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Quel presuntuoso di Gesù

Più di dieci anni dalla “Dominus Iesus”: una dichiarazione vaticana sulla presunzione di Cristo

Proprio nella nostra ultima chiacchierata abbiamo visto come il profilo del volto di Gesù tenda a emergere da ogni contesto in cui alla nostalgia di Dio sia onestamente lasciata vera libertà di parola. Non solo Joan Osborne, ma tanti e tanti e tantissimi – perfino Lady Gaga! – hanno “dovuto” scrivere e cantare di Gesù (o di suoi “collaterali”). In generale si deve soprassedere sugli esiti della ricerca, o dell’analisi, ma questo non fa che rendere la cosa – paradossalmente – ancora più intrigante: perché persone che di Gesù sanno così poco sono così visibilmente stregate dalla sua figura? Un po’ come dire che in innumerevoli profumi, diversissimi tra loro, troviamo (in varie percentuali) l’essenza cristica. Le sterminate biblioteche scritte sul Dio di Nazaret, le sculture, i quadri, le composizioni musicali – per non parlare della dedica di innumerevoli vite e di altrettante morti al Figlio di Maria – tutto questo è un po’ come una spasmodica ricerca (insieme collettiva e individuale) dell’essenza cristica. Dove la si trova? Da nessuna parte che si possa individuare e reificare: neanche in uno dei Vangeli – semmai l’armonia sinfonica dei quattro dà al cuore credente le coordinate principali per muoversi, usando un’immagine del Cantico, “nella scia del suo profumo”.

Una cosa che a tutti è dato di verificare facilmente è quanto nella fattispecie sia estesa l’ignoranza in merito alle più elementari delle dottrine cristiane su Gesù: non credevo alle mie orecchie, quando un giovane uomo m’ha chiesto se la carne di Cristo si fosse decomposta, dopo la risurrezione. Da restare senza parole! Tutto ciò è segno evidente del fatto che l’incidenza contenutistica delle varie forme di catechesi (in Italia almeno) è oggi di un’insignificanza tale da spronare a una riflessione d’urgenza. Non si tratta di approntare documenti, di scrivere direttorî catechetici (quelli che ci sono vanno benissimo – fossero applicati e seguiti!).

Anche i documenti, però, hanno i loro perché e il loro peso. Undici anni fa fu pubblicata una dichiarazione rispondente al nome di Dominus Iesus, cui ho già altre volte fatto riferimento: era il 6 agosto del 2000, nel cuore del Grande Giubileo. Io avevo sedici anni, e del documento non sentii parlare che a estate finita, tra i banchi di scuola: anche lì, però, mi stupì che giornali e televisioni dessero così tanto spazio a un semplice documento (che neanche trattava di morale sessuale, come è in generale per gli unici documenti vaticani che facciano parlare di sé). Comprai la Dichiarazione e la lessi tutta d’un fiato (anche perché è molto asciutta): i dubbî non ne uscirono che rafforzati. «Dichiarazione circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa»: questo è il titolo completo (che funge di fatto da sottotitolo). Ora, la domanda di prima – dov’è la novità? Perché fa tanto parlare di sé un testo che dice cose che i cristiani ripetono da quando sono al mondo? – viene affiancata da una nuova questione: perché hanno ritenuto opportuno (per non dire “necessario”) scrivere un simile documento?

Probabilmente non m’ero ancora reso conto di quello che annotavo in apertura circa la mole indicibile dell’analfabetismo religioso nell’italiano contemporaneo medio; ma la cosa non può ridursi a così poco (anche perché in quel caso il documento sarebbe stato di una qualche commissione della Conferenza Episcopale Italiana, e non della Congregazione per la Dottrina della Fede!). Difatti la ragione per cui Giovanni Paolo II aveva ritenuto necessario commissionare un simile testo alla Congregazione il cui prefetto era il Cardinal Ratzinger era questa: bisognava fare un punto della questione su come il più fondamentale degli asserti cristiani veniva recepito e compreso da un mondo che negli ultimi due secoli aveva visto le più dissestanti rivoluzioni politiche, economiche, culturali e sociali della vicenda umana.

Che significa, in un mondo globalizzato, che “Gesù Cristo è l’unico salvatore”? Che significa, in un mondo che offre, ormai a distanza di un click, una gamma incredibilmente assortita di offerte religiose, che “fuori dalla Chiesa non c’è salvezza”? Forse allora si dirà che la Chiesa dovrebbe “aggiornarsi” (“up-to-date”: altra espressione altamente trendy) anche su questi temi? Il documento sceglie di porsi una domanda più radicale ancora: può la Chiesa aggiornare questi temi?

Giovanni Paolo II volle che il documento venisse firmato dal Cardinale Prefetto e dal Segretario di Congregazione alla sua presenza, mentre aveva fatto apporre, in calce al tutto, l’insolita espressione: «Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, […] con certa scienza e con la sua autorità apostolica ha ratificato e confermato questa Dichiarazione, decisa nella Sessione Plenaria, e ne ha ordinato la pubblicazione». Il documento consta di ventitrè paragrafi, divisi in sei capitoli, un’Introduzione e una Conclusione. Dopo un congruo richiamo alle caratteristiche dominanti dell’attuale situazione socioculturale, i temi affrontati sono la pienezza e definitività della rivelazione di Gesù Cristo, una riflessione speculativa sul rapporto tra il Lògos incarnato e lo Spirito Santo nell’opera di salvezza, quindi la vera e propria dichiarazione dell’unicità e universalità del mistero salvifico di Gesù Cristo e, a seguire, quella dell’unicità e unità della Chiesa; il quinto capitolo è una considerazione più dettagliata del contenuto del terzo, in quanto tratta di Chiesa, Regno di Dio e Regno di Cristo; il sesto (e ultimo) tratta de la Chiesa e le religioni in rapporto alla salvezza.

A parte il lessico, talvolta un po’ tecnico, si capisce subito che il secondo e il quinto capitolo trattano questioni di grande finezza dogmatica (molto avvincenti, vi garantisco, anche se rinuncio a spiegarle qui), mentre negli altri viene illustrata in lungo e in largo la risposta alla domanda di fondo – può la Chiesa fare un update del suo asserto più fondamentale? La stessa penna che ha steso quel documento ha scritto, dieci anni dopo, parole di chiarezza adamantina: «La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti» (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, II, p. 269). Perché questo? Perché è con la risurrezione che Gesù riceve e mostra ai suoi amici la testimonianza di Dio sulla verità delle sue parole: poiché Cristo è risorto, dunque, allora sono vere tutte le sue parole, a cominciare dalle più oscure e terribili – che sono quelle che rivendicano un’origine unica, antecedente a tutte le cose umane e non umane. La fede dei cristiani ha riconosciuto in Gesù non solo il Cristo, ma il Pantocratore (= “colui che detiene su ogni cosa potere assoluto”). Le raffigurazioni canoniche del Cristo Pantocratore sono solite porre nella sua mano sinistra un volume sulle cui pagine trovano spazio le parole più presuntuose di Gesù: «Io sono la luce del mondo – è il caso del maestoso Pantocratore di Monreale – chi segue me non cammina nelle tenebre». Altre volte si legge: «Io sono la via, la verità e la vita», oppure: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore vivrà, e chiunque vive e crede in me non morirà in eterno».

Il rischio che corre l’osservatore moderno è quello di sfuggire, nella sua distrazione cronica, alla tremenda serietà di quegli asserti: invece chi raccolse pietre per lapidare Gesù, e chi sobillò infine il popolo perché venisse crocifisso, questi ne avevano colto la portata. C’è un uomo che pretende di essere determinante – egli stesso, non solo la dottrina che insegna, come Socrate, Confucio e Buddha! – per l’esistenza di ogni altro uomo, vivo, morto o futuro. Se ha torto, è solo un povero mitomane. Diversamente, chi è?

E si torna così alla ricerca dell’essenza cristica – da dove viene questo profumo? Le domande sulla risurrezione, come quella che mi è stata fatta, sono sì elementari, ma non perdono la dignità di ciò che tocca l’essenziale: chi non s’è mai chiesto, in fondo, dove sia la carne di Cristo? È folgorante l’espressione di Benedetto XVI con cui si spiega che la risurrezione di Cristo (diversamente dalle altre narrate nei Vangeli) non è la rianimazione di un cadavere, ma «l’evasione verso un genere di vita totalmente nuovo, verso una vita non più soggetta alla legge del morire e del divenire, ma posta al di là di ciò, una vita che ha inaugurato una nuova dimensione dell’essere uomini» (Gesù di Nazaret, II, p. 272).

E infine la Conclusione chiude la fittissima catena di riferimenti scritturistici e magisteriali (soprattutto del Vaticano II) con una citazione della Fides et Ratio di Giovanni Paolo II (n. 70) che rivendica alla presunzione di Gesù (e a quella che di lui ha la Chiesa) il segreto dell’essenza cristica: «Il mistero cristiano, infatti, supera ogni barriera di tempo e di spazio e realizza l’unità della famiglia umana: “Da diversi luoghi e tradizioni tutti sono chiamati in Cristo a partecipare all’unità della famiglia dei figli di Dio […]. Gesù abbatte i muri di divisione e realizza l’unificazione in modo originale e supremo mediante la partecipazione al suo mistero. Questa unità è talmente profonda che la Chiesa può dire con san Paolo: ‘Non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio’ (Ef 2,19)”».

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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4 Comments on Quel presuntuoso di Gesù

  1. Stefano Scogna // 22 Maggio 2011 a 13:30 //

    Giovanni,
    oggi e questa settimana non ho proprio un secondo per commentare decentemente (tutto è relativo) l’articolo di Claudia (attendo un tuo commento) ed il tuo. Questo mi dispiace perché vorrei condividere i convincimenti che ci accomunano, le divergenze che non ci separano e “la scia dei profumi” che ci sollevano l’animo da idee altre.
    Nella mia ignoranza in materia mi sorge una domanda: in che modo Gesù ci salverebbe dai peccati e quali siano questi peccati “autentici”. Credo profondamente che, perdonami il gioco di parole, fosse in “buona fede” e che non fosse affatto un mitomane.
    Non penso però che si possano condannare in eterno (<>) coloro che trovandosi nello status di uomini e donne si dovessero comportare da mentecatti. Perché mai si permetterebbe l’esistenza di un genere umano capace di ignominia collettiva e singolare per poi sentenziare milioni/miliardi di soggetti (ontologicamente e storicamente limitati e contestualizzati) in eterno? Non è più semplice creare entità divine che moltiplichino amore che a nullo amato amar predona in un vortice amoroso che si amplifica ed espande in eterno fino ed oltre l’inimmaginabile (addirittura Dio/Dea avrebbe potuto anche moltiplicarsi divinamente in una sorta di tripudio plurigemellare). Dio/Dea era stanco/a di essere “solo/a” nell’Essere e nell’Amore? Traboccava d’Amore e voleva renderci partecipi di questa infinitudine? Bene. Come? Creando uomini e donne di tal fatta (lasciamo stare quelle poche centinaia di migliaia capaci di “elezione relativa”)? Chi può, da essere umano, dire cosa Dio/Dea voglia o non voglia? La fede è un modo di sentire col “cuore”, di credere ad alcune parole e scritti, di interpretare il creato e di sentirne i profumi. Al momento il mio “cuore” non riesce ad amare la Fonte, il mio modesto intelletto non riesce ad interpretarne lo “status” né tantomeno il “télos”. Un figlio riuscirebbe ad amare una madre che l’abbia abbandonato nel mondo sapendone le ragioni. Ora si dà il caso che la nostra Madre (che ci ha “abbandonato” in uno status ontologico non divino e, per ironia della “sorte”, autocosciente di questo limite) sia da sempre nelle migliori condizioni possibili immaginabili per dare spiegazioni univoche e rassicuranti e, soprattutto, senza intermediari che appartengano al genere umano. Eppure…
    Un abbraccio.

    • Stefano Scogna // 22 Maggio 2011 a 13:46 //

      Last, but not least… Probabilmente mi dirai che c’è stato un Intermediario anzi, nella peggiore delle ipotesi e considerando sua Madre, almeno due Intermediari che appartenevano in modo del tutto unico ed irripetibile al genere umano e che dovremmo ri-partire da lì… Io non riuscirei a farlo.
      Aiutino? Chiamo un amico (i.e. il tuo cellulare), chiedo al pubblico o vado per un 50%-50%? …

      • Naturalmente no: c’è da tener sempre presente che la mediazione di Cristo, pur generando innumerevoli altre mediazioni analogiche, è irriducibile a quella di chiunque altro – anche a quella, particolarissima, della Madre di Dio. Vero che anche lei appartiene al genere umano in un modo stra-ordinario, ma non c’è possibilità di confondere le peculiarità dell’umanità di Cristo (la cui persona è tuttavia divina) con quelle della persona di Maria (che è in tutto e per tutto umana). Vedrò di riprendere questi temi, appena potrò.

    • Hai ragione, e non in poco.
      Anzitutto nel fatto che la terminologia “classica” della catechesi cristiana suona oggi (per pure contingenze e per precise responsabilità – e omissioni – nella didattica catechetica) quasi del tutto insignificante. Penso che, in merito, questo nostro piccolo cammino stia ponendo i suoi modesti mattoni (continueremo).
      In secondo luogo, non ci crederai ma gran parte del tuo intervento sintetizza mirabilmente (anche se non coscientemente, forse) le problematiche più urgenti della teologia cattolica tra il II e il III secolo. La tua sembra, fatte le debite proporzioni, una pagina di Origene. Ne…

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