Cognome materno: “Non una gentile concessione”
«Non è solo una gentile concessione alle donne o un riconoscimento dovuto alla loro dignità di procreatrici, ma anche un tratto che connota il contratto nuziale, il patto di alleanza tra marito e moglie». Così la sociologa abruzzese Giulia Paola Di Nicola, in un articolo che verrà pubblicato sul prossimo numero della rivista “Prospettiva persona”, ha definito la possibilità, ora introdotta anche in Italia, di dare ai propri figli anche il cognome materno: «Nella coppia – spiega la Di Nicola commentando questa innovazione -, ciascuno dei due non è obbligato a rinunciare al proprio cognome, ma personalmente – come accade oggi – lo conserva negli ambienti professionali e nello stesso tempo, nella sintonia di coppia, decide di assumere uno dei due cognomi come quello “famigliare”, comune a tutti i membri della famiglia, dunque non necessariamente quello paterno».
La questione del cognome, che ad un approccio superficiale può sembrare del tutto secondaria, per la studiosa influisce non poco sul costume, sulla cultura, sui modelli coniugali, sulla preferenza del figlio maschio: «Se la gente – osserva la sociologa – continua a dire e pensare “Auguri e figli maschi” è solo in parte una sopravvivenza della necessità di braccia per lavorare la terra. È soprattutto un’esigenza connaturata al desiderio di vedere nel figlio colui che continuerà la genealogia, trasmetterà il nome e il blasone del casato».
Certo, queste nuova possibilità potrà comportare un impegno burocratico significativo e qualche difficoltà in più nella ricostruzione della parentela: «Tuttavia – rassicura Giulia Paola Di Nicola -, ogni famiglia che si forma sceglie il luogo di residenza, lo stile di vita, la città. Non c’è ragione per cui non debba scegliere anche il cognome di famiglia». Secondo la studiosa, dunque, non sarebbero rari i casi in cui la scelta di comune accordo va a cadere sul cognome di lei, magari perché quello di lui è cacofonico oppure contiene evocazioni volgari. Per alcune coppie, può anche esserci il piacere di occultare un cognome che ha delle tare che potrebbero danneggiare i figli, per il fatto di ricordare l’appartenenza ad una stirpe “miserevole” o per essere appartenuto ad un criminale, o richiamarlo per assonanza».
Bisogna, infine, prendere in considerazione il caso delle madri abbandonate dal marito, che hanno dovuto crescere in solitudine i figli e che li debbono chiamare e sentirli chiamare, giorno dopo giorno, col cognome dell’autore delle loro sofferenze: «Senza contare – conclude la sociologa – che i figli stessi potrebbero, nell’età adulta, confermare la scelta dei genitori o fare una scelta diversa. Una certa elasticità in questa questione del cognome, sarebbe un riconoscimento del primato della persona rispetto all’appartenenza ad una etnia, ad un clan, ad un casato».