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Status quo?

Sguardo d’insieme sul perché, sul percome e sul perquando dell’annuncio cristiano oggi

Ma allora, scusate, chi ce lo fa fare? Insomma, se è la stessa Santa Sede a riconoscere nei suoi documenti che Dio salva anche chi non conosce Gesù Cristo (e che non è ragionevole pensare diversamente), perché dovremmo affannarci tanto a farlo conoscere? Stormi di nordafricani e di asiatici approdano alle coste d’Italia e d’Europa, spesso senza aver conosciuto il cristianesimo se non tramite grottesche caricature; fiumi di slavi scorrono verso l’Italia e l’Europa occidentale, il più delle volte appartenendo a una confessione cristiana che non si trova in piena comunione con la cattolicità che fa riferimento a Roma; comunità evangeliche e pentecostali spuntano qua e là ovunque come funghi e, pur non essendo caratterizzate da un necessario distintivo di estraneità linguistica, culturale, nazionale, necessariamente immettono nel tessuto sociale “preesistente” degli elementi di rigetto del portato culturale che un tempo (non molto tempo fa) si sarebbe correntemente detto “comune” perfino ai non credenti.

Così può capitare che, per le vie di un paese della fascia collinare che introduce alle cime dell’Appennino, la “tradizionale” processione del Corpus Domini si trovi davanti improvvisamente i membri di una comunità ecclesiale evangelica, disposti a mo’ di plotone d’esecuzione nell’atto di leccare gustosi coni gelato con ostentata indifferenza: si badi, questi e quelli sono tutti compaesani, cresciuti insieme per le strade, nelle scuole e forse anche in parrocchia. Del resto s’è già visto che lo stesso rito “tradizionale”, per le vie di Pescara, non manca di riservare le scene di signore che attraversano trafelate le file della processione, spingendo il passeggino e abbigliate di bikini, maglietta e pareo, per non perdere le ultime ore di sole in spiaggia. Qui non c’era neanche premeditazione, non c’era ostilità e non c’era probabilmente quella stretta rete di conoscenze che in un paese fa sì che ciascuno sappia esattamente ciò che succede in pubblico e che tutti sappiano ciò che fa ciascuno; eppure “all’improvviso” un atto che si credeva pacificamente significativo in pubblico (le infiorate, le trapunte ai balconi, le saracinesche abbassate a metà settimana!) viene contraddetto, misconosciuto, smentito da quelli che (apparentemente) non avrebbero una sola ragione per ignorarne il significato. Così la pavidità dei grandi numeri (legge costante della storia della società!) si riversa sugli argomenti demagogici della non integrazione degli stranieri e del rischio che essi costituiscono per la nostra società. Senza voler entrare nel merito delle statistiche sulla piccola e media criminalità (i cui dati comunque potrebbero spiegarsi altrimenti che con banalità xenofobe), qualcuno sa spiegare senza far ricorso a luoghi comuni a che cosa gli stranieri dovrebbero integrarsi, e da che cosa sarebbe riconoscibile la peculiarità della nostra società?

E tutto questo che c’entra con Gesù Cristo e con l’opportunità o il dovere di annunciare il suo Vangelo? C’entra tutto, visto che (per una strana coincidenza?) l’attuale stato della società è uno specchio impressionante dello stato della pluralità delle offerte religiose – e ovviamente i due versanti hanno delle implicazioni reciproche. Dunque che la badante moldava di cui l’anziano di casa ha bisogno, perché i figlî lavorano tutto il giorno e i nipoti studiano in altre città, porrà una serie di concreti problemi quando chiederà dove può andare a messa: rispondere con indifferenza alla sua domanda non è liberale apertura di mente (come da Augias in giù disonesti ammannitori di popolo amano pontificare), ma lo stesso che rispondere facendo spallucce alla questione di cosa identifica la nostra società. Perché? Facile: se non sai rispondere a lei è perché non sai cosa la tua società propone, ovvero come si dispone alla convivialità delle differenze. Senza nemmeno rendercene conto, finiremmo in un lampo in una “convivialità delle indifferenze”: viene uno a casa mia e mi chiede se posso offrirgli una tazza di tè, io faccio spallucce sorseggiando svogliatamente il mio caffè, e rispondendo che – se vuole del caffè – controllo se ne resta qualche goccia.

Dal punto di vista più strettamente teologico, invece, la cosa è altrettanto chiara: l’annuncio di Gesù Cristo va fatto sempre e comunque, quantunque Dio possa salvare anche quelli che non hanno conosciuto e professato il nome di suo Figlio. Perché? La prima ragione è che tutti quelli che vengono salvati, anche se non hanno conosciuto Gesù e non hanno professato la fede in lui, vengono salvati da lui e mediante lui, perché tutti gli uomini sono stati fatti per lui. La seconda ragione è che credere in Gesù non “serve” semplicemente per andare in paradiso, ma più “mondanamente” per sapere perché si nasce, perché e come si può vivere e si può morire: la fede strappa l’uomo alla tirannia del caso e della necessità, per l’arbitrio dei quali tutto il resto del mondo (la parte che non conosce la libertà) sembrerebbe potersi comunque giustificare, ma senza senso. Una terza ragione, più succinta ma tutt’altro che meno significativa, sta nel fatto che Gesù stesso ha chiesto che tutti i popoli venissero resi suoi discepoli (l’abbiamo detto, no, che presuntuoso?): così Gesù ha mostrato di rendersi ben conto delle prime due ragioni, e di saperle sintetizzare con un semplice comando.

Se siamo riusciti a capire di nuovo che la divulgazione e la recezione della buona notizia che c’è un Gesù Cristo, al mondo, è la leva per cui i moti dell’umanità vengono indirizzati e armonizzati, abbiamo così salvato la memoria delle sterminate falangi di missionarî cristiani, spesso già coronati dal Signore stesso con la tremenda gloria del martirio: se il cinema s’è interessato alle réducciones gesuitiche del Paraguay e alle missioni presso i pellirossa irochesi, questo non è perché l’avventura e gli ideali hanno sempre la loro presa sugli uomini (I diari della motocicletta non è quella pietra miliare del cinema che è Mission, e tantomeno è stato visto e apprezzato quanto Manto nero), ma perché niente sugli uomini esercita più fascino di Dio. Ciò che dura, ciò che permane prima e oltre di tutte le cose, in cui e per cui sono fatte tutte le cose significative, dalla momentanea e invisibile poppata al neonato fino alla cupola di San Pietro, passando per la nascosta carità all’angolo della strada – in cui Cristo, eternamente nascosto nel povero, dona la sua gratitudine a chi gli dà una moneta.

Il cardinal Kasper disse, facendo nel 2008 il punto dei recenti sviluppi in campo ecumenico (qui non c’entra il vero e proprio dialogo interreligioso): «Soltanto poggiando sulla fede comune, è possibile dialogare su quelle che sono le nostre differenze. E ciò deve avvenire in modo chiaro ma non polemico. Non dobbiamo offendere la sensibilità degli altri o discreditarli; non dobbiamo puntare il dito su ciò che i nostri interlocutori ecumenici non sono e su ciò che essi non hanno. Piuttosto, dobbiamo dare testimonianza della ricchezza e della bellezza della nostra fede in modo positivo ed accogliente. Dagli altri ci aspettiamo lo stesso atteggiamento». Che vuol dire? Anzitutto che il molle qualunquismo nell’affrontare il dialogo ecumenico è fratello gemello dell’indifferente ignoranza della propria identità religiosa, e che né l’uno né l’altra sono utili a una pacificazione che voglia continuare a crescere in Cristo. Come si fa a non incappare nel fondamentalismo? Ecco dove Kasper ha dato una dritta ai dicasteri pontificî (parlava di un rescritto della Congregazione per la Dottrina della Fede) utilissima a tutti i livelli del dialogo ecumenico – ovvero della vita di fede, di cui quello è parte imprescindibile –: Ri-cercare, ri-comprendere, ri-formulare, ri-proporre la più autentica bellezza delle proprie dottrine ecclesiologiche, della propria sacramentaria.

È un po’ come l’apologo della scommessa del sole e del vento: Kasper suggerisce che convincerci a vicenda del buono che c’è nelle nostre reciproche posizioni sarà tanto più semplice e spontaneo quanto più il nostro impegno sarà volto non a girare il coltello nelle piaghe altrui, ma a mostrare che il meglio delle nostre posizioni potrebbe risultare un lenitivo (o addirittura un toccasana) per quelle piaghe. Gesù, il presuntuoso, l’aveva detto: «Uno solo è il vostro maestro, il Cristo, e voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8). Così anche chi, tra i fratelli, ha ricevuto l’incarico di confermarli nella fede e di aver cura della pace tra tutti, anche quegli potrà imparare dagli altri i semi della parola che il Maestro ha lasciato fermentare nello Spirito: il documento di Ravenna, del 2007, mostra che le Chiese Ortodosse hanno sostanzialmente riconosciuto – ad esempio – «un livello universale della Chiesa ed hanno ammesso che anche a questo livello esiste un Protos, un Primate, che può essere soltanto il Vescovo di Roma secondo la taxis della Chiesa anticar». Questo però non chiude la partita, né la partita sarebbe chiusa se tutti i cristiani del mondo, semplicemente, venissero a Roma a stringere comunione visibile col Papa: il Maestro della Chiesa le ha dato le coordinate essenziali per non perdere di vista che la via per non dover temere il futuro e non aver paura di crescere.

Talvolta succede, inoltre, che la paura di crescere sia combattuta con la fretta di crescere: terribile illusione, temibile tentazione, perché nessun bambino sa cosa si pensa “da grandi” fino a quando – se ne accorge di punto in bianco un giorno – non è grande. Certi teologi “liberali” (come amano definirsi) non hanno avuto e non hanno remore a servirsi dei pensieri più acerbi del modernismo per rendere rapidamente “commestibile” la dottrina della fede. La traccia è giusta, certo, l’abbiamo detto, ma sullo svolgimento c’è da avere molte riserve: dire che i miracoli di Gesù rientrano in un “genere letterario” (formula magica esegetica), che misteri come l’ascensione di Cristo vanno intesi come “un altro modo di dire la risurrezione”, che la stessa risurrezione “non è un evento storico”, tutto questo non rende accessibile il senso del dogma e delle Scritture (anzi, lo rende oscuro), non avvicina le Chiese e le comunità ecclesiali (anzi, ne divarica le distanze) e infine spesso non è altro che un semplice cumulo di sciocchezze (una sciocchezza scritta da un autore importante non è altro che una sciocchezza).

Bisognerebbe proporre un nuovo genere di “esercizio spirituale metropolitano” per chi vuole crescere nella fede (ah, neanche questo è un optional per il cristiano): la ricerca continua dei legami tra i misteri della fede, le faccende ecclesiali e le questioni mondane. Se ci si rendesse conto di quanto il Tomos Agapis abbia a che fare con la domestica moscovita che uno prende a servizio, di quanto la Dignitatis humanæ abbia da suggerirmi sulle modalità di approccio ai filippini che assumo nel mio ristorante, i sindacati avrebbero molto meno lavoro, e le chiese sarebbero molto meno distanti. Tutto insieme. Bisogna far presto – e aspettare che sia ora.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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