Il tempo dell’oro

Come si fa – nell’epoca in cui “prezzo” e “valore” sono stati appiattiti sullo striminzito concetto di “costo” – a capire quanto vale Dio? Come si fa a tradurre in un vocabolario liofilizzato come il nostro che il sangue di Cristo è stato versato «in mundi pretium»? E sì che l’italiano ne avrebbe, di parole, ma esse stesse (le parole) si guardano in tondo smarrite, come se non si riconoscessero più alla loro voce: Dante può ben asserire d’aver congiunto il suo sguardo «col valore infinito», ma a dispetto dell’apparente chiarezza delle parole nessuno studente lo capirà senza la scrupolosa consultazione di un buon apparato di note.
Perché? Si potrebbero fare interessanti digressioni sull’impoverimento del concetto di “valore” in sé, come pure sul crescente discredito in cui versa quello di “sacrificio”: la conseguenza è che si spende sempre di più, in termini di energie umane, per ottenere sempre meno. Una terribile inflazione dello spirito.
Il tempo dell’oro, però, che è il tempo di Natale, non si trova esposto a contraddizioni soltanto nella nostra epoca: esso è intrinsecamente contraddittorio, come Gesù stesso, perché è precisamente la posizione della domanda sul valore di Dio.
Quanto vale, dunque, Dio? Paolo azzarda una risposta: «Voi certo conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9). Quel fariseo della libertà che fu Paolo risponde, insomma, riferendosi a due registri concettuali contrapposti: da un lato una discesa – dalla gloria alla miseria – dall’altro una salita – dalla miseria alla gloria. Si tratta delle stesse coordinate che abbiamo nel mistero pasquale, e la cosa non dovrebbe più sorprenderci, se abbiamo capito come il Natale ricalchi, anticipi e in qualche modo già ricapitoli l’esito della missione di Cristo.
Il Natale, però, è “festa contemplativa” per eccellenza, e le diverse dimensioni del mistero di Cristo appaiono nella ferma immagine del presepe ancora più strettamente giustapposte che nello scorrere dei drammatici eventi del Triduo pasquale. Quasi tutta apparenza, è vero, visto che i misteri del tempo di Natale si estendono fino a includere il Battesimo di Gesù e l’inizio della sua vita pubblica secondo il Vangelo di Giovanni, ossia il segno di Cana: la diapositiva del presepe, tuttavia, ci rimanda l’immagine di una mangiatoia in cui il Re del cielo se ne sta «al freddo e al gelo», nello stesso istante in cui un’immensa schiera di secoli e di intelligenze già riconosce che «this, this is Christ, the King». Tutti i canti di Natale, ad ascoltarli con attenzione, non scelgono mai uno solo di quei due registri, bensì restano sospesi tra l’uno e l’altro: in nessun altro modo, del resto, è possibile stupirsi del mistero di Cristo. Talvolta si sente dire che nelle recenti cristologie si porrebbe maggiormente (e più giustamente, intendono) l’accento sull’umanità di Cristo, rispetto a quanto si facesse “un tempo”: in realtà, una simile ricostruzione non saprebbe indicare un solo autore ortodosso, una sola fonte autorevole in cui si ravviserebbe questo preteso sbilanciamento, e si contrappone, in pratica, semplicemente all’errore opposto, che è quello di chi s’illude di conservare la brace dello stupore soffocando la vividezza dell’umanità di Cristo.
Giotto e Cimabue avevano sapientemente mutuato dall’arte orientale cristiana l’uso dell’oro per indicare la regalità della presenza divina: nelle icone, tuttavia, l’oro indica ben più che una “presenza divina nel mondo mondano” – l’oro delle icone è fondamentale, onnicomprensivo, avvolgente. Esso è lo sguardo divino in cui viene data “la versione vera” dei fatti e delle persone. Ecco perché, in sostanza, le icone si venerano e i quadri no. Spaccando i concetti con l’accetta, dovremmo dire che anche l’oro, nel passaggio dall’oriente all’occidente, subisce una sensibile secolarizzazione, che non era visibile, all’epoca, che come “naturalizzazione”. Ecco che, allora, il Figlio di Dio in braccio alla Madre perde le fattezze di un uomo adulto e guadagna le morbide rotondità che si addicono a un neonato: l’oro resta, sì, come il segno attenuato di una gloria nascosta, che però viene chiaramente indicata perché all’equilibrio tra naturalismo e dogma s’indirizzi la stupefatta attenzione dell’osservatore.
Immaginiamo la celeberrima Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano (1423) senza oro: i broccati e le ricercatezze nei particolari non basterebbero, da soli, a togliere alla scena la didascalia centrale – quella di un vecchio rincitrullito che, ancorché re, si prostra davanti a una puerpera e bacia i piedi di un bambino in una stalla. È nota l’illustrazione moralistica che Gentile pone nell’allegoria dei tre Magi, laddove il più vecchio è prostrato e bacia i piedi del Verbo incarnato, quello di mezza età comincia a chinarsi, il più giovane resta ultimo, con la schiena ben eretta. Molto più dell’asserto della ribalda arroganza della giovinezza, è soprattutto interessante che – a quanto pare – l’oro non è visibile neanche ai protagonisti dell’immagine, altrimenti tutti e tre insieme avrebbero ugualmente compreso quanto fosse necessario prostrarsi.
L’oro è il colore di Dio, del resto, da molto prima di Gentile, di Cimabue, di Giotto, e perfino delle più antiche delle icone russe. Nel libro dell’Esodo sono riportate le norme secondo le quali fu fabbricata l’Arca dell’Alleanza, e si può vedere che non si fece economia quanto all’oro: «Faranno dunque un’arca di legno di acacia: avrà due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di larghezza, un cubito e mezzo di altezza. La rivestirai d’oro puro: dentro e fuori la rivestirai e le farai intorno un bordo d’oro. Fonderai per essa quattro anelli d’oro e li fisserai ai suoi quattro piedi: due anelli su di un lato e due anelli sull’altro. Farai stanghe di legno di acacia e le rivestirai d’oro. Introdurrai le stanghe negli anelli sui due lati dell’arca per trasportare l’arca con esse. Le stanghe dovranno rimanere negli anelli dell’arca: non verranno tolte di lì. Nell’arca collocherai la Testimonianza che io ti darò. Farai il coperchio, o propiziatorio, d’oro puro; avrà due cubiti e mezzo di lunghezza e un cubito e mezzo di larghezza» (Es 25,10-17).
Proprio la continuità, evidenziata nella discontinuità, tra Mosè e Gesù, ha permesso di applicare l’immagine dell’Arca a Maria e alla Chiesa: se il corpo di Gesù è lo strumento dell’alleanza nuova ed eterna, la donna che l’ha ospitato, nutrito e custodito (Maria), e la comunione viva del mistero in cui esso si conserva e si dona agli uomini (la Chiesa), sono da equipararsi all’Arca, pur essendo entrambe infinitamente più preziose e degne di una cassa d’acacia rivestita d’oro puro.
Maria e la Chiesa sono in effetti due entità distinte, eppure per il legame che il corpo di Cristo mantiene con esse costituiscono “una cosa sola”: ecco perché Carlo il Calvo chiese ai monaci di Corbie se il corpo di Cristo conservato e adorato dalla Chiesa nell’Eucaristia fosse da considerarsi lo stesso «vero corpo di Cristo, nato da Maria Vergine». Dalla formula con cui la questione fu posta nacque il celeberrimo inno eucaristico (Ave verum, musicato peraltro anche dal divino Mozart), ma dalla questione stessa sorse una ridda di trattati dal titolo simile, che si sforzava di capire come e in che modo si mantenesse l’identità tra quel corpo di Cristo (quello della mangiatoia) e questo corpo di Cristo (quello del tabernacolo, che all’epoca neanche esisteva). Uno degli autori di questo periodo (tale Berengario di Tours) propose una lettura estremamente debole di questa continuità: disse, in pratica, che il pane eucaristico non è altro che un’allegoria dell’unico corpo di Cristo, ossia quello «de Maria Virgine natum».
Contro Berengario, le cui tesi sarebbero state riprese più diffusamente all’alba della modernità, si levò una massiccia levata di scudi, ma vi furono, un po’ dopo, altri eretici che si spinsero ben oltre, fino alla negazione del valore dello stesso corpo biologico di Cristo: i Catari erano in realtà soltanto gli ultimi (per il momento) epigoni di quello sciagurato spiritualismo – i cui prodromi erano stati denunciati già nei libri del Nuovo Testamento – per cui non si sarebbe neanche dovuto credere che Cristo avesse avuto un vero corpo.
Chi si levò, tra gli altri, a fronteggiare gli errori di Berengario e dei Catari? Ma san Francesco, naturalmente! S’intende, il vero san Francesco, certo non quella caricatura new age che ne ha fatto Zeffirelli. L’apologia del Poverello d’Assisi – rigorosamente documentata nelle fonti – si svolse tutta nel segno dell’oro. Criticando senza appello la sciatteria nella celebrazione liturgica, il pressappochismo nell’istruzione sacramentale e nella preparazione spirituale dei fedeli, nonché il disdoro in cui veniva conservata la riserva eucaristica, scriveva ai chierici: «Tutti coloro, poi, che amministrano così santi misteri, considerino tra sé, soprattutto chi li amministra illecitamente, quanto siano vili i calici, i corporali e le tovaglie, dove si compie il sacrificio del corpo e del sangue di lui. E da molti viene collocato e lasciato in luoghi indecorosi, viene trasportato in forma miseranda e ricevuto indegnamente e amministrato agli altri senza discrezione» (1Ep. Ad Clericos, FF 207a-209a).
Rivolgendosi ai Custodi dell’Ordine, poi, Francesco si è mostrato ancora più chiaro, specificando inequivocabilmente cosa intendesse per “decoro”, “onore” e “discrezione”: «Vi prego, più che se riguardasse me stesso, che, quando vi sembrerà conveniente e utile, supplichiate umilmente i chierici che debbano venerare sopra ogni cosa il santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo e i santi nomi e le parole di lui scritte che consacrano il corpo. I calici, i corporali, gli ornamenti dell’altare e tutto ciò che serve al sacrificio, debbano averli di materia preziosa. E se in qualche luogo il santissimo corpo del Signore fosse collocato in modo troppo miserevole, secondo il comando della Chiesa venga da loro posto e custodito in un luogo prezioso, e sia portato con grande venerazione e amministrato agli altri con discrezione» (FF 240-244).
Torna e ritorna, sotto la penna di Francesco, l’espressione latina “in pretiosis”, e tornerà fino agli ultimi scritti, fino al testamento spirituale: «E faccio questo [onorare i sacerdoti, ndr] perché, dello stesso altissimo Figlio di Dio nient’altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue suo, che essi [ossia i sacerdoti, ndr] ricevono ed essi soli amministrano agli altri. E voglio che questi santissimi misteri sopra tutte le altre cose siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi. E i santissimi nomi e le parole di lui scritte, dovunque le troverò in luoghi indecenti, voglio raccoglierle, e prego che siano raccolte e collocate in luogo decoroso» (Testam. 6-12, FF 176).
Un san Francesco inedito? Per i più, forse; si tratta in realtà di un san Francesco censurato – perché vero, e perché inservibile ai fini della propaganda di denigrazione pauperistica della Chiesa di Gesù Cristo, la quale ha sempre cercato di non farsi serva del denaro ma non ha mai rinunciato a servirsi della “disonesta ricchezza” con santa scaltrezza.
Ora mi direte: «Era proprio necessario, a Natale, questo sfogo apologetico? Non bastava cantare le delizie della Notte Santa?». Sì, vi rispondo, penso non sia inutile ricordare – dati alla mano – quanto il Poverello di Assisi tenesse a sottolineare in oro la portata rivoluzionaria del suo amato presepe: «Guardate l’umiltà di Dio!», ricordava commosso a chi lo ascoltava. E l’umiltà non è commovente – non è altro che quella detestabile filosofia dei perdenti che Nietzsche rigettò! – se non è l’umiltà di Dio.
Il Natale dunque è il tempo dell’oro, e alla luce dell’oro “invisibile” di Gentile si rivelano nella loro faziosa ottusità anche le critiche di quanti vorrebbero che la Chiesa rinunciasse a circondare le specie eucaristiche di splendore e decoro: davvero invisibile è l’oro di Dio – Cristo stesso – che si pone tra gli uomini come «segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,34-35).