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“Diventiamo una Chiesa-cantiere, in cui nasce la novità che lo Spirito suscita”

"Dobbiamo imparare a stare dentro gli ambienti di vita - invita la professoressa De Simone -, per imparare a portare dentro questi ambienti - ma a partire dall'ascolto della comprensione profonda di quello che ne contraddistingue la realtà e a partire dalla condivisione, dalla capacità di stare appunto dentro - una speranza. L'amore per le realtà che dobbiamo abitare e che già abitiamo è fatto di profezia. Allora, si tratta di far venire fuori il meglio che c'è nella vita delle persone, nelle realtà di vita quotidiana, negli ambienti di vita comune, nel nostro territorio, nelle nostre città, nei nostri paesi. Far venire fuori il meglio che c'è"

Lo ha affermato Giuseppina De Simone, membro del Gruppo di coordinamento nazionale del Cammino sinodale delle Chiese in Italia, all’Assemblea sinodale diocesana di Pescara-Penne

La professoressa Pina De Simone, componente del Gruppo di coordinamento nazionale del Cammino sinodale delle Chiese in Italia

Lo scorso sabato 19 novembre, in occasione dell’Assemblea sinodale diocesana nel secondo anno di ascolto del Cammino sinodale delle Chiese in Italia – che si è svolta nella Cattedrale di San Cetteo a Pescara, dopo che l’arcivescovo di Pescara-Penne monsignor Tommaso Valentinetti ha delineato gli obiettivi a cui la Chiesa di Pescara-Penne deve tendere con questo percorso, è stata la professoressa Giuseppina De Simone, docente di Filosofia della religione e teologia presso la Facoltà teologica dell’Italia meridionale sezione San Luigi, nonché componente del Gruppo di coordinamento nazionale del Cammino sinodale delle Chiese in Italia, a prendere la parola per illustrare meglio il percorso intrapreso dalla Chiesa di Pescara-Penne attraverso i Cantieri di Betania.

Quest’ultimo è infatti il documento, elaborato dal Gruppo di coordinamento del Sinodo, che contiene le prospettive per questo secondo anno di cammino e che è stato messo a disposizione delle Chiese locali: «Le cose dette dall’arcivescovo e il libretto della liturgia sono da riprendere nel tempo – esordisce la De Simone –, perché c’è dentro un’intensità straordinaria che può guidare il nostro cammino e aiutarci ad entrare nel senso profondo del nostra cammino sinodale in questo secondo anno di ascolto. L’immagine del cantiere è a voi familiare, perché nella vostra diocesi sono stati attivati dei laboratori. Quindi lo stile laboratoriale che è quello appunto della lavorare insieme, del pensare insieme, del riscoprire, del vivere il gusto di lavorare insieme, di pensare insieme, di interrogarsi insieme e cercare insieme strade anche nuove, ma non per il gusto della verità, ma rispondendo alle sollecitazioni che vengono dallo Spirito, alle provocazioni che sono nel tempo che viviamo e che sono altrettanti appelli che il Signore ci rivolge. Ecco, questo gusto del lavorare insieme nello stile laboratoriale, nella forma laboratoriale dell’impegno, voi lo conoscete già perché è quello che il vescovo ha proposto appunto come strada da seguire. E quindi sapete cosa vuol dire la parola cantiere, non c’è bisogno più lo spieghi, perché il cantiere dà l’idea dell’operosità, della progettualità, della proiezione verso una novità da imparare a scoprire, da costruire insieme. Il cantiere è l’immagine di una Chiesa che non è un museo, ma di una Chiesa che è in movimento. Una Chiesa che non si lascia prendere dalla tentazione del disfattismo, dell’immobilismo, del pessimismo ad oltranza, ma una Chiesa che è capace di mettersi in movimento continuamente. È una Chiesa che ritrova e vive la gioia di operare, di immaginareche vive la capacità e la bellezza del sogno. Una Chiesa che ha una visione, che sa sognare, che è sorretta da una visione e che sta trasmettere questa visione attraverso un operare che vede insieme le differenti componenti del popolo di Dio, che vede insieme i differenti carismi e ministeri presenti nel popolo di Dio. Un operare che ha il sapore e la tonalità di fondo della comunità, perché è nella comunità che la fede viene trasmessa, annunciata, testimoniata ed è da lì che traiamo continuamente forza per quella testimonianza che poi siamo chiamati a rendere ovunque, lì dove siamo. Quella comunità che è resa uno nel Signore Gesù dall’opera dello Spirito ed è quella comunità appunto, che continuamente ci genera nella fede».

A tal proposito, sono stati tre i cantieri proposti alle Chiese locali, il Cantiere della strada e del villaggio, il Cantiere dell’ospitalità e delle casa e il Cantiere delle diaconie e della formazione spirituale, tra cui la Chiesa di Pescara-Penne ha scelto di sviluppare il primo: «Tre cantieri – illustra la De Simone – che servono a ritrovare, a riscoprire le dimensioni di fondo del nostro essere Chiesa, quello che siamo chiamati ad essere come Chiesa e ciò che ci fa Chiesa. Tre cantieri per percorrere la via della sinodalità, per imparare a ad assumere in maniera sempre più profonda – e con sempre maggior consapevolezza – lo stile e della sinodalità, per essere Chiesa che cammina insieme. Questi tre cantieri non sono in alternativa tra loro, perché sono tre dimensioni e stanno a sottolineare le dimensioni, appunto, dell’essere Chiesa. E tuttavia bisogna operare una scelta, perché altrimenti si rischia di disperdersi. Allora occorre operare una scelta e voi l’avete fatta con grande saggezza. Una scelta che parte da un discernimento. Cioè una scelta che è guidata da una domanda “Che cosa, come Chiesa diocesana, avvertiamo come particolarmente urgente per noi e dove possiamo dare il meglio di noi stessi in questo momento? Dove possiamo lasciare che emerga il dono di questa Chiesa, a partire dalla sua storia, dal suo cammino fatto fin qui, e a partire da ciò che questo tempo e questa terra, dove il Signore ci chiede di annunciare il Vangelo, quello che questo tempo e questa terra ci spinge a cercare? Allora il discernimento deve portare ad operare una scelta e voi l’avete fatta. Una scelta di che riguarda una priorità. Ma come sapete dei priorità non solo escludenti, cioè scegliere una priorità, individuare una priorità non vuol dire che si lascia fuori tutto il resto, ma che a partire da quella priorità, si recupera poi l’attenzione verso le altre dimensioni. Questo consente di approfondire e di allargare senza disperdersi, senza correre il rischio del genericismo, della vaghezza o tuttologia, che a volte è una tentazione che viviamo. Invece bisogna “fare bene il bene” fare bene quello che ci è chiesto di fare. E questo è quello che avete fatto, guidati dall’arcivescovo, dedicando un’attenzione prioritaria al cantiere della strada e del villaggio, perché l’appello che sentite forte e urgente è quello di allargare lo spazio della tenda e rinsaldare i picchetti (il riferimento è al brano biblico di riferimento, Isaia 54 1-5), perché lo spazio della tenda si allarga, le cordicelle si stendono quando i picchetti sono ben saldi. Lo sguardo, guardare verso il basso quando è capace di alzarsi verso l’alto. È soltanto volgendo gli occhi verso il Monte, da dove ci verrà l’aiuto, che possiamo poi camminare per le strade del mondo, sapendo che i nostri passi sono sostenuti dal Signore. E che il Signore, custode di Israele, non si addormenta, non viene meno».

A questo punto, la relatrice è entrata nel vivo dell’analisi del Cantiere della strada e del villaggio: «Dobbiamo attivare un cantiere che ci porta ad andare per le strade, nei villaggi – approfondisce la componente del Gruppo di coordinamento del Cammino sinodale -. Come faceva Gesù, che cammina per le strade ed entra nei villaggi. Si ferma, poi, a casa delle persone. È un andare nei villaggi ed entrare nelle case, per stare con le persone. Noi siamo chiamati a fare come Gesù, ma nella successiva traccia di riflessione troverete scritto “Io sono la strada”, “Io sono il villaggio”. Vuol dire che dobbiamo capire fino in fondo il senso del nostro andare, di questo allargare lo spazio della tenda che ci viene chiesto. Che poi è il senso del profondo dell’accogliere. Io sono la strada, io sono il villaggio. Vuol dire che noi per strada ci siamo già, non siamo un’altra cosa dalla strada, da quella strada che siamo chiamati a percorrere, sulla quale dobbiamo imparare a muoverci. E vuol dire che il villaggio, cioè appunto lo spazio della vita comune, lo spazio che è fatto di relazioni, di relazioni quotidiane, come ricordava l’arcivescovo citando il cardinale Martini. Quello spazio è uno spazio che ci attraversa, non è uno spazio che è esterno a noi. E lo stesso anche per la strada. Cioè, la strada e il villaggio non sono realtà noi esterne, ma sono realtà che ci attraversano e cui siamo parte. Noi siamo quella realtà. Più volte negli incontri del cammino sinodale a livello nazionale, abbiamo ribadito che occorre smettere di pensare nei termini di “dentro” e “fuori”. Il cammino sinodale ci sta portando esattamente a questa scoperta. Chi noi pensiamo lontano, in realtà è più vicino di quanto possiamo immaginare e nessuno è veramente lontano, perché nessuno è estraneo all’amore di Dio. Il Signore è vicino ad ogni essere umano, il Signore opera nel cuore di ogni esistenza, il Signore non lascia da solo nessuna vita, nessuna esistenza, non c’è nessuno che sia privo dell’amore del Signore. Anche chi ha preso le distanze della Chiesa, anche chi sembra essere indifferente, si porta dentro una domanda, un grido che dobbiamo imparare. Dobbiamo imparare a riconoscere la presenza del Signore ovunque. Carlo carretto, nel libro Il deserto nella città che è un testo bellissimo di spiritualità, dice “È nella realtà che il Signore mi viene incontro. È lì che io devo imparare ad incontrarlo, a scoprirne la presenza”. Allora è nelle strade delle nostre città, dei nostri paesi, nei nostri villaggi, nella vita delle persone che ci stanno accanto, che incontriamo ogni giorno, che dobbiamo imparare a scoprire la presenza del Signore. Dobbiamo imparare a scoprire come la vita delle persone. Il loro cuore sia tempio della presenza del Signore, ma a partire dall’amore di Dio che non lascia solo nessuno, a partire dall’amore di Dio che non c’è dato perché noi lo meritiamo, non ci è dato per una nostra conquista, ma in maniera totalmente gratuita, preveniente, quell’amore che non smette di sostenerci e di chiamarci a sé. Allora dobbiamo imparare ad abitare i villaggi, dobbiamo imparare a stare nel tessuto delle relazioni che fa la vita concreta delle nostre città, dei nostri paesi. Dobbiamo imparare a stare dentro i villaggi. Occorre allora che cogliamo il senso profondo di questo stare e di questo camminare, di questo essere per via, appunto, che ci è chiesto. Essere strada vuol dire non irrigidirsi, vuol dire essere capaci di camminare, di essere in cammino ed entrare nei villaggi e stare nei luoghi della vita quotidiana con tutti, stare con tutti imparando ad amare quei luoghi, perché stare vuol dire amare. Vuol dire imparare ad amare. Noi ci siamo già nella realtà della vita quotidiana. Stiamo già con le altre persone, perché appunto ciascuno di noi ha una famiglia, ciascuno di noi lavora, ciascuno di noi ha impegni di vario genere, quindi ci muoviamo già nel tessuto del villaggio. Ma dobbiamo imparare a starci fino in fondo, cioè dobbiamo imparare ad amare i luoghi e le realtà della vita concreta. Che cosa vuol dire imparare ad amare quei luoghi che sono appunto fatti di relazioni? Vuol dire imparare a scoprire quei luoghi come spazi fatti di volti e di storie. Vogliamo imparare a vivere la prossimità, quella prossimità nella quale siamo già posti, ma che dobbiamo assumere cogliendone fino in fondo il senso, il valore. Allora amare i luoghi della vita quotidiana, i luoghi dell’umano, i mondi vitali, vuol dire – prima di tutto – imparare ad ascoltare. L’amore al quale siamo chiamati è un amore che è fatto di ascolto, di condivisione e profezia».

Un amore, dunque, che è fatto innanzitutto di ascolto: «Perché – spiega la professoressa Pina De Simone – occorre aprire il cuore, aprire la mente, aprire gli occhi. Imparare ad ascoltare per imparare a vedere. È molto importante fermarsi a riflettere sullo sguardo, sul significato e su quello che lo sguardo genera e rende possibile. Siamo capaci di vedere l’altro veramente in ciò che è? Siamo capaci di vedere quello che c’è nella vita dell’altro? Quello che c’è negli ambienti di vita nei quali siamo inseriti? Siamo capaci di riconoscere l’altro? E di riconoscere quello che poi rende possibile l’accoglienza? Di quale ascolto siamo capaci? Ascoltare vuol dire fare silenzio. E quel rapporto, quella capacità di fare silenzio alla quale ci ha educato anche il metodo della conversazione spirituale. Abbiamo detto “Dobbiamo diventare artisti della conversazione spirituale, dobbiamo diventare capaci di quell’ascolto che è fatto di silenzio”. Quell’ascolto che non è guidato dalla dall’idea “Che cosa devo dire prima di tutto?” Ma quell’ascolto che è fare spazio all’altro, riconoscere l’altro. Quante volte, anche nella vita delle famiglie, si sente questo grido di dolore “Non mi vedi, non mi vedi, è come se io non ci fossi, non ti rendi conto che io ci sono, non ti rendi conto di quello che io sto vivendo”. Dobbiamo imparare ad avere verso l’altro uno sguardo che è fatto di tenerezza, uno sguardo che è fatto di rispetto e che per questo, poi, diventa capace di cura. Quindi non lo sguardo di giudizio e neppure uno sguardo di conquista. Dove posso inserirmi? Che cosa posso fare per dire quello che io ho in mente, oppure per portare quello che io ritengo sia giusto? La prima cosa da fare, nell’incontro con le persone, è ascoltare. Ascoltare per riconoscere l’altro e nell’altro la presenza di ciò che ci supera. Allora, un amore che è fatto di ascolto, è anche un amore che è fatto di condivisione».

Quindi una amore fatto di ascolto è anche fatto di condivisione: «Una condivisione che – aggiunge la professoressa Giuseppina De Simone – , viene in mente quando parliamo della capacità di stare, di sostare. La condivisione ha bisogno di tempi, di un tempo di qualità, come l’ascolto d’altra parte. La condivisione ha bisogno che si stia con l’altro, senza fretta e oltre ogni funzionalismo, quello che molte volte guida anche il nostro stare negli ambienti di vita o di incontro con le persone. “Devo fare in fretta perché ho tante cose da fare, perché ho questo obiettivo che devo raggiungere”. Non che non si debbano avere delle mete, degli obiettivi, ma occorre sostare, stare e condividere senza fretta, oltre i funzionalismi, ma anche oltre le barriere dei luoghi comuni. Quante volte diciamoMa io da questa persona non posso aspettarmi niente, perché tanto è così”. Oppure da un determinato ambiente. E lo stesso discorso per il mondo dell’economia, per il mondo della cultura, per il mondo politico. Noi dentro queste realtà ci siamo già, dobbiamo imparare a starci guardandole con uno sguardo diverso, con uno sguardo che ci fa non fuggire da queste realtà. A volte succede che anche quando l’impegno professionale si vive, certe volte noi cristiani abbiamo un po’ questa tentazione, a volte no, quella di viverlo con una sorta di parentesi, perché lì io non mi realizzo, non mi sento accolto, non mi sento capito. E allora, poi, mi trovo il mio spazio di espressione, lo spazio nel quale mi sento a casa. Invece, dobbiamo imparare a vincere il disfattismo e le visioni pessimistiche, anche negli ambienti che sembrano più ostili, anche negli ambienti che sembrano più refrattari a ogni cambiamento, a ogni stile che porti un po’ di umanità in più. A volte abbiamo appunto l’esperienza di ambienti, di realtà che sono disumanizzanti da certi versi, ma non dobbiamo arrenderci. Dobbiamo imparare a stare dentro gli ambienti di vita, per imparare a portare dentro questi ambienti – ma a partire dall’ascolto della comprensione profonda di quello che ne contraddistingue la realtà e a partire dalla condivisione, dalla capacità di stare appunto dentro – una speranza. L’amore per le realtà che dobbiamo abitare e che già abitiamo è fatto di profezia. Allora, si tratta di far venire fuori il meglio che c’è nella vita delle persone, nelle realtà di vita quotidiana, negli ambienti di vita comune, nel nostro territorio, nelle nostre città, nei nostri paesi. Far venire fuori il meglio che c’è».

Pina De Simone con l’arcivescovo Valentinetti

Da qui un amore fatto anche di profezia: «La capacità di profezia – denota la docente di filosofia della religione – è nel far fiorire il bene. Questo è quello che dobbiamo provare a fare con l’aiuto del Signore. Non dobbiamo avere una visione negativa della realtà. Il cristiano non è colui che vede il negativo, non è profeta di sventura, ma la capacità di annunciare la speranza passa attraverso la capacità di andare a rintracciare i segni di bene in tutte le realtà, senza ignorare le contraddizioni, i limiti, le fatiche. Senza ignorare quello che non va bene perché, anzi, il profeta è anche colui che denuncia. Ci sono delle disuguaglianze sociali fortissime su questo territorio, ma come in tanti altri territori. Queste disuguaglianze vanno denunciate, vanno appunto chiamate per nome in tutta la loro drammaticità. Le povertà che sono presenti sul territorio vanno riconosciute, chiamate per nome e bisogna che si sia capaci anche di denunciare quelle situazioni che producono queste povertà. Quindi non una visione irenistica, ingenua. Ma nello stesso tempo, occorre seminare speranza sapendo che essa è già tra le pieghe della storia, tra le pieghe della vita quotidiana della realtà, di questa realtà concreta. Quindi andare a cercare ciò da cui si può partire per far fiorire il bene che c’è dentro questa realtà. Andare a rintracciare le risorse, le potenzialità che non sono mai qualcosa di astratto, ma hanno anche qui un volto, una storia. Occorre appunto amare, saper riconoscere il bene che c’è e che non dipende da noi perché ci supera. È oltre i confini della tenda. Appunto, allargare la tenda per imparare ad accogliere e a comprendere il bene che fiorisce oltre quei confini che, inizialmente, abbiamo posto per la nostra tenda. Quindi la capacità di profezia è la capacità di sognare che nasce dal riconoscimento del bene, quel bene che il Signore, che lo Spirito, suscita nella vita degli esseri umani. Quel bene che è dentro la storia del fondo della storia, di questa storia che stiamo vivendo. Per cui, non c’è una sterilità senza sbocco, ma quella chiamata allo sposalizio, quella chiamata alla pienezza della vita, opera al cuore della storia, perché questa storia è redenta dal Signore Gesù. “Non sarai più detta abbandonata, né la tua terra sarà detta devastata, ma sarai chiamata Mio compiacimento e la tua terra sarà detta sposata”. Questa terra, questa terra di Pescara, è compiacimento del Signore. Non è terra devastata, non c’è terra devastata che sia priva della presenza del Signore».

A questo punto emerge il primo modello di comportamento da attuare: «Dobbiamo imparare – esorta la docente di filosofia della religione – a far emergere questo bene e ad andare verso il Signore, andare verso la pienezza del Regno, lasciandoci condurre dall’azione dello Spirito, essendo docili a questa azione. Questo però richiede che ci sia una capacità di amore che è fatta di ascolto, di condivisione, ma che è fatta anche di conoscenza. Non dobbiamo stancarci di cercare di capire e conoscere, ma un capire e un conoscere che nasce dall’amore, che è sorretto dall’amore. Solo chi ama conosce veramente e la conoscenza ha bisogno dell’amore. Allora ci è chiesto di essere in questo territorio, ci è chiesto di essere nelle strade, tra la gente, nei nostri villaggi, nei tanti villaggi in cui già siamo. Ci è chiesto di essere lievito, che fa fermentare la pasta e trasforma la pasta e pane. Ma non dobbiamo sostituirci alla pasta, dobbiamo far venir fuori appunto quelle potenzialità che sono dentro la pasta. Ci è chiesto di essere lievito, di essere sale. Ma per fare questo occorre appunto che i picchetti della tenda siano saldamente piantati, rinforzati, perché questo è quello che consente a noi di rinforzare le ginocchia, di irrobustire le braccia. È questo che ci consente di guardare lontano, di non lasciarci andare al pessimismo. È questo che ci consente di avere una visione, una speranza e di essere testimoni di speranza. Allora occorre che in questo nostro andare, in questo nostro camminare, in questo nostro vincere la tentazione di irrigidirci, di alzare le barriere, di difenderci, occorre che rimaniamo. È un andare che implica un rimanere quello al quale siamo chiamati, dobbiamo rimanere nel Signore. “Rimanete saldi del Signore, rimanete nel mio amore, perché senza di me non potete portare frutto, anzi, senza di me non potete fare nulla”».

Partendo da questo presupposto, giunge la pista concreta da seguire: «Una Chiesa in uscita, come quella che sogna Papa Francesco, come quella che sognava l’arcivescovo nel 2008 e che continua a sognare – rilancia la De Simone -, come quella che sogniamo insieme. Una Chiesa giovane, bella, luminosa, splendente. Una Chiesa che diventa segno splendente dell’amore di Dio per ogni uomo, della tenerezza e della misericordia di Dio per ogni uomo. Una Chiesa così, una Chiesa in uscita, è una Chiesa che ritrova la sua radice più profonda. Ciò che la fa essere quello che è. Nel cammino sinodale siamo invitati a riscoprire, a riscoprire la forma sinodale della Chiesa e a riscoprire ciò da cui viene la forma sinodale della Chiesa, ciò che ci fa essere Chiesa, ci rende Chiesa, l’Eucaristia. La celebrazione dell’Eucarestia, che ci fa una cosa sola continuamente e rinnova continuamente, rigenera continuamente questo nostro essere una cosa sola nel Signore Gesù. È per questo pane spezzato per la vita del mondo. Possiamo essere pane spezzato per la vita del mondo se siamo una cosa sola in Colui che è pane, alimento della nostra vita. “Io sono il pane di vita, io sono la via, la verità, la vita”. È in lui che diventiamo pane, pane spezzato per la vita del mondo. Ed è l’ascolto della Parola che alimenta il nostro essere nel Signore Gesù, il nostro radicarci nel Signore Gesù. Una vita, la nostra, che può spezzarsi, che può diventare segno di speranza, che può diventare spazio di condivisione, di accoglienza, se si fa liturgia. Voi avete il gusto della liturgia, l’arte della celebrazione, come ama dire l’arcivescovo. Avete il gusto della liturgia. Essa non è forma esteriore, la liturgia è la forma della nostra vita di credenti e dà forma alla nostra vita di credenti, perché tutta la vita deve diventare liturgia, cioè rendimento di grazie, invocazione, attesa. Allora, il cantiere che avete immaginato, che state attivando, aiuta a ricomprendere le dimensioni fondamentali dell’essere Chiesa, che anche gli altri cantieri pongono all’attenzione. Perché non si può essere per la strada e nei villaggi, capaci di quello stare che è un amore che ascolta, che condivide, che si fa profezia, non si può essere così se non si riscopre il gusto dell’accoglienza, se non ci si riscopre e se non ci si costruisce come comunità aperte, accoglienti, ospitali a partire dalle relazioni che sappiamo costruire, vivere nella comunità e che sappiamo testimoniare. Come? Essendo lievito di un’umanità nuova, fermento di fraternità, lì dove il Signore ci pone. Una Chiesa che non è tunica lacerata o rete spezzata, ma che è capace di comunione. E per questo diventa lembo del mantello del Signore Gesù, perché appunto è capace di comunione. Vive la tensione alla comunione, una comunione che occorre sempre ritrovare, riscoprire, che non è mai data come qualcosa di automatico, ma che non dobbiamo mai smettere di invocare, di attendere e ricevere come dono che è dato dal signore Gesù».

E una Chiesa che è capace di stare nei villaggi e per le strade, a detta dell’esperta, è anche una Chiesa che riscopre il valore della diaconia: «Una Chiesa che si pone al servizio – precisa -, una Chiesa che vive la diaconia a partire da una solida formazione che è spirituale, perché anche culturale, teologica, umana, perché nella formazione spirituale tutto si condensa. Non è uno spazio separato da tutto il resto, ma è lo spazio di sintesi di tutto ciò che siamo. Ed è la Chiesa, questa, che riscopre anche la ricchezza dei carismi al suo interno. Il vescovo diceva “Occorre riconoscere, valorizzare i doni che sono presenti nella Chiesa, il dono che ciascuno è, che ciascuna esistenza credente è, perché lo Spirito investe – con la sua forza trasformatrice – ogni esistenza credente. Ogni esistenza credente è carismatica, cioè portatrice di un carisma particolare, per quello che è, lì dove si svolge. Allora, i genitori, i nonni, gli insegnanti, quello che vediamo quotidianamente, diventa dono, diventa ricchezza per tutta la comunità. È il modo di esprimersi, di dirsi di un servizio, di quell’essere fermento e lievito che è della Chiesa nella storia degli esseri umani. Quella storia che condividiamo, che viviamo con tutti e bisogna che nelle nostre comunità, però, questo venga compreso, accolto e valorizzato. Una Chiesa tutta ministeriale, una Chiesa tutta carismatica. Una Chiesa così è una Chiesa che diventa un cantiere, un unico cantiere. Così devono essere le nostre comunità, i nostri gruppi, le associazioni, ma anche le famiglie. Essere un cantiere, avvertirci come un cantiere in cui germoglia quella novità che lo Spirito suscita. Non abbiamo allora che da chiedere, da invocare l’aiuto del Signore, perché ci guidi per le sue vie e perché, appunto, impariamo ad essere sempre di più una cosa sola con Colui che ha detto di sé “Io sono la via”».

Al termine di questa relazione, i delegati parrocchiali e delle associazioni e movimenti laicali – presenti nella Cattedrale di San Cetteo – hanno dato vita ad una condivisione dapprima singole e poi in piccoli gruppi. Infine, i delegati hanno potuto confrontarsi con la professoressa De Simone e con l’arcivescovo Valentinetti il quale ha auspicato che il Sinodo dei vescovi del 2024, possa essere ulteriormente ampliato anche alla partecipazione dei laici – oltre che dei religiosi – per avviare insieme questo nuovo corso della Chiesa che sarà.

About Davide De Amicis (4359 Articles)
Nato a Pescara il 9 novembre 1985, laureato in Scienze della Comunicazione all'Università degli Studi di Teramo, è giornalista professionista. Dal 2010 è redattore del portale La Porzione.it e dal 2020 è direttore responsabile di Radio Speranza, la radio della Chiesa di Pescara-Penne. Dal 2007 al 2020 ha collaborato con la redazione pescarese del quotidiano Il Messaggero. In passato è stato direttore responsabile della testata giornalistica online Jlive radio, ha collaborato con Radio Speranza, scritto sulla pagina pescarese del quotidiano "Avvenire" e sul quotidiano locale Abruzzo Oggi.
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