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L’unica vera rivoluzione è permanente: conservare l’ordine

Da quando è stato inventato lo “stress da ripresa”, l’imbarazzo che prende un certo numero di predicatori davanti al ritorno del colore verde nella loro chiesa è condiviso da ampie fasce del mondo lavorativo: in tanti si chiedono che cosa sia in fondo cambiato, tra “prima” e “dopo”, e in che cosa l’enfasi degli augurî di “buon anno nuovo” non andrebbe ritenuta sproporzionata. In chiesa capita meno di domandarsi se abbia avuto senso celebrare la memoria liturgica del Natale del Redentore, e tuttavia l’insidia può tornare in forma più raffinata.

«Qual è il tema, adesso?»: è un modo di dirlo, ad esempio. Insomma, quando si entra in una chiesa e si vedono i paramenti viola, bianchi o rossi è ben chiaro a tutti che c’è qualcosa in evidenza. Si faticherebbe non poco, invece, a raccontare da dove salta fuori il colore verde, che il rito romano ha visto sbocciare nei secoli insieme con diversi altri (più di quanti se ne usino oggi), e soprattutto quale sia il suo senso. Il viola rimanda alla penitenza e/o all’attesa; il dorato alla gloria e alla maestà; il rosso al sangue della testimonianza… qual è il tema del verde?

«Il vero Natale comincia lunedì»: si legge ciclicamente qua e , sulla soglia del termine del Tempo di Natale (e nel travaso telematico che qualcuno vorrebbe considerare una religione neanche si accordano i nomi dei firmatarî degli scritti!). Proprio perché è vero, che il mistero del Natale non è confinato nei pochi giorni del Tempo di Natale, non c’è motivo di sentenziare iperbolicamente che quello lì non sarebbe “il vero Natale”.

Per iniziare a mettere a fuoco la natura del Tempo ordinario può essere utile considerare, anzitutto, che i Tempi forti (Avvento, Natale, Quaresima, Pasqua) sono i tempi del “di più”. La cosa interessante è che, non perché questi sono i tempi del “di più”, quello che non si può contare tra questi è il tempo del “di meno”, altrimenti ciò che non è “tempo fortenon si chiamerebbe “tempo ordinario”, bensì “tempo debole.

Ci occupiamo tra poco di capire cosa voglia dire “ordinario”: prima c’è da chiarire perché quello che non è tempo del “di più” non possa essere detto tempo del “di meno”, e perché quello che non è tempo forte non possa essere detto tempo debole. Come è spesso, in simili frangenti, paradossi del genere si spiegano solo contestualizzandoli nella loro cornice naturale, che è la creatura umana. Chiunque si rende conto come – quando si dice alla propria moglie o al proprio marito: «Oggi voglio amarti più di ieri» – non si sta intendendo deprezzare l’amore del giorno prima, ma desiderare, invocare e perciò stesso misteriosamente attuare un surplus, un eccesso.

Il fatto, in fondo, è semplicemente che l’uomo non può mai contentarsi di quello che ha e, come il Faust di Goethe ha eternato per tutta la storia, questa è a un tempo la radice della dannazione dell’uomo o della sua beatitudine, perché da tutti i beni di cui l’uomo gode egli chiede “di più”, ma solo da uno – quello che in filosofia si chiama “il sommo bene”, ossia Dio – questa richiesta può essere soddisfatta. Una creatura eccessiva, l’uomo, che semplicemente smette di essere se stessa quando recita la parte del cinico soddisfatto – nient’altro che una cupa maschera quotidiana sopra la disperazione che fa di schiere di persone carne da psicanalista.

Feuerbach aveva scritto che è l’uomo ad aver fatto Dio a sua immagine e somiglianza, e non viceversa: tuttavia questa tesi (che silenziosamente permea le convinzioni di molti) non è più dimostrabile dell’altra, perché l’esperienza della presenza di Dio, da cui promana la fede, non è affatto meno reale (anzi!) di quella dell’assenza di Dio, da cui non necessariamente promana l’incredulità. In buona sostanza, se l’uomo è una creatura eccessiva lo deve al suo creatore, che è pure un Dio eccessivo: insaziabile quanto alla sete (sul “sitio” di Madre Teresa non si riflette ancora abbastanza) ma mai sfiorato dal timore di esaurirsi.

Perché non ha questo timore, Dio – timore che è tipico degli uomini, e cioè di persone in fin dei conti consapevoli di non essere “serene, infinite, immortali” – non ha neppure necessità di “aggiornarsi”: «Gesù Cristo è lo stesso – ammette chi lo conosce – ieri, oggi e sempre» (Eb 13,8). Gli uomini sanno, invece, che il loro anelito al bene sarà in parte realizzato (in un’ipotesi tutto sommato rosea) e in parte frustrato, e che alcuni dei “propositi per l’anno nuovo” verranno messi in cantiere, mentre di altri si perderà perfino il progetto. Quando gli uomini parlano delle loro ambizioni di santità dicono la verità più intima del loro cuore, ma poiché non possono negare a nessuno che questa verità è incrostata di contraddizione hanno bisogno di impegnare ciclicamente il loro “di più”, preparandosi a essere indulgenti con l’immancabile flessione del proposito, che andrà rinsaldato continuamente.

Ecco perché avevamo detto molto tempo fa che la ciclicità dei tempi liturgici, che calzano il cuore dell’uomo come un guanto, è una ciclicità elicoidale: mentre si gira, su due dimensioni, progressivamente (e con sforzi in apparenza sproporzionati al movimento effettivo) si ascende nella terza.

Così è più chiaro perché il tempo “non forte” non si chiami “debole”, bensì “ordinario”: esso implica e domanda lo sforzo quotidiano (e “anonimo”) di tenere la rotta, senza rimettere mano agli strumenti con cui la si è stabilita. Non si può rendere peggio il senso di “ordinario” che con “banale”, perché invece la radice di “ordinario” è “ordine” – la parola per cui un antico e saggio proverbio dice: «Conserva l’ordine, e l’ordine ti conserverà».

Tutt’altro che stasi, tutt’altro che vegetazione: il tempo ordinario è impegnativo come lo è per un ragazzo alla scuola guida tenere l’automobile ferma in salita senza assicurarla col freno. Una quiete apparente, dunque, che invece si ricava dal confronto costante (e talvolta perfino duro) tra energie contrapposte all’opera in noi. Ci vuole tempo, per capire “qual è il tema” del tempo ordinario, perché l’ordine è una rivoluzione che non fa rumore, ma che non richiede meno sangue delle altre.

 

 

Immagine: Giovanni Segantini, L’aratura, 1890. Dettaglio.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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