Traduzione: tormento o opportunità?

Settembre. Le scuole riaprono i battenti e migliaia di studenti in tutta Italia tornano alle prese con una delle più crudeli torture che la fantasia umana abbia mai escogitato: la traduzione. Versioni dall’inglese, dal francese, dallo spagnolo, dal tedesco … addirittura dal latino e dal greco. Ché poi imparare come trasferire un pensiero da una lingua moderna all’italiano o viceversa potrebbe anche trovare una sua utilità (magari per viaggiare e fare nuove amicizie sul web), ma esercitarsi tanto su lingue morte è da folli! Quando mai capiterà di incontrare un Aristippo ateniese o un Sempronio romano con cui scambiare quattro chiacchiere?
Sorridi, lettore, pensando a quante volte hai ascoltato o pronunciato tu stesso questi facili luoghi comuni sull’effettiva utilità degli studi classici. Essi sono ormai sempre più bistrattati, in nome di un profitto immediato che si vorrebbe pretendere persino dall’istruzione, disconoscendo il valore della cultura pura e sincera, quella che educa l’animo, plasma il pensiero e nobilita la ragione. Se solo dedicassimo un po’ del nostro tempo alla lettura e all’ascolto di ciò che gli antichi hanno ancora da dirci (e ne avrebbero di cose da insegnare!), lasciando da parte i tanti intrattenimenti frivoli e persino diseducativi che calamitano la nostra attenzione, la nostra vita, il nostro modo di pensare e di affrontare i problemi, personali e comunitari, ne ricaverebbero enorme giovamento. Esistono ottime traduzioni moderne, facilmente reperibili in liberia o sulla rete, che mettono la sapienza antica e medievale a disposizione anche di coloro che non conoscono il latino e il greco. Certo, la legge del mercato – che obbliga a selezionare solo quei testi in grado di vendere un cospicuo numero di copie – esclude dalla pubblicazione tante opere, pure notevoli e interessanti, che rischierebbero di essere dimenticate se nessuno conoscesse le lingue antiche e decidesse di confrontarsi con il paziente (e – ammettiamolo! – a volte noioso) esercizio di traduzione.
Ma, se pure qualcuno continuasse a non comprendere l’utilità di un simile sforzo e dispendio di tempo, potrebbe forse trovare personale soddisfazione pensando che proprio quegli antichi autori, che tormentano oggi le giornate di liceali e universitari, un tempo erano vittime della medesima tortura. Nelle scuole dell’Impero romano, i futuri Cicerone, Varrone, Seneca, Gerolamo, Agostino e tanti altri eccellenti rappresentanti della cultura pagana e cristiana, si cimentavano nella nobile arte del tradurre. I maestri assegnavano loro – proprio come accade oggi – versioni di brani della letteratura greca in lingua latina, e suscita il sorriso immaginare che un paio di millenni fa nelle aule scolastiche risuonassero le stesse lamentele, sbuffate e sbadigli che assalgono oggi tanti ragazzi!
Sant’Agostino tratteggia un ritratto assai godibile di se stesso che, scolaretto, era costretto a imparare il greco, detestabile al suo palato, e a leggerne gli autori. Riflettendo da uomo ormai adulto su questa sua insofferenza, egli scrive: «Ma perché detestavo tanto la letteratura greca, che pur canta i medesimi argomenti [di quella latina, che al contrario egli adorava]? Anche Omero è un abile tessitore di storielle del genere, dolcissimo nella sua vacuità. Eppure al mio gusto di fanciullo riusciva amaro» (Confessioni I,14). Avremmo mai immaginato che quel gran capoccione di Agostino, proprio lui che produsse 1030 scritti (non basterebbe una vita a leggerli tutti!), molti dei quali di una profondità che disarma il comune lettore e mette in crisi il più abile dei pensatori, vescovo, retore, teologo, filosofo, apologista, moralista, e chi più ne ha più ne metta, proprio lui da ragazzo fosse costretto a tradurre i poemi omerici in latino e trovasse in questo una tale difficoltà da provare una così profonda insofferenza verso tutta la letteratura greca? Egli non era allora in nulla dissimile dai nostri studenti, né le sue lagnanze dovevano suonare differenti da quelle che essi stessi oggi sollevano.
Ma quale poteva essere la ragione di tanta antipatia? Lo apprendiamo dalle sue stesse parole: «Certo era la difficoltà, la pura e semplice difficoltà di apprendere una lingua straniera, ad aspergere come di fiele tutte le squisitezze greche di quei racconti favolosi. Non conoscevo infatti nemmeno una di quelle parole, e non mi si dava tregua, per farmele imparare, con la minaccia di tremendi castighi» (Ivi). Con la lucidità di un adulto ormai lontano dalle antiche fatiche, l’Ipponense esprime una finissima e modernissima intuizione pedagogica: la costrizione e la minaccia rendono detestabili anche gli insegnamenti più interessanti e gradevoli. Le difficoltà che egli incontrava nell’apprendere il greco erano dovute in larga parte alla diversità di una lingua che non gli veniva insegnata dolcemente da genitori e nutrici, ma inculcata insistentemente e «senza tregua» dai maestri (e sappiamo che gli insegnanti di allora, a differenza di quelli attuali, avevano il ceffone facile e del tutto autorizzato!).
Povero Agostino! E poveri Cicerone, Varrone, Seneca e tutti gli altri! Proprio loro, che sono oggi l’incubo di tanti giovani traduttori, un tempo erano condannati alla medesima tortura. E non illudiamoci che gli studenti di lingua greca ne fossero dispensati! Scrive infatti Agostino: «Credo che Virgilio sia lo stesso per i fanciulli greci, quando sono costretti a studiarlo come io Omero» (Ivi).
Insomma, cari studenti, la versione è una tortura ben più antica e diffusa di quanto possiate immaginare! Eppure, se guardata in profondità, più che un tormento potrebbe rivelarsi un’opportunità. È ancora Agostino a fornircene la prova. Negli anni Sessanta del IV secolo, Atanasio, vescovo di Alessandria, scrisse la biografia dell’eremita egiziano Antonio. Opera straordinaria, perché straordinario era il protagonista e straordinarie le sue gesta: un’epica e interminabile lotta contro il demonio e i suoi infiniti tentativi di far recedere il monaco dal suo proposito di servire il Signore e Lui solo, rinunciando al mondo e alle sue seduzioni. Un modello mai superato di combattimento spirituale, che molta parte dell’Occidente avrebbe probabilmente ignorato se, in un tempo in cui la conoscenza del greco era così in crisi (lo attesta Agostino stesso), qualcuno non ne avesse fatto la traduzione. Così, a distanza di pochi anni dalla morte del santo, Agostino ebbe l’opportunità di leggere in versione latina la Vita di Antonio, che tanto peso ebbe nel suo personale cammino di conversione (di questi argomenti abbiamo parlato: segui il link).
Cosa sarebbe stato di Agostino se, per la sua giovanile negligenza, fosse stato privato di quella opportunità (e cosa sarebbe stato di tanti che, come lui, in Occidente conobbero quell’opera preziosa solo grazie alla traduzione latina), è difficile immaginarlo. Ma certamente gli effetti benefici che la diffusione di quella biografia produsse in Occidente sono merito di qualcuno che, a differenza di tanti altri, con maggior pazienza aveva atteso all’esercizio della traduzione ed era divenuto tanto abile da padroneggiare a sufficienza entrambe le lingue dell’Impero. Monito e incoraggiamento anche per noi.
* Immagine: Jan Van Scorel (1520), Sant’Agostino a scuola
Questo ci riguarda proprio molto da vicino, parla a moltissimi di noi: confrontarsi con le lingue antiche oggi è un po’ come confrontarci con un “altro da noi”…e da secoli questa pratica ha in effetti molto da insegnare. Bello!