L’ora dell’ira
La questione dell’ispirazione dei libri sacri è ben più complessa di quanto siamo riusciti a dire nelle scorse settimane, ma anche più di quanto si possa dire «con miglior voce»: come abbiamo intravisto, la faccenda dell’ispirazione s’intreccia con quella della canonicità dei libri, ma le due problematiche restano distinte. Del resto, anche sul contenuto della Rivelazione abbiamo avuto bisogno di chiarirci per bene le idee, nel corso della Storia, e non siamo affatto arrivati a un traguardo definitivo. Quello che però abbiamo senz’altro acquisito è che ciò che Dio ha voluto rivelare ispirando le Scritture e la loro trasmissione è senza dubbio alcuno la verità, ma relativa alla nostra salvezza. Ecco un’altra questione che si dà per scontata, e che invece ha una storia complicatissima fatta anche di incomprensioni e sofferenze: la Bibbia non sbaglia mai – giusto, ma in che senso “non sbaglia”? Magari ne parleremo più in là (forse non troppo), però ciò che già riteniamo per assodato è che la Scrittura è uno dei mezzi che Dio offre agli uomini per la traversata dell’esistenza mondana – è preziosa e limitata quanto una zattera per un naufrago – e non è in se stessa la rivelazione completa di tutto ciò che Dio ha da dire (e da dare) agli uomini. «Infatti – spiega Paolo – quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono nel cuore dell’uomo, queste Dio ha preparato per coloro che lo amano, e a noi sono state manifestate nello Spirito» (cf. 1Cor 2,9).
Tutta la Scrittura, quindi, contiene in sé come le tracce della provvisorietà, del “bagaglio di viaggio”, destinato a essere “messo via” una volta giunti a destinazione. Così nel suo ultimo libro la Bibbia riporta «le visioni delle cose che devono manifestarsi rapidamente» (cf. Ap 1,1), e tra queste visioni c’è anche l’apparizione di un misterioso libro sigillato con sette sigilli (Ap 5-6), e che nessuno riesce ad aprire e leggere, finché arriva l’Agnello (che però è chiamato “leone” appena un versetto prima) e lo apre. Al dischiudersi dei sigilli si accompagna una serie di cataclismi, che rivelano come tutte le cose siano collegate a quello che l’Agnello fa.
Ora non è possibile intrattenerci sull’Apocalisse, un libro che – come diceva Girolamo – «contiene tanti misteri quante parole», ma nella solennità di Cristo Re dell’Universo ha il suo valore ricordare come anche la struttura del Libro-di-libri è tutta protesa (come già anche l’Antico Testamento dei LXX, che pure in questo ha fatto scuola) verso l’adempimento delle promesse finali di Dio. Le parole e i gesti di Gesù Cristo, che costituiscono una liturgia cosmica destinata a eternarsi oltre ogni tempo e ogni spazio, costituiscono il perno del significato che la Chiesa dà alla “regalità di Cristo”.
La Solennità di Cristo Re dell’Universo fu istituita al termine del 1925, con la lettera enciclica Quas primas di Pio XI: in quell’atto solenne il grande Papa montanaro sfoderò il proprio spiccato senso pastorale, allorché spiegò pianamente come «[…] più che i solenni documenti del Magistero ecclesiastico, hanno efficacia nell’informare il popolo nelle cose della fede e nel sollevarlo alle gioie interne della vita le annuali festività dei sacri misteri, poiché i documenti, il più delle volte, sono presi in considerazione da pochi ed eruditi uomini, le feste invece commuovono e ammaestrano tutti i fedeli; quelli una volta sola parlano, queste invece, per così dire, ogni anno e in perpetuo; quelli soprattutto toccano salutarmente la mente, queste invece non solo la mente ma anche il cuore, tutto l’uomo insomma».
C’è di più: il Papa non fece mistero, infatti, dei dolorosi motivi che lo avevano portato ad accogliere le preghiere di cardinali e vescovi, che vedevano necessaria una simile istituzione: «D’altra parte si ricava da documenti storici che tali festività, col decorso dei secoli, vennero introdotte una dopo l’altra, secondo che la necessità o l’utilità del popolo cristiano sembrava richiederlo; […] In tale ordine di cose dobbiamo ammirare i disegni della divina Provvidenza, la quale, come suole dal male ritrarre il bene, così permise che di quando in quando la fede e la pietà delle genti diminuissero, o che le false teorie insidiassero la verità cattolica, con questo esito però, che questa risplendesse poi di nuovo splendore, e quelle, destatesi dal letargo, tendessero a cose maggiori e più sante. […] Così, quando erano venuti meno la riverenza e il culto verso l’augusto Sacramento, fu istituita la festa del Corpus Domini, e si ordinò che venisse celebrata in modo tale che le solenni processioni e le preghiere da farsi per tutto l’ottavario richiamassero le folle a venerare pubblicamente il Signore; così la festività del Sacro Cuore di Gesù fu introdotta quando gli animi degli uomini, infiacchiti e avviliti per il freddo rigorismo dei giansenisti, erano del tutto agghiacciati e distolti dall’amore di Dio e dalla speranza della eterna salvezza».
Perché, dunque, «se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società»? Per via dell’influsso devastante che la secolarizzazione (Pio XI scriveva “laicismo”) apportava sulla società umana (Nella Ubi arcano Dei si analizzano più puntualmente i dettaglî di tale influsso), «si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso».
Nella visione di Pio XI, poi, l’intima connessione tra politica ed etica porta necessariamente a riconoscere che dove la regalità di Cristo è misconosciuta la pace domestica viene «profondamente turbata dalla dimenticanza e dalla trascuratezza dei doveri familiari», «l’unione e la stabilità delle famiglie» vengono infrante e tutta la società si ritrova intimamente minata.
Sono dunque in gioco, letteralmente, «i diritti di Dio» (!), i quali soli producono la prosperità degli uomini.
Ora, la solennità di Cristo Re è stata collocata – nella riforma liturgica seguita al Concilio Ecumenico Vaticano II – al termine dell’anno liturgico, quasi estremità eccentrica di un circolo la cui ripetizione non è mai meramente identica a se stessa: le letture che ognuno dei tre cicli annuali prevede si nutrono sempre, nelle ultime settimane prima di Cristo Re, di ampî passi profetici in cui lo sguardo viene gettato al di là della Storia. Così l’intenzione originaria di Pio XI – affatto contraddetta! – risulta arricchita di quella che Benedetto XVI ha chiamato «la vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora “sino alla fine”, “fino al pieno compimento” (cfr Gv 13,1 e 19,30)». Possiamo certamente comprendere e condividere, in religioso ossequio dell’intelletto e della volontà, quanto Pio XI intendeva dicendo: «Ma quando i fedeli tutti comprendano che debbono militare con coraggio e sempre sotto le insegne di Cristo Re, con ardore apostolico si studieranno di ricondurre a Dio i ribelli e gl’ignoranti, e si sforzeranno di mantenere inviolati i diritti di Dio stesso». Possiamo tuttavia comprenderlo meglio, e confermare l’attualità della Quas primas, grazie a Benedetto XVI, il quale ci ha ricordato che «l’impegno quotidiano per la prosecuzione della nostra vita e per il futuro dell’insieme ci stanca o si muta in fanatismo, se non ci illumina la luce di quella grande speranza che non può essere distrutta neppure da insuccessi nel piccolo e dal fallimento in vicende di portata storica» (Spe Salvi 35).
Che significa, infatti, “militare con coraggio e sempre sotto le insegne di Cristo Re”, in un contesto in cui la fede e i suoi fenomeni sono largamente irrisi o (peggio) ignorati? L’enigma si scioglie solo al fuoco della contemplazione della regalità stessa di Cristo, che – lungi dall’essere negata – va invece presa nella sua drammatica serietà. Così disse, tre anni fa, lo stesso Benedetto XVI: «Ma in che cosa consiste il “potere” regale di Gesù? Non è quello dei re e dei grandi di questo mondo; è il potere divino di dare la vita eterna, di liberare dal male, di sconfiggere il dominio della morte. È il potere dell’Amore, che sa ricavare il bene dal male, intenerire un cuore indurito, portare pace nel conflitto più aspro, accendere la speranza nel buio più fitto. Questo Regno della Grazia non si impone mai, e rispetta sempre la nostra libertà. […] Ad ogni coscienza, dunque, si rende necessaria – questo sì – una scelta: chi voglio seguire? Dio o il maligno? La verità o la menzogna? Scegliere per Cristo non garantisce il successo secondo i criteri del mondo, ma assicura quella pace e quella gioia che solo Lui può dare. Lo dimostra, in ogni epoca, l’esperienza di tanti uomini e donne che, in nome di Cristo, in nome della verità e della giustizia, hanno saputo opporsi alle lusinghe dei poteri terreni con le loro diverse maschere, sino a sigillare con il martirio questa loro fedeltà».
Uno schiaffo netto a quanti forse s’illudono che “militare sotto le insegne di Cristo Re” richieda o implichi intransigenza e asprezza, corporativismo identitario e rifiuto dell’alterità; ma pure una mano tesa agli stessi, perché i “nostalgici” sono normalmente (dis-)animati da una profonda carenza di speranza, della “grande speranza”.
E non è senza una vera, profondissima (e disgraziatamente trascurata) sapienza che la Santa Chiesa propone nella Liturgia delle Ore dell’ultima settimana del Tempo Ordinario – la settimana di Cristo Re dell’universo – di aprire ciascuna delle ore di preghiera con uno stralcio di quel capolavoro della poesia religiosa medievale che è il Dies iræ.
Tommaso da Celano, cui si attribuisce generalmente l’inno, fu uno di quegli uomini cui la fedeltà a Cristo chiese e offrì la libertà di rinunciare ai grandi onori che anche la Chiesa (non solo il mondo) può offrire: per santa obbedienza Tommaso obbedì a Gregorio IX (ovvero da quel Cardinal Ugolino che aveva compreso la novità grandiosa di Francesco e si adoperò per salvaguardarla, con le opportune accortezze giuridiche, dal naufragio comune di tanti movimenti spirituali dell’XII e del XIII secolo) quando questi gli chiese di stendere una “Vita di Francesco”, e lo stesso fece successivamente per Chiara. Nel 1266 la Legenda maior di Bonaventura (scritta nel 1263) avrebbe ufficialmente sostituito la sua opera, ma di questo Tommaso non poté certo dolersi, essendo morto nel 1260, e ciò dopo aver trascorso almeno l’ultimo decennio della sua avventurosa vita nell’umile mansione di cappellano.
Melodia variabile su un ritmo immutabile: così il Dies iræ è stato musicato in gregoriano, e proprio dal variegato susseguirsi dei tempi e delle vicende nella vita di fra Tommaso dovette emergere quello sguardo mirabilmente proteso oltre il tempo, ancorato al Re di tremenda maestà / che salva nella grazia quelli che si lasciano salvare, quale al proprio unico ed eterno Re.