Verso la religione che ci vorrebbe
Ci siamo, è iniziata la grande Novena di Natale. Peccato che in molti posti venga snobbata come “pratica popolare”, o come “paraliturgia” (per esprimere con parola ricercata un concetto sommario): anzitutto va detto che come non tutte le liturgie sono uguali in dignità, così non sono uguali in dignità tutte le paraliturgie. Che voglio dire? Ci sono diverse veglie, nell’anno liturgico, e alla vigilia di ogni domenica e di ogni solennità è consentita la celebrazione di “liturgie vigiliari”, ma nessuna di esse è paragonabile con la grande veglia di Pasqua, che difatti Agostino chiama “madre di tutte le veglie”. In modo analogo, ci sono varie paraliturgie processionali, ma nessuna di esse è paragonabile con quella del corpus Domini; allo stesso modo, ci sono distinte novene devozionali, ma quella di Natale riveste tra tutte un ruolo sovraeminente.
Perché? Rispondere a questa domanda ci riporta alle considerazioni che facevamo in apertura del nuovo anno liturgico, a proposito dell’Avvento (in particolare) e del tempo liturgico (in generale). La celebrazione del tempo che trascorre è infatti un dato altissimo ed evidentissimo (ma trascurato, probabilmente perché “quotidiano”) dell’irriducibile differenza sussistente tra il genere animale e la specie umana: il tempo dell’animale è un non-tempo, in quanto ogni animale non umano usufruisce di certi tipi di memoria, i quali però non arrivano a includere il ricordo della nascita e la proiezione della morte – non riuscendo a compiere l’identificazione di genere tra sé e gli altri. Il tempo umano invece si distende come “dilatazione dell’anima” tra un passato e un futuro che – per definizione – non ci sono più, o non ancora: l’unico istante di questa dilatazione di cui l’uomo ha un relativo possesso è il cosiddetto “presente”, che è praticamente un confine immaginario tra due mondi inesistenti. Così è come vivono gli uomini, ed è per questo che solo gli uomini hanno capito ed espresso (fin dai calendarî astronomici preistorici) che il tempo tras/corre (preciso a scanso di equivoci che la divisione della parola non è sillabica, bensì etimologica!).
Anche se non ci pensiamo e non lo esprimiamo quotidianamente in questi termini, tale tras/correre compone inavvertitamente gran parte della nostra vita, e per il fatto che non lo abbiamo sotto controllo diventa spesso difficile a sopportarsi: il susseguirsi degli impegni, la sensazione reiterata di non sapere cosa si è esattamente fatto (e prodotto) nella giornata; per dirla con Ligabue, «il sabato la spesa, il giorno dopo in chiesa, e sei un po’ nervoso, e un motivo ci sarà». Il problema, però, non è né nel sabato né nella chiesa, semmai nel loro indistinto affastellamento. Avete presente quando alla sera di un giorno che s’era aspettato ci si sorprende di come sia tras/corso in un lampo, e in fondo non diversamente da un qualunque altro giorno? Sì, una vera delusione, che però nella stragrande maggioranza dei casi non viene presa “per le corna”, e così se ne resta “incornati”…
Una novena (come già un triduo, ma molto di più!) è appunto la preparazione all’evento atteso, pensata e curata in modo da non lasciar l’amaro in bocca col tras/correre dell’evento. Proviamo a dirlo meglio, perché una novena è ancora di più del mero raccogliersi in vista dell’evento: è piuttosto afferrarne i lembi e trascinarli a sé quasi a far durare di più il suo tras/correre. In un certo senso, allora, potremmo spiegarci non solo la novena, ma il suo atteggiamento fondamentale – che è la devozione – come una sorta di moviola dell’anima, ossia (visto che il tempo è la dilatazione dell’anima) un esercizio di rallentamento del tempo, perché lo si possa gustare meglio. A questo punto sì che vale la pena essere concentrati, e che essere raccolti piuttosto che distratti fa la differenza. A questo punto è impossibile che la spesa del sabato e la liturgia della domenica siano messe sullo stesso piano, e viene quindi estirpata la confusione che Ligabue stesso avvertiva, pur senza sapervi rinvenire una causa.
Noi la causa la sappiamo, e grossomodo l’abbiamo illustrata; ma perché la novena di Natale avrebbe un posto particolare tra le altre novene? Beh, tanto per cominciare osserviamo che il punto culminante dell’anno liturgico – ossia il sacro Triduo Pasquale – non ha una novena, dedicando già per antichissima tradizione un’intera settimana del periodo preparatorio alla Pasqua alla commemorazione dettagliata, sul piano storico-misterico, dell’opera della Redenzione. Attenzione, però, perché se nell’ultimo giorno della novena di Natale (ossia alla Vigilia) si termina il Cantico delle Profezie cantando che «nel giorno di domani sarà distrutta l’iniquità della terra…», con ciò stesso si sta istituendo una precisa connessione tra l’evento che tras/corre a Natale e quello che tras/corre a Pasqua; liaison che giunge perfino a identificare i due eventi, pur senza confonderli.
Cos’ha, quindi, di decisamente nuovo, il Natale? Sostanzialmente questo: la religione del Natale di Dio era proprio ciò di cui l’uomo aveva bisogno, ma al tempo stesso ciò che mai l’uomo si sarebbe potuto inventare. Non possiamo dilungarci ora in considerazioni di ordine storico, che dovrebbero per forza di cose essere frettolose (e quindi semplicistiche), quindi seguiremo la via di un’altra considerazione: tutti i popoli e tutte le culture hanno sempre fatto e fanno festa, è vero, ma solo nella tradizione giudeo-cristiana il riposo religioso è legato a un riposo divino – ragion per cui c’è un modo di riposare (in greco si usa l’ebraismo “sabbatìzein”, e alcuni autori traducono “sabbato” con due b, per non confondere) che è nientemeno che imitazione di Dio.
Ora, che Dio riposasse lo si poteva a stento immaginare, ma che in questo suo riposarsi egli ci comandasse di fare altrettanto, e di farlo per onorare il suo riposo divino (quindi in espressa relazione a Dio!), questo era fuori dal raggio di ogni teologia razionale: la teologia razionale neoplatonica, che cerca di conformarsi al divino raggiungendo la quiete perfetta, è quella che però non può accogliere l’attività di Dio, la quale occupa – con buona pace di Plotino, di Porfirio e di Proclo – sei giorni su sette!
Ciascuno può riflettere e considerare che cosa volessero quindi dire i tentativi giacobini (peraltro ripresi da certe istanze dell’ONU negli anni ’70 del Novecento) di riformare il ritmo del tempo pubblico su una scala di dieci giorni invece che di sette: di certo nessuno negherà il vantaggio che la finanza internazionale (ossia i sempre meno sempre più ricchi) avrebbe da un così grande incremento di produzione, ma non sarebbe irragionevole considerare anche il tentativo di scardinare (sgangherando la settimana) la congiunzione tra il riposo umano e il riposo divino, quindi la ri-creazione teologale che nella festa si produce.
La festa è infatti l’enzima che controlla la secolarizzazione (un processo radicalmente cristiano!) trattenendola dal degenerare in secolarismo: è quindi “naturale” (ma solo in un certo senso) che il “mondo” opponga una resistenza crescente alla catena che lo fa essere sempre più se stesso e sempre più veloce, ma che non lo abbandona al deragliamento nel vuoto.
Intendiamoci: non si tratta di un semplice fatto di calendario, come se dovessimo giustificare quante date rosse abbiamo e quante nere. La questione concerne piuttosto l’impatto sociale che l’una e l’altra visione del tempo comportano: l’anomalia del settimo giorno (che non “doveva” esserci e c’è, per il solo fatto che un Dio ha voluto farci sapere che lavora e che si riposa) interrompe in modo imprevisto l’anonima e di per sé autosufficiente alternanza di giorni e notti, significando con ciò l’inoculazione dell’elemento di Grazia nelle dinamiche di diritti e doveri.
Che vuol dire? Che la festa, quando è tale, sospende e sovverte la preoccupazione fondamentale dei giorni feriali, che corre sul binario “cosa ti devo? – cosa mi devi?”. Nulla: non mi devi nulla, e di per sé anch’io non ti dovrei nulla, ma questo sarebbe ancora un inferire la conclusione allo stesso modo di prima, solo partendo da una premessa con una variabile mutata. Il fatto è che Dio – che di certo non ci doveva nulla, e a cui noi dovevamo così tanto che non potevamo neanche pensare seriamente a pagarlo – ha voluto fare irruzione nel ritmo alternato di diritto e dovere, scomponendone l’alternativa implacabile. Quest’irruzione è la Grazia, ed è ciò che si festeggia a Natale.
Ecco perché la Novena di Natale è la regina delle novene: è la più corposamente strutturata dal punto di vista liturgico (si pensi solo alle splendide “Antifone O”), è la più dedita alla contemplazione, è gioiosa e distende sul piano “popolare” della vita cristiana l’incanto acuto del Mistero di Dio che liberamente s’incarna.
L’unica religione che poteva davvero convincerci. L’unica che non potevamo inventarci.