Votare significa esercitare la Storia
Breve storia delle elezioni in Italia. Quando non c’erano i partiti e si votava solo per la Camera dei deputati. Quando è arrivato il suffragio “quasi universale” e poi, molto tempo dopo, il voto delle donne. I plebisciti nel ventennio fascista, la Repubblica di ieri e quella di oggi. "Votare" è un’azione con la quale – di fatto – il popolo sovrano entra nella storia.
“Per chi votare” e “come votare”: è stato un gran parlare, in questi giorni di campagna elettorale. Senza dimenticare le immancabili voci che hanno richiamato il popolo alla responsabilità e al buon senso nel votare: il “voto è un dovere”; il “voto utile”; il “voto disperso”; “il voto di protesta”. A ciascuno il suo. A chi scrive piacerebbe invece ripercorrere la storia delle elezioni in Italia: tutte le volte che gli italiani sono andati alle urne, limitandoci alle elezioni più rappresentative. Quando non c’erano i partiti e si votava solo per la Camera dei deputati. Quando è arrivato il suffragio “quasi universale” e poi, molto tempo dopo, il voto delle donne. I plebisciti nel ventennio fascista, la Repubblica di ieri e quella di oggi. Votare: un atto sempre uguale nel suo valore e sempre diverso. Ripercorrere la storia delle elezioni in Italia equivale a riappropriarsi del senso di un gesto: un rito civile, che ha determinato la storia d’Italia dall’Unità ai nostri giorni. Nel bene e nel male.
1. Le prime elezioni dell’Italia Unita
Le prime elezioni dell’Italia unita si svolsero prima ancora che il Regno d’Italia fosse ufficialmente proclamato. È il 27 gennaio del 1861. Si vota per eleggere la Camera dei deputati perché il Senato è di nomina regia. I seggi alla Camera da assegnare sono 443. Hanno diritto al voto solo gli uomini maggiori di 25 anni in grado di leggere e scrivere e che abbiano pagato le imposte per un importo non inferiore a 40 lire; oppure, quanti non abbiano pagato l’imposta ma appartengano a determinate categorie (professori, ufficiali, magistrati ecc.). La legge elettorale in pratica bloccava l’accesso al voto al 98%. Del 2% degli aventi diritto, vota in media solo il 57% (dei 419.846 aventi diritto, votano in 239.746). Quindi, in ultima analisi, solo l’1% della popolazione eserciterà la sovranità che si realizza con la deposizione del voto nell’urna. Se e quanto abbia pesato l’astensionismo cattolico in occasione di queste prime elezioni, è questione assai dibattuta. Nel gennaio del 1861 dalle colonne dell’«Armonia» un noto pubblicista cattolico, don Giacomo Margotti, lanciò il celeberrimo slogan dell’astensionismo cattolico «né eletti, né elettori», spiegando che la lotta era ristretta a Cavour e a Garibaldi, cioè si sarebbe dovuto scegliere «tra coloro che combattono il papa con le ipocrisie e coloro che vogliono combatterlo apertamente con l’empietà e con la demagogia», dunque, meglio astenersi.«Né eletti, né elettori» equivaleva a una forma di protesta verso la politica del nuovo Stato italiano, soprattutto dopo la delusione seguita alle elezioni del novembre 1857, che avevano visto il successo di molti candidati cattolici (tra cui lo stesso Margotti) ma che erano state annullate da Cavour sotto il pretesto di «coercizione morale esercitata sugli elettori dal clero». Si trattava però della convinzione di alcuni cattolici, diffusa dai pubblicisti più intransigenti, come don Margotti, mentre è dubbia la reale incidenza di tale opinione sui comportamenti elettorali. L’analisi statistica sembrerebbe infatti indicare che i più tra i cattolici continuarono ad accedere in massa alle urne, appagando il loro sentimento patriottico nazionale. Alla fine vinsero le elezioni i moderati di Cavour, la Destra storica, che si impose doppiando quasi a numero di voti la Sinistra democratica.
Il 22 gennaio del 1882 verrà promulgata la nuova legge elettorale (n.999) che ammette all’elettorato tutti i cittadini maggiorenni di sesso maschile che abbiano superato l’esame del corso elementare obbligatorio oppure paghino un contributo annuo di 19,80 lire (il requisito di censo è stato abbassato dalle precedenti 40 lire). Si allarga così di molto il corpo elettorale, passando da circa 628.000 a oltre 2.000.000 di elettori, cioè dal 2% al 7% della popolazione totale, che conta 28.452.000 abitanti. Il movimento in favore del suffragio universale, promosso fra gli altri da Giuseppe Garibaldi e da Felice Cavallotti è ancora largamente minoritario nel Parlamento. [fonte: www.treccani.it]
2. Il suffragio diventa “quasi universale”
Bisogna attendere il 26 giugno 1913 perché, su iniziativa di Giovanni Giolitti, allora presidente del Consiglio, venga promulgato il Testo unico della riforma elettorale con il quale è introdotto in Italia il suffragio “quasi universale” limitato ai soli maschi. Il diritto di voto è esteso a tutti i maschi capaci di leggere e scrivere e che abbiano compiuto 21 anni, mentre agli analfabeti è data la possibilità di votare solo se hanno compiuto 30 anni di età. Inoltre, il voto viene esteso a tutti i cittadini che abbiano già prestato servizio militare. Gli aventi diritto al voto passano così a 8.443.205. Bisogna considerare che la media dell’analfabetismo tra i maschi maggiorenni in quel momento in Italia era alta, intorno al 34,7 %, con la punta massima in provincia di Caltanissetta del 63,8%. Apprezzabile fu, dunque, l’iniziativa prevista dalla riforma elettorale per permettere l’esercizio di voto agli analfabeti: l’elettore portava direttamente da casa una scheda prestampata ottenuta dal comitato elettorale del proprio candidato. Al seggio l’elettore la depositava dentro la busta ufficiale (la cosiddetta «busta Bertolini», dal nome del deputato che l’ha proposta), «che ha caratteristiche tali per cui la lettura del nome sulla scheda può essere fatta senza aprire la busta stessa». La composizione della Camera dei deputati nella XXIV legislatura, secondo i risultati delle elezioni politiche del 1913, vede la vittoria dei liberali che conquistano ben 270 seggi.
[fonte: www.camera.it].
3. La conquista del suffragio universale maschile
Il 16 dicembre del 1918 Vittorio Emanuele III promulga la legge che introduce in Italia il suffragio universale maschile senza condizioni (la legge è stata varata dal governo Orlando). Possono votare tutti i cittadini maschi che, nel pieno godimento dei diritti civili e politici, abbiano compiuto i 21 anni di età. Iscritti nelle liste elettorali anche i minori di 21 anni che abbiano prestato servizio militare in reparti mobilitati in zone di guerra. Il re firma il decreto che scioglie la Camera e fissa la data delle elezioni politiche per il 16 novembre. Per la prima volta in campagna elettorale vengono usati mezzi d propaganda nuovi, come il cinema, la stampa di partito e i comizi pubblici. Il numero dei votanti è il più alto mai raggiunto in una consultazione elettorale dall’Unità in poi (si recano alle urne 5.793.507 elettori), ma è anche molto alto l’astensionismo per un’affluenza alle urne totale pari al 56, 6%. Per la prima volta, le coalizioni di forze, di movimenti e di gruppi liberali che avevano avuto per decenni la responsabilità del governo del Paese subirono una netta sconfitta e persero, dopo oltre mezzo secolo, la maggioranza alla Camera, a vantaggio di socialisti e popolari. [Fonte: www.treccani.it]
4. Il Partito fascista e il suo “listone”
Il 6 aprile 1924, l’Italia torna alle urne con la nuova legge elettorale per il rinnovo del Parlamento. Il Partito nazionale fascista «col preciso intento di portare a termine con quest’operazione l’opera di legalizzazione del fascismo», nomina un comitato nazionale elettorale, composto da cinque membri designati dal Gran consiglio del fascismo: Michele Bianchi, Cesare Rossi, Giacomo Acerbo, Aldo Finzi e Francesco Giunta. A questi è affidato l’incarico di sovraintendere alla composizione della lista governativa, il cosiddetto “listone”, di 356 candidati. Nella lista predisposta dal Partito nazionale fascista confluiscono anche politici liberali e democratici come Antonio Salandra, Vittorio Emanuele Orlando ed Enrico De Nicola, e fuoriusciti del Partito popolare come Stefano Cavazzoni, Egilberto Martire e Paolo Mattei Gentili. Come era prevedibile, alle elezioni per la XXVII legislatura, il Partito fascista raggiunge il 64, 9% e si aggiudica 374 deputati, contro – per farsi un’idea della proporzione – il 3,3% del liberali (39 seggi), il 5,9% (24 seggi) del Partito socialista unitario, il 3,7% (19 seggi) del Partito comunista.
Mussolini procede a rapidi passi verso la dittatura. Il 27 febbraio 1928 viene presentato alla Camera il progetto di legge preparato da Alfredo Rocco sulla riforma degli organi di rappresentanza parlamentare e del voto. La Camera non è un più organo di rappresentanza, bensì un organo dello Stato; e ciò toglie la possibilità che la Camera ammetta nel suo seno partiti che potrebbero portare all’inclusione di rappresentanti di correnti antistatali. Al corpo elettorale è lasciato l’ingrato compito di accettare o, si fa per dire, rifiutare la proposta che il fascismo presenta alla nazione. Quando il progetto di riforma elettorale, arriva alla Camera, nessuno è iscritto a parlare. L’esame politico della legge è totalmente ignorato da una Camera asservita al potere. Unica voce di dissenso quella di Giovanni Giolitti. La Camera approva la nuova legge elettorale plebiscitaria. Votazione segreta: 231 votanti, 15 i contrari. Il 24 marzo 1929 l’Italia torna alle urne per la XXVIII legislatura ed è un plebiscito: la percentuale dei votanti è pari all’89,6%: 8.517.838 italiani dicono sì alla lista unica fascista (98,34%), 135.773 (1,57%) votano no. Il plebiscito si ripeterà nel 1934, quando l’Italia torna alle urne per la XXIX legislatura. Sono 10.043.875 (il 99,84%) gli italiani che dicono sì alla lista unica fascista, 15.215 (lo 0,16%) quelli che votano no. [fonte: www.treccani.it]
5. Monarchia o repubblica, alle urne arrivano le donne
Il 25 giugno 1944 il decreto legge luogotenenziale n. 151 emanato dal governo Bonomi stabilisce che alla fine della guerra sarà eletta a suffragio universale, diretto e segreto, un’Assemblea costituente per scegliere la forma dello Stato e dare al paese una nuova Costituzione.
Il 2 giugno 1946, l’Italia torna alle urne per il referendum istituzionale – si deve scegliere tra monarchia e repubblica – e per l’elezione dell’Assemblea costituente. È la prima consultazione popolare nazionale libera dopo il ventennio fascista. Votano sia uomini che donne, maggiori di 21 anni. «Le donne del ’46» è un’espressione con cui ci si riferisce comunemente alle prime donne italiane che nel 1946 poterono andare a votare. In realtà la loro prima occasione di voto non fu il referendum del ’46 ma le elezioni amministrative di qualche mese prima, quando le donne risposero in massa e l’affluenza superò l’89%. Circa 2 mila candidate vennero anche elette nei consigli comunali, la maggioranza nelle liste di sinistra. Per il referendum istituzionale l’affluenza fu molto alta: hanno votato quasi 25 milioni di italiani su poco più di 28 milioni che ne avevano diritto: l’89,1 %. Come primo partito si afferma la Dc al 35,2% con 207 seggi ottenuti. Il Psiup si afferma al 20,7% e il Pci al 18,9% con 104 seggi. [fonte www.camera.it]
6. Si vota il primo Parlamento della Repubblica
Il 18 aprile del 1948 gli Italiani sono chiamati alle urne per eleggere il primo Parlamento della Repubblica. «Altissima è l’affluenza alle urne (92,2%), come pure alto è il livello dei voti validi (97,8% dei voti espressi). Le liste che si presentano alla competizione elettorale sono 114; di queste solo 10 ottengono un’affermazione all’interno del Parlamento. L’indice di dispersione dei voti in relazione alle liste che non ottengono seggi è sostanzialmente basso, pari cioè all’1,3%. Le elezioni indicano un unico indiscusso vincitore: la Democrazia cristiana. Forte di questo consenso generalizzato, la Dc si presenta all’apertura della I legislatura con la maggioranza assoluta alla Camera dei deputati e quella relativa al Senato. [fonte: www.camera.it]
7. Per la Camera possono votare anche i diciottenni
Per la legge 39, promulgata l’8 marzo 1975, si riduce l’età che dà diritto di voto alla popolazione residente: sono considerati elettori della Camera dei deputati tutti i cittadini italiani che abbiano compiuto il diciottesimo anno d’età.
8. Nelle liste elettorali anche gli italiani residenti all’estero
Si allarga la base del corpo elettorale. Il 7 febbraio 1979 viene promulgata la legge per cui nelle liste elettorali dei rispettivi comuni di origine in Italia sono iscritti anche gli elettori italiani residenti all’estero. La prima consultazione per cui varrà la nuova legge sarà il referendum del 1989.
Per motivi di spazio, terminiamo qui la nostra carrellata sulle tappe più rappresentative della storia delle elezioni in Italia. Tutto quello che è seguito, nella storia della Repubblica, è più o meno identificabile con una grande “giostra elettorale” e la solita sarabanda di percentuali tra vincitori e vinti, affluenza e risultati. E così sarà anche il 4 marzo prossimo, quando torneremo alle urne per votare. Quello che sappiamo di certo, ad oggi, è che le prossime elezioni saranno ricordate dalla storia perché si andrà a votare con una nuova legge elettorale che cambierà anche le modalità di voto. Se nel 2006, 2008 e 2013 l’Italia era andata a votare con il cosiddetto Porcellum (legge 270/2005), i voti espressi il prossimo 4 marzo saranno invece regolati dalla legge elettorale attualmente in vigore, soprannominata Rosatellum, dal nome del capogruppo del PD alla Camera Ettore Rosato, approvata alla fine di ottobre del 2017 ed entrata in vigore come legge 165/2017. Ma c’è un’altra novità per le elezioni politiche del 4 marzo. Si tratta del cosiddetto «tagliando antifrode», un bollino con un codice alfanumerico, che verrà applicato su un’appendice di ciascuna scheda. Al momento della consegna delle schede agli elettori, i presidenti di seggio dovranno far prendere nota del codice sulle liste elettorali. Quando gli elettori usciranno dalle cabine dovranno consegnare le schede direttamente al presidente, che dovrà staccare l’appendice contenente il codice, controllare che corrisponda a quello precedentemente annotato, quindi inserire le schede nelle urne. Per la prima volta, non saranno gli elettori stessi a imbucare la scheda. Questo è dato sapere fino ad oggi. Se queste votazioni passeranno alla storia per altro motivo, lo sapremo solo risultati alla mano.
Sappiamo “come votare”, si spera, e, i più fortunati, anche “per chi votare”. Ma di sicuro “votare”, prima ancora di essere un mezzo per ottenere qualcosa, o un diritto e dovere da esercitare, è un’azione con la quale – di fatto – il popolo sovrano entra nella storia. A piccoli passi, lentamente, avanzando, indietreggiando, annaspando o “puntando i piedi”. E anche il 4 marzo prossimo, al di là di vincitori e vinti, di affluenze, astenuti e risultati, comunque vada, di sicuro la Storia continua…