Intellettuali traditori
«Quello che mi colpisce quando osservo i cristiani d’oggi è la superficialità del loro modo di vedere e di pensare. […] Mounier diceva che i cristiani erano caduti nella trappola grossolana del denaro; io direi che oggi essi cadono nella trappola grossolana della superficialità» (J. Daniélou, La cultura tradita dagli intellettuali, 81). “Oggi” era il 1972, quando Jean Daniélou pubblicava “La culture trahie par les siens”, che compare per la prima volta in edizione italiana per i tipi della Lindau. Non è certo la prima volta che la giovane editrice torinese si fa mecenate di grandi cammei misconosciuti, ma va detto che il quarantennale “ritardo” di quest’edizione italiana raccoglie in sé un particolare tempismo, come è sempre degli effetti di opere dal genio tanto profetico da essere destinato a rimanere a lungo inascoltato, prima di fruttificare.
Come raccogliendo il grido (inascoltato anche quello) di Paolo VI, che nel 1967 chiudeva la Populorum Progressio affermando che «il mondo soffre per mancanza di pensiero», Daniélou scrisse: «E io desidero, e mi auguro, che in occasione di un futuro sinodo – dopo che già, come era doveroso, si è trattato della giustizia e della pace nel mondo – si parli della cultura e dei problemi dell’intelligenza nel mondo» (83). Non sembra che, ad oggi, un simile sinodo abbia ancora visto la luce, ma è innegabile che a questo preciso scopo sono protese le forze di una Chiesa che già nel 1982 istituiva un Pontificio Consiglio della Cultura (qui il recente sito), i cui pontefici hanno prodotto documenti quali la Fides et ratio e la Caritas in veritate, che ha raccolto i non credenti a colloquio con sé nel “Cortile dei Gentili” e li ha voluti per interlocutori perfino nei proprî eventi interreligiosi.
C’è dunque un sottile, ma persistente, filo di continuità tra tutti questi pronunciamenti, e così lo definiva il cardinal Daniélou, proprio nell’anno in cui veniva eletto accademico di Francia: «L’intelligenza dell’uomo ha […] la capacità di esplorare gli abissi dell’essere, non ha altra misura che la totalità dell’essere. Questa dignità dell’intelligenza è quello che fino ai nostri tempi la Chiesa ha coraggiosamente difeso contro ogni opposta corrente di pensiero. […] In questo campo la funzione della Chiesa […] è decisiva. Sarebbe tragico se fosse lei a rinunciarvi» (82-83).
Ma cosa vuol dire l’accorato appello di Paolo VI al termine della Populorum Progressio? Il Pontefice scriveva: «Noi convochiamo gli uomini di riflessione e di pensiero, cattolici, cristiani, quelli che onorano Dio, che sono assetati di assoluto, di giustizia e di verità: tutti gli uomini di buona volontà. Sull’esempio di Cristo, Noi osiamo pregarvi pressantemente: “Cercate e troverete” (Lc 11, 9), aprite le vie che conducono, attraverso l’aiuto vicendevole, l’approfondimento del sapere, l’allargamento del cuore, a una vita più fraterna in una comunità umana veramente universale» (85). Perché mai il Papa si rivolgeva infine a “tutti gli uomini di buona volontà”, se ha cominciato col nominare dapprima i “cattolici” e i “cristiani”? Semplicemente questo: la carenza di pensiero attanaglia tutto il mondo e tutti gli uomini che vi abitano (quantunque non si avvedano di questa radice dei loro disagî), ma in siffatta circostanza ai credenti, e in particolare ai cristiani, specialmente ai cattolici, sta la capacità (e su di essi incombe la responsabilità) di offrire l’antidoto per la crisi: «Per arrivare a questo, per tenere vivi questi valori umani di civiltà, valori nei quali è espressa la parte migliore dell’uomo, bisogna conservare quello senza di cui non riuscirebbero a sussistere, cioè la fede. Se la fede vacilla, tutto il resto crolla. Per noi oggi, il problema fondamentale è quello della fede» (84).
Sulle nostre pagine è stato recentemente illustrato cosa s’intenda per “dilemma di Böckenförde”, e come il problema per il quale la Chiesa pretende di poter offrire l’unica vera soluzione sia diagnosticato e denunciato anche da intellettuali non legati a “interessi confessionali”: per questo motivo è ugualmente impensabile che i cristiani si tirino fuori dalla sfida, e che gli altri possano riuscire ad affrontarla felicemente senza il loro contributo.
Qual è dunque questo contributo imprescindibile, che i cristiani non possono perdere senza smettere di essere tali e che al contempo gli altri non possono non accogliere pur col solo lume della ragione? È il principio di realtà, ovvero il fatto che la realtà sussiste innanzi all’intelligenza dell’uomo come una datità su cui è possibile intervenire ma che è in ultima analisi indisponibile. È noto l’adagio marxiano tratto dall’XI tesi su Feuerbach, adagio che recita testualmente così: «I filosofi hanno interpretato il mondo in diversi modi; è però questione di cambiarlo». Due problematiche sono interconnesse in una simile dichiarazione, originate ultimamente da un unico presupposto: la prima è che i sistemi filosofici sono essenzialmente diversi, e la seconda è che un sistema filosofico è inutile fintanto che non cambia il mondo; il presupposto di entrambe queste problematiche è l’insussistenza di una realtà oggettiva con cui l’essere umano può (e deve) confrontarsi onestamente. Per questo motivo: 1) una filosofia vale l’altra, perché in fin dei conti nessuna vale niente; 2) l’impegno e la responsabilità storica del pensatore cominciano esclusivamente quando questi “scende in campo” e si adopera per l’elaborazione di un piano etico-politico.
Evidentemente non c’è alcun male nel darsi alla politica, o non sarebbe stato proprio Paolo VI a definire l’impegno politico “la più alta forma della carità”; la politica però è arte distinta dall’attività pura e propria dell’intellettuale, e una confusione tra le due sarebbe tanto sciagurata da distruggere facilmente l’una e l’altra. Per questo motivo Daniélou scriveva: «Sartre basa il suo ateismo sull’affermazione che “il mondo è assurdo”. E ha ragione: se il mondo è assurdo, Dio non esiste. Ma tutta la dimostrazione poggia sul primo enunciato. Ebbene, nessun matematico, nessun fisico dirà mai che il mondo è assurdo. E allora bisogna rovesciare la formula di Sartre e dire: se il mondo non è assurdo, Dio esiste» (22).
Per questo motivo la questione della fede è di capitale importanza per la risoluzione dell’aporia riconducibile a espressioni come quella del “dilemma di Böckenförde”. Il saggio di Daniélou annuncia programmaticamente di voler sviluppare, nelle prime pagine, gli importanti spunti che proprio Paolo VI (seguitando nel Credo del Popolo di Dio a meditare sul grido di chiusura della Populorum Progressio) aveva suggerito alla Chiesa e al mondo: «All’inizio del suo “Credo” […] Paolo VI indica tre correnti di pensiero che gli sembrano contrarie all’intelligenza autentica. Secondo la prima – che potremmo chiamare positivismo –, soltanto quanto riguarda il campo delle scienze positive può essere oggetto dell’intelligenza come attitudine a conoscere la verità. […] La seconda considerazione di Paolo VI riguarda lo sviamento del pensiero che in ogni presa di posizione vede solo il proiettarsi di esigenze personali, senza alcuna possibilità di una verifica obiettiva. […] La terza critica di Paolo VI tocca un punto che è forse l’atteggiamento più attuale: lo storicismo» (6-7).
Positivismo, dunque, esistenzialismo e storicismo sono le tre radici perverse in cui si declina ultimamente il rifiuto dell’intelligenza di fronte alla sfida della realtà: l’ormai celebre “dittatura del relativismo” – denunciata dall’allora cardinal Ratzinger nell’omelia del funerale di Giovanni Paolo II – non è che un concetto sintetico di questa analisi. Non è certo un caso che il Credo del Popolo di Dio sia stato pronunciato in occasione del termine dell’Anno della Fede, e che Benedetto XVI abbia indetto per l’anno presente un nuovo Anno della Fede. Porta Fidei, il documento d’indizione di questo grande momento ecclesiale (che va ad aggiungersi a quelli sopra ricordati), si richiama esplicitamente al giubileo conciliare (che avrà inizio l’11 ottobre), ma non manca di far menzione dell’importante precedente del 1967-1968: certamente Paolo VI colse l’occasione del centenario della persecuzione neroniana (e dunque del martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo), ma Benedetto XVI nota smaliziatamente che furono «i grandi sconvolgimenti che si verificarono in quell’Anno» a rendere «ancora più evidente la necessità di una simile celebrazione» (4).
La temperie culturale sessantottina, insomma, il tragicomico maître à penser dell’assurdo e tutto il suo seguito (che più che “spiegarsi” “dà a pensare”, come molti degli eventi del Novecento) sono stati per la Chiesa un campanello d’allarme delle urgenti voragini che si aprono repentine in seno alla cultura contemporanea. Col ripudio del principio di realtà, con la diffusione a macchia d’olio di un nichilismo che è insieme pratico e teorico (proprio perché il pensiero non sa più distinguere genuinamente tra prassi e teoria).
Urgeva – e urge tuttora – una gioiosa e vigorosa riscoperta della responsabilità storica degli intellettuali (in fondo un dilemma che la vera filosofia, da Husserl a Ricœur, ha vissuto anche nel Novecento), che riconosca anzitutto «che cosa rappresenta per una società la cultura letteraria» (8), giacché in essa si esplica la sapienza trascendente dello spirito umano, che l’esprit de géométrie non può ridurre a sé ma che non può esimersi dal riconoscere, se è onesto. La road map tracciata da Daniélou in La cultura tradita dagli intellettuali ripercorre poi, come da programma, le insidiose trappole disseminate nella società contemporanea dalle tre deviazioni denunciate da Paolo VI – e lo fa mostrando una così chiara e penetrante conoscenza delle problematiche originanti e connesse, una così placida capacità di accogliere il buono di ogni istanza culturale, che durante la lettura (e dopo) ci si sente rinfrancati in una “gaudiosa certezza” (77-80). L’invito supremo rivolto agli intellettuali, così rincuorati, è quello a imbracciare di buona lena la sfida di una riformulazione – nello spirito della philosophia perennis – della metafisica.
Di tutto questo la fede è fondamento, prova e gioioso splendore: «La fede, ben lungi dal distruggere l’intelligenza, la libera dalle sue incertezze, le permette di slanciarsi gioiosamente e arditamente in quel suo meraviglioso compito che è l’esplorazione dell’essere. […] In questo campo il tradimento dei cristiani è un tradimento perpetrato verso l’uomo» (79).