Parabola di una parabola: santi eretici!
Le nostre digressioni storiche (vedi link) ci hanno portati a considerare (pur se con qualche necessaria approssimazione) alcuni punti su cui di rado si sofferma l’attenzione: come non di rado le cause religiose sposino quelle politiche (e viceversa), a riprova dell’inconsistenza di quanti vogliono che la religione resti relegata nell’ambito delle “scelte personali”; come in tempo di persecuzione diventasse urgente sapere chi e cosa era la vera Chiesa; come i legami spaziali siano stati in tempi diversi ben altri che quelli attuali (i quali, da parte loro, ci sembrano del tutto naturali e quasi impossibilitati a essere diversamente).
Riprendiamo da quest’ultimo punto: molti degli italiani al di sotto dei vent’anni, oggi, sono stati almeno una volta a Parigi, a Londra o a Berlino; pochissimi di essi sono stati a Tunisi o a Cartagine. Ugualmente, quasi tutti saprebbero dire (o almeno dovrebbero) che Lyon è in Francia, Birmingham è in Gran Bretagna e Salamanca in Spagna, ma che accadrebbe se si chiedesse se Annabà è in Algeria o in Tunisia? E non si tratta di una città qualunque… Eppure c’è appena una tinozza d’acqua tra l’Africa che i romani chiamavano “Proconsolare” e le coste italiane (le cronache delle epopee migratorie non ce lo ricordano tutti i giorni?). Quello che è successo è che l’invasione araba del VII secolo ha scavato, con l’Islam, un fossato ben più profondo e vasto del Mediterraneo tra queste e quelle coste.
Torniamo ora all’Africa del IV-V secolo, che è stata significativa per il pensiero “europeo” non meno di quanto ora lo sia la Gran Bretagna: qui troveremo adesso il “pettine”, implacabile e geniale, di Agostino, a cui verranno tutti i nodi della controversia che stiamo trattando. Avevamo accennato ai nomi di Novaziano, Novato e Felicissimo, dicendo che la loro “Chiesa parallela” (la “Chiesa del puri”, la “Chiesa di quelli-che-non-mollano”, il “campo-senza-zizzania”) è una chiesa che scorre accanto all’altra per diversi secoli. Le loro vicende sono analoghe a quelle di un altro grande difensore della purezza della testimonianza cristiana: Donato.
Ma procediamo con ordine: nel 303 (quando imperversava l’ultima grande persecuzione) i famosi “martiri di Abitinia” – quelli che la nostra Conferenza Episcopale ha citato tante e tante volte per il congresso eucaristico di Bari 2004 – scomunicarono, mentre erano ancora in prigione, i Vescovi che avevano consegnato i Vangeli ai pagani per salvarsi la pelle (chiamati appunto “traditores”)! Questa è nuova! I laici possono scomunicare qualcuno? Ammesso e non concesso che lo possano, possono scomunicare anche un Vescovo? E anche più di uno? E si fossero fermati a questo! Quegli eroi della fede scomunicarono insieme con loro tutti quelli che mantenevano la comunione con loro, ossia tutte e intere le loro rispettive chiese! Non è che sia mancato chi abbia cercato di moderare gli animi: un certo Ceciliano, un diacono, ci provò. E fu duramente accusato (da tutti i sostenitori di quegli eroici cristiani che stavano per versare il sangue) di avere la sfrontatezza di far guerra a dei santi! Quando Ceciliano fu fatto Vescovo di Cartagine (nel 311-312), lo accusarono anche di avere ricevuto un’ordinazione invalida, e di essere quindi a molti titoli un usurpatore dell’ufficio e della dignità episcopale. C’era di mezzo anche una donna, certamente molto devota, ma forse devota fino al fanatismo: pare che Ceciliano avesse rimproverato a questa certa Lucilla (una spagnola sanguigna come poche) di essersi spasmodicamente data a esaltare l’esempio di un uomo che si sarebbe “auto-martirizzato” (in pratica si sarebbe ucciso “per la gloria di Dio”). Al meschino Ceciliano viene quindi contrapposto un “antivescovo” (e così avverrà pure in moltissime diocesi!), tale Maggiolino – che però dura poco – e a questi succederà il nostro eroe, Donato.
Certo, Costantino (che aveva da poco preso il potere in Occidente) non stava a guardare: convocò un fulmineo concilio a Roma nel 313, e in questo stabilì che Ceciliano aveva ragione e Donato torto. I donatisti “presentarono ricorso”, e un nuovo concilio fu convocato ad Arles, ma le carte rimasero tali e quali. Neanche dieci anni dopo, nel 321, Costantino provò per l’ultima volta a raccomandare almeno che le due fazioni non si distruggessero a vicenda (prima l’Imperatore aveva pure provato a deporre entrambi i Vescovi, ma il compromesso non funzionò), e poi lasciò perdere la faccenda – anche perché a Oriente c’era ben altro ordine di problemi…
Questa stringatissima sintesi serve a spiegare com’è che, nonostante le persecuzioni siano sostanzialmente terminate con l’ascesa al trono di Costantino, la faccenda delle “due chiese” non s’era affatto spenta. Più di mezzo secolo dopo la morte di Costantino, di Donato e di Ceciliano, l’immenso colosso teologico e pastorale che fu Agostino d’Ippona mostra di avere ancora a che fare con loro. E Agostino capisce fin troppo bene le ragioni dei suoi avversarî: la parabola della zizzania lo ossessiona, gli pare essere l’irrisolvibile chiave di tutto il rebus – la parola “zizzania” torna nelle sue opere per più di quattrocento volte! A differenza dei donatisti, Agostino sapeva bene che l’Impero non era più il nemico della Chiesa, mentre quelli – che si ritenevano la vera Chiesa e che erano colpiti dalle tasse imperiali più dei cattolici – avevano giocoforza nel dire che l’Impero continuava a perseguitare quelli che erano veramente cristiani, e che (quindi) quelli che l’Impero non perseguitava non erano veri cristiani, si erano bensì venduti e prostituiti al potere del mondo!
Anche i donatisti, come i cattolici, avevano i loro problemi e i loro “personaggî imbarazzanti”: uno era senz’altro un certo “Ticonio”, un retore di prim’ordine che ammetteva che nella Chiesa sussistesse in qualche modo una certa doppiezza fino alla fine del mondo. I donatisti, ovviamente, scomunicarono Ticonio, e il geniale retore si trovo a mezza strada tra due fortezze sprangate e in guerra: la “discendenza di Abramo”, diceva Ticonio, è Giacobbe, e in lui già si vede la complessità di chi è insieme benedetto da Dio e truffatore del fratello, il benedetto per tutti gli uomini e il violento con Dio. Scrive Ticonio che Giacobbe «è figura della duplice discendenza di Abramo, ossia dei due popoli che lottano nell’unico utero della madre Chiesa […] [egli ha] un nome bipartito» (Libro delle regole, III,28-29).
Dall’altezza eccelsa della sua onestà intellettuale, Agostino non poteva che condividere le ragioni di questo “santo eretico”, da cui anche lui tanto avrebbe ripreso. Il grande Vescovo di Ippona viveva come un insanabile contrasto tra la sicura speranza che il discernimento finale sulla Chiesa spettasse soltanto a Dio nell’ultimo giorno e l’angosciosa consapevolezza del bisogno che tantissimi avevano di capire qual era la vera Chiesa (i donatisti ribattezzavano i cattolici che passavano nelle loro fila, come se il battesimo cattolico non fosse stato altro che acqua fresca – questo umiliava e indignava indicibilmente il senso teologico di Agostino!). Questi cercò allora di avere l’occhio più fine di quello dei suoi avversarî, e di distinguere meglio – diciamo così – tra chi sbagliava e il suo errore: con “misericordiosa severità” (Agostino era un genio nel coniare queste verità paradossali) cercò di combattere il lassismo incondizionato da un lato e dall’altro il rigorismo intollerante dei donatisti, e quindi si risolse a scomunicare o a interdire soltanto i cristiani che erano sorpresi in peccato grave e manifesto (si ricordi che ormai le persecuzioni erano finite: si parla essenzialmente di adulterio, omicidio, spergiuro…), e sempre purché non vi fosse la probabilità di uno scisma in conseguenza a questo provvedimento. Così Agostino metteva al centro della sua lettura della parabola (vedi link) la motivazione del padrone: «No, perché non sradichiate con la zizzania anche il grano». Intervenire diventava dunque non solo possibile, ma anche doveroso, se la distinzione tra grano e zizzania fosse stata evidente.
La cosa sembra funzionare, ma il cuore inquieto di Agostino sapeva bene che si trattava più di un accomodamento funzionale che di una vera soluzione del dilemma: «In questo mondo malevolo, in questo tempo perverso, in cui attraverso l’abbattimento presente la Chiesa si acquista la futura elevazione e viene istruita con lo sprone dei timori e il tormento delle sofferenze, con i disagi del lavoro e i pericoli delle tentazioni, lieta soltanto nella speranza, quando è lieta a ragione, molti malvagi sono mescolati ai buoni. Gli uni e gli altri sono, per così dire, radunati nella pescagione del Vangelo e chiusi nelle reti nuotano, senza distinguersi, in questo mondo come in un mare, fino a che si giunga alla riva, dove i cattivi sono separati dai buoni e nei buoni, come nel suo tempio, Dio sia tutto in tutti» (La città di Dio, XVIII,49).
Di più, Agostino aveva imparato, dalla propria esperienza e da quella dei tanti uomini conosciuti nell’arco di una vita lunga e intensa, che non solo i buoni sono legati ai cattivi, ma che «le pecore stesse sono la zizzania» (Discorso 73,3). Nulla impedisce che domani sia grano ciò che oggi sembra zizzania, né che domani si riveli zizzania ciò che oggi sembra grano. Ecco l’unica possibilità che Agostino indica: tollerare con tutte le forze i peccatori e con tutte le forze combattere il peccato e l’eresia. Sperando di non sbagliare…
Foto: Michael Pacher, Il diavolo regge a sant’Agostino il libro dei vizî, 1475.