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Una moderna chiacchierata pasquale – I

Giorni prossimi alla Pasqua del 1444. Nella cella 35 del convento di San Marco, a Firenze, fra’ Giovanni da Fiesole (meglio noto come “il Beato Angelico”) sta ultimando un affresco. Con lui fra’ Domenico da Corella, amico e confratello.

– Frate Angelico, voi state affrescando il futuro, in questo convento!

– È questo convento che è il futuro, fra’ Domenico, e io cerco solo di conformarmi al prodigioso lavoro degli architetti; ma quante volte devo dirvi di non chiamarmi con quel nome?

– E volete incolparne me, come se fossi stato io a coniarvi questo nomignolo? Non siete stato voi stesso, piuttosto? O v’illudevate che si potessero impunemente dipingere le annunciazioni che voi dipingete, senza per questo avere a patirne un contraccolpo, foss’anche solo di fama? Tutti hanno visto le ali cangianti e scintillanti di san Gabriele, e i novizî vi consumano gli occhî sopra ogni volta che fanno le scale – fate dir loro le avemarie più lunghe della storia, fe’ mia! –, ma io le ho viste quando esse si proiettavano sulla parete a partire dai vostri occhî. Accettate dunque che io vi chiami Angelico, oppure preparatevi ad essere denunciato all’inquisizione come stregone ed eretico.

– I pennelli sono ben più pericolosi dei fasci di ceppi, concordo: con quelli si può bruciare un corpo una volta, mentre con questi si possono accendere mille e diecimila anime, e per sempre.

– Suvvia, non siate drastico: il grande Concilio da poco concluso ci lascia ben sperare per l’avvenire, e con l’aiuto della Madre di Dio presto non ci saranno più eretici e scismatici da bruciare.

– La Santa Vergine ascolti le vostre parole, fra’ Domenico, e le esaudisca, ma io non penso che questo nostro Concilio basterà a raccogliere in unità la Chiesa di Cristo, non foss’altro che neanche trent’anni fa abbiamo toccato con mano come mai prima quanto il problema non siano quelli di fuori, ma quelli che nella Chiesa ci stanno dentro. Eretici e roghi, magari senza fuoco, ce ne saranno finché il cuore dell’uomo sarà quello che è.

– Sempre pessimista, voi: c’è tanta luce nei vostri affreschi quanta ombra nel vostro cuore!

– Potrebbe essere diversamente? Mostratemi un altro scrigno da dove si possa tirar fuori la luce, e vedrò se è della stessa qualità: come vedete, non tutte le luci sono uguali, e il fuoco di un rogo non assomiglia in niente a quello da cui presto accenderemo il nuovo cero pasquale.

– Va bene, va bene, come non detto: non auguro a nessuno di trovarsi a disputare con voi, e per fortuna che non siete tipo da disputa. Comunque su questo non torno indietro: l’immortalità che vi state guadagnando con le vostre opere non ricadrà sul nome di Giovanni da Fiesole, ma su quello di Frate Angelico. Vi auguro di vivere abbastanza a lungo da vedere che ho ragione.

– Va bene, vedremo. Nel frattempo che aspettiamo, sareste così gentile da passarmi il nero? Non fatemi spostare di qui, vi prego.

– Ecco il nero, almeno la mia coscienza allenterà i rimbrotti che mi muove per il tempo che vi faccio perdere, non pago di perdere il mio soltanto. Ehi, ma perché state annerendo quell’aureola?

– Perché è quella di Giuda, no? Non v’è mai capitato di vedere Giuda segnalato così, nell’ultima cena?

– Sì, qualche volta m’è capitato, ma di solito l’aureola nera non è l’unico distintivo del traditore: c’è anche qualche animale che gli sta vicino, come un gatto o una volpe, oppure tiene in mano la borsa dei trenta danari, oppure guarda torvo fuori dalla scena… Se non dipingessi di nero la sua aureola, insomma, in questo vostro affresco nessuno dei discepoli si distinguerebbe dagli altri: di solito Giovanni è l’unico senza la barba, ma qui ci sono due figure sbarbate, e non una; ancora, ci sono due figure in cui può essere individuato Pietro, e una di queste sta giusto accanto a quella cui stai facendo l’aureola nera, ossia quella di Giuda. L’unica cosa chiara e certa è che nessuno dei dodici è da intendersi in quella figura femminile che avete fatto lì sulla sinistra. Quella è senza dubbio la Santa Vergine, e solo la sua altissima dignità può sopravanzare la debolezza del suo sesso a tal punto da renderla degna di sedere all’estremo convito del Cristo.

– Quella è la Santa Vergine, fra’ Domenico, ma perché parlate come se il suo sesso fosse stato un ostacolo cui derogare, in ordine alla sua presenza al desco del Redentore? Aveva bisogno di permessi speciali, per nutrirsi del corpo di Cristo, colei che proprio in virtù del suo sesso ha dato a Cristo un corpo che egli poi potesse offrirci in sacramento di salvezza?

– Fate dei sillogismi arditi, frate Angelico…

– A me paiono semplici fino alla banalità, fra’ Domenico, e la pensa come me anche il Santo Padre.

– Avete esposto queste teorie al Santo Padre, in occasione del suo soggiorno qui?! E che vi ha detto?

– Ma che volete che mi abbia detto? Abbiamo parlato di molte cose, col Santo Padre Eugenio, e a questa non abbiamo dedicato che una manciata di minuti. Del resto, che v’è da dire, o da obiettare?

– Sarà come dite voi, e il ragionamento pare filare, ma non ho mai sentito un Papa esprimersi così sulla Santa Vergine. Io, per me, voi sapete…

– …sareste il più contento di tutti, lo so. Ma potete esserlo, per quanto mi riguarda: che un Papa non si sia mai pronunciato in questi termini non toglie che potrebbe benissimo farlo. Solo il primo Papa, se ci parlasse, potrebbe toglierci ogni dubbio su come andarono le cose quella sera, ma se anche, a prima vista, i Santi Vangeli tacciono su questo tema – e nei racconti dell’Istituzione, la sera del Giovedì Santo, non si parla di Maria – si sa invece che ella era presente tra gli Apostoli, «concordi nella preghiera» [At 1, 14], nella prima comunità radunata dopo l’Ascensione in attesa della Pentecoste. Questa sua presenza, fra’ Domenico, non poté certo mancare nelle Celebrazioni tra i primi cristiani, che leggiamo essere stati assidui «nella frazione del pane» [At 2, 42]. Quello che voglio dire, insomma, visto che avete parlato delle ali del mio san Gabriele, è che c’è un’analogia profonda tra il fiat pronunciato da Maria alle parole dell’Angelo e l’amen che ogni fedele pronuncia quando riceve il corpo del Signore. A Maria fu chiesto di credere che colui che ella concepiva «per opera dello Spirito Santo» era il «Figlio di Dio» [cf. Lc 1, 30-35]; a noi invece viene chiesto di credere che quello stesso Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria, si rende presente con tutta la sua divinità e con tutta la sua umanità sotto i sacri segni del pane e del vino.

– Sono discorsi difficili, frate Angelico. Voi siete sicuro che certe figure così cariche di mistero, e la cui spiegazione richiede tanta scienza, siano adatte alla cella di un novizio? Voglio dire, un giovane che non abbia ancora studiato, e che forse mai studierà tanto quanto voi…

– L’Evangelo del Cristo, caro fra’ Domenico, è stato predicato dagli ignoranti e creduto dai dotti, e in questo non assomiglia a niente che si conosca. Perciò stimo che le sue verità possano sempre essere comprese, anche da chi non ha forti studî a sostegno della sua fede. Del resto, cosa sentono questi novizî tutti i giorni, quando si recano alla celebrazione del divin sacrificio? «Fate questo in memoria di me» [Lc 22, 19]. E che vuol dire, questo, se non che nelle nostre azioni, per la Grazia di Dio, viene reso presente tutto ciò che Cristo ha compiuto nella sua passione e nella sua morte?

– Sì, ma non vedo che c’entri col discorso di prima…

– Datemi tempo di arrivarci: stavo per dire che ciò non può escludere, naturalmente, ciò che Cristo ha compiuto anche verso la Madre a nostro favore. A lei infatti consegna il discepolo prediletto e, in lui, consegna ciascuno di noi.

– «Ecco tuo figlio»…

– Esatto. E ugualmente dice anche a ciascuno di noi: «Ecco tua madre» [cf. Gv 19, 26-27]. Vivere del divin sacrificio – ciò che i nostri novizî fanno di continuo – implica anche ricevere continuamente questo dono. Significa prendere con noi Maria, che ogni volta ci viene ridonata come madre, esattamente come fece Giovanni.

– Quindi è per questo che avete rappresentato due giovani sbarbati, nel vostro affresco!

– Vedete che non è così oscuro come dicevate? Del resto questo posto non è fatto per i curiosi, e io conto che i novizî che staranno in questa cella staranno davanti a questo affresco per molto più tempo di quanto ci sono stato io stesso.

– Vi sono nondimeno alcuni che penseranno che la presenza di Maria in questa rappresentazione sia inopportuna e indebita: siccome non la si riporta neanche nelle Scritture, e voi lo ricordavate poc’anzi. Sapete quanto siano state attaccate le mie odi, dove la Santa Vergine era cantata col titolo di “madre della Chiesa”?

– L’ho sentito dire, ma rincuoratevi: non vi contestano più a ragione di quanto abbiano fatto con Nostro Signore. Nessuno sano di mente vorrà cercare nelle Scritture tutti i dogmi della nostra fede, a meno che non ne cerchi le ragioni seminali, i germi, i semi: se così non facesse, dovrebbe ripudiare persino – che Dio ne scampi! – l’indivisa Trinità! Non temete, siete dalla parte della verità: Maria è la madre della Chiesa, e metterci alla sua scuola significa assumerci l’impegno di conformarci a Cristo, che da lei prese la nostra carne per portarla – tramite la passione e la croce – alla gloria della risurrezione. Ciò che è bene che i novizî si fissino bene in animo è che in ogni santa Messa, non solo e semplicemente all’ultima cena, ma in ciascuna delle nostre celebrazioni, Maria è presente. Se la Chiesa è la sola a poter celebrare la Messa, e la Messa al contempo è ciò che raduna e forma la Chiesa, lo stesso va detto della Madre di Dio e della Messa, e non a caso – l’abbiamo visto anche di recente – anche gli scismatici d’Oriente ricordano la Tuttasanta, come dicono loro, durante la celebrazione.

– Il vostro lavoro mi pare tanto più bello, a mano a mano che vi ascolto svolgerne le ragioni. Non mi fa meraviglia che Papa Eugenio vi voglia a Roma: vorrà farvi cardinale.

– E per far cosa? La porpora mi si addice meglio sulla tavolozza che sul cappello.

– Ma voi pensate che un Papa potrebbe mai dire le cose che avete detto voi ora?

– Ma caro fra’ Domenico, se un Papa non potesse dire queste cose, come sarebbe “il dolce Cristo in terra”, per dirla con la nostra venerata consorella? Quando un Papa avesse voglia di dirle, le direbbe senz’altro*, e fino ad allora non saranno comunque meno vere che se le avesse già dette. E poi ricordate una cosa.

– Che cosa?

– Che la storia non è interessata alla verità quanto alle novità. L’equivoco nasce dal fatto che i cronachisti chiamano spesso “verità” ciò che nella loro ignoranza reputano essere “novità”. Il loro mestiere è riempire almanacchi di primati, veri o presunti che siano, e se si sbagliassero forniranno a un altro di loro o a loro stessi di che scrivere per un giorno ancora. Vivono di carta e polvere, laddove la fede e l’arte vivono di verità e luce, e se qualcuno di loro capitasse in questa cella, il suo interesse sarebbe più per registrare il primato di un’ultima cena con una donna che per capire il discorso che abbiamo fatto. Se un Papa dicesse le cose che abbiamo detto, il loro interesse sarebbe più per registrare il “nuovo primato” che per scoprire quanto e come quelle cose fossero state vere da sempre.

– Frate Angelico, io temo, e penso, e spero, che a Roma vi faranno Papa, e che sarete voi stesso a dire queste cose a tutta la Chiesa.

– Stiamo parlando un po’ troppo, fra’ Domenico: centinaia di santi Padri e di venerate Madri hanno già detto tutto questo, e fino ai nostri giorni Dante, Petrarca, Giotto e Masaccio le hanno ripetute. Ma c’è soprattutto un motivo per cui io non potrei mai essere Papa!

– E qual è?!

– Che sono troppo magro per lasciare il mio vestito bianco: se vestissi di rosso come il Papa, chi mi guardasse sverrebbe per la paura.

– Beh, se voi foste il Papa potreste certamente apportare una qualche modifica nel vestiario pontificio…

– Il Papa in bianco!? Adesso, caro fra’ Domenico, stiamo veramente esagerando!

 

 

 

* In effetti il dialogo tra i due ricorda molto da vicino alcuni passaggi della Ecclesia de Eucharistia di Giovanni Paolo II (§§ 53-57 passim).

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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