Ultime notizie

“Gesù”, “Cristo”, i gemelli di Maria

Il problema non è semplicemente “d’onore” personale: “Cristo” sa che la sua gloria starà nell’unire il suo nome a quello del fratello, e che nessuno ricorderà mai più che a Betlemme nacquero due gemelli.

Perché Pullman sarebbe trasformato da questo libro (Philip Pullman, Il buon Gesù e il cattivo Cristo, Ponte alle Grazie 2010), secondo l’editore italiano, «nel bersaglio di violenti attacchi personali» (dalla copertina)? Questo libro merita in risposta ben più di un’apologia di campanile perché, non senza anche notevoli punti di debolezza, ben più del solito pamphlet scandalistico vi trova espressione […]. Ciò che mette al riparo Philip Pullman da attacchi personali è che dalle “sue” idee trapela ben altro che una mera opinione personale, né si tratta qui di un pennivendolo della tacca di Dan Brown, grande solo nel dare a orecchie pigre i rumori che cercano. Qui c’è altro, in qualche modo di più: Pullman posa temerariamente lo stetoscopio sul nostro mondo fino a distinguere tra i suoi battiti il nome di Gesù e il nome di Dio; quindi lo stetoscopio si ferma su quei formidabili toraci, riconoscendoli veramente per “il nostro Dio” e “il nostro Gesù” (dove l’accento cade tremendamente sull’aggettivo, e solo di rimbalzo sui sostantivi).

Che cosa abbiamo dunque tra le mani? «Un’opera postmoderna» – sintetizza appropriatamente il Literary Supplement del Times. Sì, e vedremo quanto postmoderna e perché; ma che tipo di opera? La definiremmo una cristologia narrativa, in parte molto vicina al genere dei Vangeli – è una storia semplice, che si offre come versione definitiva delle vicende, e mira a formare nel lettore una precisa idea di Gesù – e in parte antipodale ad esso – le circostanze compositive la spogliano delle prerogative che le sarebbero necessarie per essere davvero il pro-racconto dei Vangeli, e così il loro meta-racconto (in parole povere, per essere ciò che pretende di essere, sarebbe dovuto essere scritto nel primo secolo dell’era cristiana, e non nel ventunesimo). «Questa è una storia»: campeggia sulla quarta di copertina, e sull’ambigua tensione semantica tra i poli della parola “storia” (in particolare per come essi risultano accentuati nelle pagine di Pullman) si gioca l’incontro-scontro dell’autore con le fonti, che ammette come tal nel loro utilizzo e che al contempo smentisce “fingendosene” al di qua e al di sopra.

Una cristologia narrativa, dunque, ma “semiseriosamente fantastica”: […] se però il Sunday Times ha ragione quando, recensendo il libro di Pullman, chiama quella di Gesù «la storia più importante dell’Occidente», ciò non è solo perché l’Occidente contemporaneo risulterebbe in massima parte incomprensibile a chi non sapesse nulla del Nazareno, ma – ben oltre! – perché nessuna delle generazioni dei credenti ha trovato inutili o ripetitive le rinarrazioni della sua vicenda […]. Le narrazioni originali, in tutto questo, rivestono un ruolo di indicibile importanza: le asciutte stesure dei Vangeli e delle altre testimonianze apostoliche sono insieme la fonte remota dell’ispirazione degli Autori (quella prossima è piuttosto la fede, o comunque la fascinazione per Gesù) e il loro banco di prova. Pullman ha scritto un’opera che si confronta con quei testi in modo non meno assiduo ma, in virtù dello stesso genere letterario, meno vincolato: la critica di quest’opera farà pertanto bene a sottoporla al comune banco di prova delle “vite di Gesù”, e farà anche meglio a non omettere l’auscultazione paziente della peculiare intenzione dell’Autore, la quale – se non dirà la verità di Cristo – rivelerà se non altro la verità (non priva d’interesse) dell’Autore e del suo pubblico… forse perfino di un’epoca e di una cultura.

[…]

Quella insondabile e straordinaria persona che è quella di cui gli uomini non sanno non parlare, e perfino discutere fino alla guerra e alla morte – quella è la matassa inestricabile che Pullman prova a sciogliere come Alessandro sciolse il nodo gordiano: la complessità della persona di Cristo (che l’Inglese si sforza di accogliere semplicemente come figura letteraria) viene “decrittata” dalla vivida fantasia del nostro Autore nella duplicazione personaggistica di “Gesù” e “Cristo”, i gemelli di Maria. Per quest’opera, l’accesso alle fonti è gestito da Pullman con grande varietà e spregiudicata “libertà” (vangeli apocrifi e canonici vengono indistintamente attinti), né si presta la massima attenzione, come vedremo, alla coerenza interna del tutto. Verrebbe subito in mente lo sfruttamento del topos veterotestamentario della gemellarità, che in effetti risulta presente, per quanto sbiadito e comunque trasformato dalla devozione del secondogenito (“Cristo”) al primogenito (“Gesù”) e dall’accentuarsi – poi fatale e tragico – della catena dei malintesi.

La crescita dei due gemelli presenta poi una complessa evoluzione dei personaggî e dei rispettivi ruoli, che proveremmo ad articolare come segue. Nella situazione iniziale (che definiremmo “canonica”) abbiamo da una parte il fratello maggiore forte e irrequieto e dall’altra il minore debole, devoto e docile – fin qui sono il calco di Esaù e Giacobbe. L’invenzione letteraria – audace, va riconosciuto – consiste poi nell’introiezione della parabola del figlio perduto in “Gesù” (“Gesù” avrebbe vissuto personalmente, in pratica, quello che è senz’altro tra i più celebri dei suoi racconti, e l’avrebbe vissuto dalla parte dello scavezzacollo in maturazione) […]. La situazione finale (che definiremmo “drammatica” o “invertita”) vede il fratello maggiore saggio e buono, che ha letteralmente «imparato l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8), mentre il fratello minore è diventato frustrato nei confronti del padre e complessato nei confronti del primogenito […].

Una falla, però, la vediamo nella coerenza interna della trama di Pullman: la pretesa direzione compositiva unitaria dei Vangeli finali, i testi “ufficiali” che sarebbero poi stati i quattro Vangeli canonici, si scontra proprio con l’evidente polivocità del Vangeli (quando non sul loro palese disaccordo). Le prime generazioni cristiane si sono guardate bene (a differenza di quelle islamiche, per esempio) dalla “tentazione concordistica” nei riguardi dei passi di difficile interpretazione nei Vangeli […].

A questo punto dobbiamo osservare le caratteristiche del Narratore, che risulta onnisciente come un dio (non pensa neanche una volta di dover anche solo inventare una ragione di plausibilità della propria versione) e vela la sua posizione con la trasparenza dell’imparzialità storica; lo si prenderebbe per il volterriano narratore di Candide, se non fosse che in Pullman non c’è una virgola di sarcasmo – e questo è senz’altro un importante segno della mutazione del Sitz im Leben, dagli albori della modernità a oggi […].

Pur nel trascorrere delle stagioni del pensiero e dello spirito, la domanda della First Quest – come può davvero Gesù essere il Figlio di Dio? – resta evidentemente inalterata nella sua formulazione finale […]. Il silenzio di Dio è lo “scandalo teoretico” della ragione debole (che insieme è debole a causa del silenzio di Dio ed è incapace di indagare fruttuosamente quel silenzio a causa della propria debolezza) […]. Il problema che era «come può un uomo de-terminato individuare l’indivisa deità?» è diventato: «Visto che Dio non pare dare segni di vita, di che parlava quell’uomo di Nazaret? Parlava davvero di Dio, Gesù?». In breve, Gesù è stato assoldato nelle schiere dei dubitanti, degli scettici, degli uomini in crisi, e ne porta il disperante gonfalone, come già s’era visto in vibranti passi di letteratura dei secoli scorsi. Se quel gonfalone non è capace, come la croce del Gesù storico, di con-fortare, nondimeno esso esprime la necessità del cuore umano di eleggere Gesù a una qualche rappresentanza – essa sa con-solare l’uomo.

Il ribaltamento dei ruoli di “Gesù” e “Cristo” avviene nei capitoli del battesimo (26), delle tentazioni (27-32) e del saluto a Giuseppe (33-34): qui – specialmente nelle tentazioni – si accumulano le idee più originali di Pullman […]. S’anticipava che tutti i ruoli di “Cristo” risulteranno essere fatalmente negativi per la storia di “Gesù”, e che la riscrittura ufficiale cui l’intero libro fa sornione riferimento (ossia il testo sacro cristiano) dovrà attribuire quegli interventi a figure letterarie che celeranno ai lettori la persona e l’opera di “Cristo”, le cui idee dovranno essere però indissolubilmente con-fuse a quelle di “Gesù” […]. Il problema non è semplicemente “d’onore” personale: “Cristo” sa che la sua gloria starà nell’unire il suo nome a quello del fratello, e che nessuno ricorderà mai più che a Betlemme nacquero due gemelli; nelle “tentazioni”, però, è riassunto esattamente il programma con cui “Cristo” intende migliorare la dottrina di “Gesù” e salvarlo dall’instabile succedersi degli eventi – come ammettere che la versione “riveduta e corretta” della storia (ossia i Vangeli) conservi le tracce di quel botta e risposta in cui “Cristo” ha avuto la peggio e ha dovuto indietreggiare a fronte bassa?

S’è già anticipato qualcosa a proposito dei poli dialettici “Chiesa-Regno”: le eco di Loisy e dei modernisti in genere ci sono, ma a ben guardare Pullman supera i modernisti in coerenza e consequenzialità: il Regno non viene rimpianto da Pullman come “ciò che avrebbe dovuto essere” – anzi, tale posizione appartiene evidentemente ad altri (64) – ma compianto come una fanciullesca illusione svanita nel disincanto del “nostro” evo. Il Regno non è da preferirsi alla Chiesa, in definitiva, perché quello non arriva e questa – tutto sommato – non è meno buona che cattiva: Pullman ha pagine dove si riconosce francamente (e quasi si celebra, sebbene per bocca dei personaggi oscuri) la grandezza della Chiesa e delle sue opere, e questo allontana la sua penna da modaiole velleità anticlericali, permettendo al lettore di sprofondare ancora più pesantemente verso le conclusioni cui giunge il “nostro” mondo. Sì, perché il nostro Autore rivela implicitamente che l’avversione alla Chiesa risulta spesso essere un’inconscia via di fuga dalle conseguenze estreme degli indizî disseminati nel mondo…

Gli indizî che invece mancano sono quelli che identificano “lo straniero”, il personaggio più misterioso del racconto – davanti al quale lo stesso Narratore non mostra di avere certezze. Di presenza e scienza impressionanti (compare e scompare a piacimento, sa tutto anche se sa mostrarsi sorpreso di qualcosa), di estrazione indefinita (lo si crede, in ordine, sacerdote, greco, alessandrino, straniero e perfino angelo): i suoi temi sembrano un mélange di teologia giovannea dapprima, poi anche paolina – è senz’altro un emblema del Frühkatolizismus. Ma chi è? La prima risposta – “satana” – appare insostenibile; non tanto perché lui stesso lo neghi (144), la qual cosa, nell’eventualità, non sorprenderebbe, ma soprattutto perché sarebbe uno sminuire la posizione di Pullman il caricarlo dell’asserzione per cui la Chiesa sarebbe “l’opera di satana” – Pullman non crede, evidentemente, l’esistenza di satana. Un’alternativa sarebbe il credere “lo straniero” un personaggio immaginario posto in essere dalla mente schizofrenica di “Cristo”; ma ci sono due circostanze (Caifa, 122-124 ; Marta, 155-159) in cui lo si vede interloquire con altri personaggi. Non resta quindi che vedere nello “straniero” la manifestazione ipostatica del Magisterium di Queste oscure materie, l’opus magnum di Pullman: “lo straniero” è “un’entità umana metastorica” caratterizzata dalla coincidenza di opposti quali l’onniscienza e il bisogno di collaborazione, la sincera compassione per il genere umano e il machiavellismo politico più sfrenato (95-96 ; 114-115).

Proprio sulla più grande delle idee originali dell’Autore, tuttavia, sentiamo di dover indugiare col nostro crivello critico: l’ipostasi dello “straniero”, quantunque misteriosa ed evanescente, non può considerarsi un “simbolo” (in senso debole) se non in modo riduttivo. Se in Queste oscure materie è ammissibile – generis causa – il ricorso a ipostatizzazioni letterarie, in un racconto che necessita e implica spazio-temporalità storica esso è letterariamente insostenibile. Come se poi non bastasse l’irrisolvibile inammissibilità di un simile personaggio, dal punto di vista teoretico essa produrrebbe un ulteriore problema per il punto di vista dell’Autore, visto che gli metterebbe tra le mani una figura concreta la quale incarnerebbe un certo ordine di idee universali (quali potere, ordine, legge, diritto, conservazione…) […].

I nodi dell’ingarbugliata matassa di Pullman vengono più nitidamente al pettine non appena la ricostruzione fittizia dei distinti componenti dell’identità cristologica cristiana si avventura su terreni sdrucciolevoli per le penne dalle idee chiare e distinte: lungo il libro si alternano infatti almeno tre differenti e irriducibili teorie dei miracoli, ciascuna riconducibile invece al suo proprio ambiente d’origine. Dapprima, infatti (ma non al principio), si rileva che i miracoli del paralitico, della moltiplicazione dei pani, e della cananea, sono chiaramente inficiati, nel racconto, da scetticismo modernista […]. Erano però gli anni Settanta del Novecento, quando si ventilava questo tipo di accomodamenti teologici sulle pagine più difficili della Rivelazione, e Pullman non sembra essere rimasto a quel tipo di pensierini consolatorî: il secondo tipo di teoria dei miracoli che si distingue nel libro è marcato da debolismo postmoderno, e anche se viene usata la figura di “Cristo” per tratteggiarne i contenuti, esso estende il proprio valore a considerazioni di carattere generale su tutti i miracoli. “Cristo” viene esortato da una prostituta dal seno devastato per via di un cancro ulceroso a operare anche lui un miracolo, facendo appunto appello alla fede nel perdono dei peccati e alla determinazione nel comandare la guarigione. Il miracolo, però, non avviene, e “Cristo” deve con vergogna ammettere: «[…] Io non sono mio fratello. Non te l’avevo detto? Perché mi hai chiesto di guarirti se sapevi che non sono Gesù?» (90). I fatti sembrano allora smentire la credenza nella genesi dei miracoli a partire (in fondo) dall’autosuggestione del credente e a qualche misteriosa somatizzazione della volontà di vita: Pullman ha un’espressione felice per tradurre il greco “exousìa” riferito a Gesù – «parla come se sapesse come stanno davvero le cose» (55), eppure non è abbastanza accorto da far sì che quest’aura carismatica si depositi soltanto su “Gesù”, senza mai sfiorare “Cristo”. Lo vediamo tra poco. Prima ricordiamo che, dopo la delusione del miracolo fallito, “Cristo” vive una scena emblematica del “cristianesimo debole”, tutto riversato nel sociale: sebbene Pullman trascuri che questo cristianesimo è destinato a fallire semplicemente per il suo deficit di trascendenza, neanche ha più il desiderio e la forza d’illudersi che una qualsivoglia ideologia umana possa trasformare il cuore malizioso dei figli dell’uomo: “Cristo” «si accorse che durante il loro goffo abbraccio il paralitico gli aveva rubato la borsa che teneva appesa alla cintura. Si sedette tremante in un angolo delle mura e pianse per sé, per i soldi cha aveva perso, per i tre uomini alla piscina di Betesda, per suo fratello Gesù, per la prostituta con il cancro, per tutti i poveri del mondo, per sua madre e per suo padre, per la sua infanzia, quando era stato così facile essere buono» (121). Ecco: l’infanzia di “Cristo” è il vero rebus del mosaico dei miracoli e delle teorie dei miracoli nel libro di Pullman – non a caso negli ultimi due miracoli citati si allude proprio all’infanzia, nel primo indirettamente, in quest’ultimo direttamente. A proposito dell’infanzia di “Cristo” (e di “Gesù”, evidentemente), il Narratore non è stato avaro di dettagli stupefacenti, mutuati dalla fantasiosa agiografia apocrifa: […] evidentemente nel caso del nostro libro le fonti del Narratore non possono coincidere spudoratamente con quelle dell’Autore, e se questi fa – per così dire – una macedonia delle filosofie e dei generi letterarî cui attinge, la stessa non può essere candidamente presentata in tavola da quello. In parole povere, Pullman potrà anche voler introdurre nel suo racconto un paio di miracoli dal resoconto decisamente naïf, e questo per mero gusto folcloristico, ma il suo Narratore non potrà assolutamente permettersi di riportare con la sua voce autorevole e inappellabile il racconto dei panni salvati in tintoria e quello dei passerotti d’argilla (18-19) – tutto senza batter ciglio – e al contempo di dubitare della trascendenza dell’exousìa con cui venne sanato il paralitico. E c’è dell’altro, ultimamente inspiegabile: i miracoli dell’infanzia sono pacificamente attribuiti a “Cristo”, tanto che questi, un giorno giunto alle soglie della maturità, vorrà propagare l’attesa del Regno (da realizzarsi col sostegno della Chiesa) proprio mediante i miracoli; i miracoli della maturità, invece, sono tutti attribuiti solo a “Gesù”, e in modo tutt’altro che pacifico, come abbiamo visto. Ora, il ricordo malinconico di “Cristo” alla piscina di Betesda basta a evidenziare la continuità del personaggio dalla fanciullezza all’età adulta, ma questa sottolineatura non fa che rendere meno comprensibile ancora la torsione e l’involuzione dello stesso “Cristo”. Se infatti “Gesù” ha il suo cammino formativo nell’esperienza degli eccessi e torna a casa maturato e convertito, come questo potrà mai spiegare il regresso pauroso di “Cristo”, un bambino buono, discreto e accorto, capace di risolvere le situazioni più irreparabili con un imprevedibile miracolo (perché è il Narratore che non lascia adito a dubbî di sorta)? […].

Ciò che resta, più o meno costantemente, è l’idea che il miracolo, come evento simbolico della storia tutta, è frutto della trasmissione e del rimaneggiamento che necessariamente, di bocca in bocca e di penna in penna, si apporta nel racconto […]. Resta un’aporia, che è l’aporia della storia di uomini dal pensiero debole: perché trascinare a vuoto un’istanza etica impraticabile, indimostrabile, infruttuosa e dispendiosa, se non esiste altro, in verità, che una storia scritta da chi ha voluto darle la forma di ciò che ha voluto credere e far credere? E più vicino al racconto, Pullman non sembra prossimo alle posizioni dello “straniero”, che egli anzi gode nel vedere contraddette a distanza da quel magnifico “Gesù” da tragedia, eppure non si direbbe che agli occhî dell’Autore lo “straniero” dica falsità, riguardo all’illustrazione degli ingranaggi della storia. Lo “straniero” dice probabilmente di Pullman più di quanto si sarebbe portati a credere perché, per quanto consequenziale si mostri l’Autore da cima a fondo del suo lavoro, egli non è disposto a concedere che l’esistenza della chiesa sia per gli uomini un male decisamente minore di quello che il suo personaggio paventerebbe nel caso della sua mancata fondazione.

In realtà, nel libro, mano a mano che l’alternativa iniziale alla Chiesa (ossia il Regno) si fa evanescente, la dottrina “storia-verità” esce vieppiù rafforzata al fine di mantenere in vita il Regno (che si manifesta inconsistente e inaffidabile), incorporandolo nella Chiesa, la quale da parte sua sovrapporrà l’organizzazione alla Provvidenza, e l’azione – “Costruisci il Regno!” – alla passione – “Spera nel Signore”.

Il momento più alto del dramma si divide nel capitolo riguardante “Gesù” nell’orto (125-131) e in quello sullo “straniero” nel giardino (144-147).

Quelle su “Gesù” nell’orto sono le pagine più intense e vibranti del libro, in cui l’Autore si riserva il proprio “cantuccio lirico”. Dalle labbra del suo “buon Gesù” si declina impietosa la parabola della verità del mondo, dal misterioso silenzio di Dio, che pro-voca la fanciullesca in-vocazione della speranza e l’illusione dell’attività di apostolato (che fallisce agli occhî di “Gesù” nel momento in cui causa accomodamento e non tensione), fino all’empia – ma in realtà s-pietata – dichiarazione dell’uguaglianza tra il silenzio di Dio e l’inesistenza di Dio […]. “Gesù” sembra tenere quella condotta noncurante, che gli sarà fatale, non per aderenza al mistero di Dio, ma proprio per disperata (e tuttavia ancora amorosa) indifferenza a un mondo in cui la presenza e l’azione di Dio risultano tanto indecifrabili da fare schiacciante il sospetto della loro illusorietà.

La scena dello “straniero” nel giardino è il dietro le quinte fattuale e teoretico della resurrezione: “l’opera di Dio” (146) viene fatta dagli uomini, vista la reticenza dell’Altissimo […]. Paolo avrebbe dichiarato in lungo e in largo la credibilità del Vangelo in quanto fondata sull’esperienza dei “gemiti inenarrabili” (Rm 8,26) dello Spirito. Proprio questo viene preventivamente descritto dallo “straniero” come un machiavellico remedium absentiæ Dei, un placebo esistenziale che non sarebbe né più né meno (in fondo) di un nome rassicurante dato all’autosuggestione collettiva che sarebbe la fede (146-147) […].

Ogni scetticismo, ogni debolismo, in fondo, non conosce la tenacia dell’attesa amorosa: nell’atteggiamento che trattiene il senso illativo dalle sue tendenze naturali, quando ossia l’altamente probabile non viene accolto per vero, il verosimile diventa ad esso – almeno su un piano puramente teorico – equivalente.

Ma il buco epistemologico riflette nella logica e nel metodo il vuoto più squisitamente teo-logico dell’opera: sballottato tra le ipotesi e i colpi di scena (tra mille “e se fosse…?” e mille “e perché no?”), il lettore conserva solo a fatica la lucidità per chiedere che ne è dell’azione di Dio asserita dal Narratore senza ambiguità. Chi ha fatto fiorire la verga di Giuseppe, e perché? Come sono volati via vivi i passerotti che un bambino aveva impastato d’argilla, e come i panni macchiati sono potuti tornare dei loro colori originali? E quando il cerchio dei miracoli sembrerebbe chiudersi attorno all’Autore per uno scacco matto mossogli dai suoi stessi pezzi, ecco l’indefinito arrocco che prolunga la ricerca oltre la cogente dimostrabilità di questo o di quello: se si ritorna, infatti, alla scena dell’Annunciazione ci si ritrova “in un cerchio di voci” note, ma dagli accenti inusuali – l’angelo è sornione e vagamente malizioso, e la disperata innocenza con cui Maria protesta anche a Giuseppe di non aver «mai conosciuto uomo» (10) sembra un’eco delle insolubili allusioni de Il sogno di Maria, di Fabrizio de Andre’. È la storia sacra nient’altro che una tragicomica farsa patita miseramente dagli inermi e riscritta da scaltri affabulatori su pagine di candore artificiale? E se la storia sacra è questo – se quanto di più alto il cuore umano è riuscito a concepire non fosse che una pietosa bugia – una miserabile truffa che baratta la sopravvivenza con la verità, che cosa sarà mai la storia secolare? Perché le guerre, i governi, la difesa degli innocenti e la lotta per la vita? Perché la poesia, gli studî, l’amore e l’atletica? La domanda risulta rapidamente erosiva, perché tocca quel tema principale che, se non trova ragioni di sussistere, lascia ogni cosa esposta a un’atematica erosione, per la quale ascoltiamo noi stessi nella voce di Eugenio Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

Ma l’istanza teo-logica non va difesa a priori, ad ogni costo, come si salvaguarda il tappo dello scarico di un lavabo: la dignità di Dio, per il credente, e quella dell’uomo, per ognuno, bastano a impedire che ci si neghi il coraggio di guardare in faccia la realtà, per quanto piccola e limitata. Reale è, infine, che l’ingegnoso divertissement di Pullman lascia troppo d’insoluto, perché i fiori artificiali saranno anche belli, ma non hanno linfa; reale è, ancora di più, che la combinazione di “Gesù” e di “Cristo” non sembra coprire un’unghia del Cristo storico, del Gesù delle comunità credenti incontrato nello Spirito e riconosciuto nei Vangeli – l’unico Cristo che la storia documenti e che, irriducibile a ogni teoria teologica o artistica, giustifica la storia cristiana più plausibilmente di ogni personaggio creato a tavolino. Il tentativo di Pullman è – a ben guardare – più interessante per gli intenti (da prendersi come sintomi di un sentire epocale, almeno in una certa regione del mondo) che per gli esiti.

Leggi il testo integrale

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
Contact: Website