andare verso il bene, al di là del proprio vantaggio.
«Sono costretto […] a dividermi dai miei giovani e dai miei colleghi, con dolore profondo, ma con la coscienza sicura di compiere un dovere di lealtà verso di essi, prima che di coerenza e di rispetto verso me stesso». Queste sono alcune delle parole utilizzate da Gaetano Salvemini (1873-1957) in una lettera indirizzata al rettore dell’Università di Firenze nel novembre del 1925. Sono parole pesanti le sue, ma meditate, e impregnate di una forte
coscienza morale che gli impedisce di assecondare i disegni di chi, in quel particolare momento storico, cerca di stendere la propria longa manus sulla scuola e quindi sull’ educazione del popolo italiano. Tali parole rilette oggi paiono emanare un odore stantìo, di vecchio, ma invece andrebbero riportate alla luce e valorizzate visto che oggi (a quanto mi pare di constatare) viviamo in una società nella quale sovente il termine «bene» non travalica (quasi) mai le alte e ripide vette del proprio io (e «mio»), per riposare nel più auspicabile «comune». Al contrario questo testardo professore molfettano, che ha ricevuto dallo zio prete e dal padre socialista «il senso della serietà della vita» come ricorda Enrico Sestan, sceglie di rinunciare alla cattedra universitaria e quindi alla propria stabilità per non scendere a patti con quegli «ideali» in cui non si riconosceva e quindi lottare per provare a sovvertire i piani di un sistema che progressivamente andava a mostrare le proprie brutture, e tutto in nome del bene comune. Questo il finale, ma andiamo per gradi.
Laureato in Lettere, Salvemini comincia ad insegnare storia medievale e moderna a Messina nel 1901, per poi passare a Pisa, Firenze e arrivare negli USA, negli anni Trenta, dove ebbe una cattedra di storia della civiltà italiana ad Harvard.
Questo percorso che pare assai glorioso è invece contraddistinto da due episodi che lo hanno segnato profondamente ma al contempo hanno reso ancora più evidente la sua tempra morale, cresciuta -come ricorda lui stesso- anche con la lettura del testo biblico e in particolare dei Vangeli: nel 1908 perde in un terremoto tutta la sua famiglia, la moglie, cinque figli e la sorella; e poi nel 1925 viene arrestato dalla polizia fascista per la pubblicazione del foglio antifascista Non mollare, di cui qui non è possibile affrontare le vicende.
Il professore dopo essere stato scarcerato si trova a un bivio: cambiare opinione in merito all’ ideologia fascista oppure abbandonare l’insegnamento e quindi l’Italia; i suoi corsi a Firenze già da un paio di anni (precisamente dal 1923), sono contrassegnati da scontri e manifestazioni di protesta da parte dei fascisti, ma come disse una volta prima di iniziare una lezione: «Né gli applausi né i fischi mi mutano d’opinione».
Il caso di Salvemini arriva fino al Parlamento, dove era stato eletto deputato nel 1919, e un suo collega, anche lui professore di storia, tale Gioacchino Volpe in un suo discorso non perde l’occasione di accusare il professore pugliese di mescolare la storia con la politica e di farne un uso fazioso.
A fargli scegliere la via da percorrere è però un’offerta fattagli pervenire dall’allora ministro dell’istruzione pubblica Pietro Fedele: la libertà d’espressione, limitata ovviamente, e la possibilità di studiare all’estero. Così risponde Salvemini: «Quell’ offerta mi fece l’impressione di una sferzata sulla faccia. Se l’avessi accettata, avrei dovuto interdirmi ogni critica al regime che mi faceva lavorare; e mentre i miei amici in Italia rischiavano la libertà e vita nel resistere al fascismo, io me la sarei goduta all’ estero studiando a spese del governo fascista». La scelta è fatta, Salvemini lascia la cattedra e va in Inghilterra ma con la convinzione che i fascisti non «abbiano fatto un buon affare costringendomi a questa deliberazione». E, inoltre, in quei terribili giorni lancia un allarme (inascoltato) su quella che sarà la strada poi effettivamente percorsa dal nascente regime in materia di educazione: il giuramento di fedeltà al fascismo per tutti i professori; queste le sue parole che avvertono come di lì a poco arriverà la: «legge che consentirà al Governo medesimo di licenziare quei pubblici funzionari – compresi i magistrati e professori d’Università- che gli rifiutino il loro plauso».
Il professore se ne va dall’ Italia nel 1925 e tornerà solo nel 1949.
Risultato del giuramento fascista: 12 rifiuti su più di 1200 insegnanti.
Quid est veritas?