Il Papa, difensore della Scrittura
Potrà sembrare una banalità, ma taluni luoghi comuni hanno reso la cosa di un qualche rilievo: se si assume il papato come l’emblema del cattolicesimo romano e la Scrittura come quello del protestantesimo evangelico (profondamente anti-romano), che il primo assurga a difesa della seconda risulta perlomeno bizzarro.
Così non è, e ci sono molte ragioni che concorrono a spiegare questo fenomeno. Vorrei provare a tracciarne un bozzetto, rinunciando programmaticamente al dettaglio (alcuni di questi li ho già affrontati più volte, nella Rubrica) a vantaggio della sintesi.
Partiamo dall’oggi, ossia dall’11 settembre scorso: il Papa riceve i delegati dell’Associazione Biblica Italiana e dice che «oltre alla competenza accademica, all’esegeta cattolico è richiesta anche e soprattutto la fede, ricevuta e condivisa con tutto il popolo credente, che nella sua totalità non può sbagliare». Mentre lo faceva aveva la prudenza di circondare questa affermazione di autorità considerevoli (documenti della Pontificia Commissione Biblica, S. Giovanni Paolo II…), proprio perché sapeva quanto l’affermazione centrale della frase fosse tutt’altro che pacifica (almeno in quel contesto).
Paradossalmente, infatti, le facoltà pontificie sono piene di professori (e di tutto rispetto) che non perdono occasione di ribadire come la fede non sia necessaria per fare esegesi biblica. Fare esegesi della Bibbia sarebbe, secondo costoro, né più né meno (né altro, in sostanza) che fare critica dell’Iliade, del De bello gallico o delle tavolette di Ugarit.
Uno stridore risuona nelle “pie orecchie”, a queste parole, e che queste siano le posizioni di numerosi professoroni (cattolici!) è tanto più strano se si considera che Lutero stesso, padre del libero esame della Scrittura in epoca moderna, non oserebbe mai dire che la Scrittura sarebbe in alcun senso intelligibile al di qua di uno sguardo credente. I cattolici, dal canto loro, hanno avuto spesso la colpa generale di considerare la “sacra dottrina” (ossia la teologia) come una disciplina a sé, formalmente e sostanzialmente autonoma, che nelle Scritture non poteva trovare in fondo che qualche puntello alle proprie teorie (a volte elaborate per via perfino totalmente deduttiva). Le Scritture, da parte loro, rappresentavano più spesso un’insidia per quell’aureo sistema dottrinale che non un’opportunità – quasi mai erano concepite (salvo luminose eccezioni) come il suo fondamento, e tale è invece il ruolo che la Costituzione Dogmatica “Dei Verbum” le riconosce.
Ma se al tempo della Riforma i protestanti ritenevano assolutamente impossibile accedere alla Scrittura senza un previo e fondamentale atto di fede, e i cattolici ritenevano perlopiù superfluo accedervi, laddove fosse già stato (in qualche modo) formulato un atto di fede, come si è arrivati alla situazione per cui il Papa trovi opportuno ribadire a degli esegeti cattolici che la fede è condizione necessaria per comprendere adeguatamente la Scrittura?
In effetti le cose erano cambiate “nel frattempo”, ovvero tra il XVII e il XVIII secolo: nell’età dei lumi la crescita ipertrofica del positivismo nelle scienze c.d. esatte aveva messo come in imbarazzo tutti gli umanisti, per l’approssimazione e l’indeterminabilità dei loro metodi. Tra gli umanisti, poi, i più imbarazzati di tutti erano i teologi, che avevano tra le mani un “mestiere” la cui materia prima (ossia la Rivelazione di Dio) era denunciata come “inesistente” da più parti. Fu dunque comprensibile che la soluzione più facile che sia loro venuta in mente sia stata un’acuta pretesa di autosufficienza di fronte alle esigenze della fede. In sostanza, gli esegeti cercarono di convincere tutti gli accademici del mondo (a partire, ovviamente, da loro stessi) del fatto che l’esegesi biblica sarebbe anch’essa una scienza c.d. esatta.
Questo principalmente da parte protestante. E i cattolici? Una volta stemperati gli eccessi del XVI secolo e comprese le ragioni dei riformatori (quando il Concilio di Trento ebbe chiaramente definito gli errori, fu più facile recuperare ciò che sbagliato non era), essi si erano dati a recuperare il tempo e il terreno perduti nei confronti delle grandi e prestigiose università tedesche protestanti. Naturalmente, dunque, incorporarono nei loro confronti quello stesso inconfessabile complesso d’inferiorità che quelli provavano nei confronti del mondo moderno (mondo rimasto perlopiù “lontano” da Roma, almeno fino a che le bombarde dei Piemontesi non sventrarono Porta Pia).
I complessi di colpa dei cattolici e dei protestanti, benché nati da confronti diversi, si spalleggiarono l’un l’altro, e per tutto il XIX secolo e parte del XX essi si diedero vicendevole man forte nel ripetersi di essere nel giusto e di avere ragione. Frattanto su più fronti le scienze bibliche arrivavano come a dei punti morti, e non riuscivano a dare ragione delle motivazioni più profonde che animavano i testi e la loro trasmissione. Era un po’ come nella favoletta del re nudo, in cui più o meno tutti si rendevano conto del problema ma nessuno voleva dar mostra di non partecipare più dell’allucinazione generale dicendo una cosa così ovvia come quella che era sotto lo sguardo di tutti.
Senza entrare nel dettaglio, possiamo dire che un lungo movimento preparò pazientemente la Dei Verbum del Vaticano II, e che i suoi semi furono messi a frutto da più parti, soprattutto però fuori dal settore degli specialisti dell’esegesi. Accadde così che alcuni “bambini” si misero a osservare ingenuamente che “il Re è nudo”, e uno di questi fu il cardinal Ratzinger (ad esempio nel 1988 tenne a New York una storica lectio dal titolo “Biblical interpretation in crisis”). Da un lato dunque sempre più spesso si osservava che l’esegesi non poteva pretendersi indipendente dalla precomprensione ermeneutica dell’esegeta (che include in primo luogo la sua fede), dall’altro continuavano (e continuano) a esserci professoroni di sacra Scrittura ancora succubi dell’antico duplice senso d’inferiorità “maturato” nei secoli scorsi.
E poi un giorno, come abbiamo visto, Francesco riceve nella Sala Clementina in Vaticano l’Associazione Biblica Italiana e va a dire che la fede, nell’esegeta cattolico, “è richiesta”. Non solo, egli ha pure ricordato che questa fede non è un fatto individuale dell’esegeta, ma che egli la riceve e la condivide con il popolo credente (ossia con la Chiesa). La fede la dà Dio, ma nessuno la riceve senza mediazioni e senza un investimento: essa dunque viene mediante il popolo di Dio e per quello stesso popolo. Quello, anzitutto (ossia la Chiesa), è garantito dall’errore: Dio non permette che il suo popolo si perda, e ciò ha una ripercussione diretta sull’interezza e sull’esattezza della Rivelazione divina, nonché sulla sua trasmissione e sulla sua interpretazione. Queste cose è andato a dire Francesco agli esegeti (chiaramente le ha dette per tutti i cristiani). Non che sia stato il primo a farlo, ma c’è da sperare che a forza di ripetizioni certi antichi complessi vengano risolti.
Giovanni, come stai ?… Devo ammettere che questo è un articolo interessante…
Non c’è male, grazie. E tu?
Lieto che questo pezzo abbia riscontrato il tuo interesse: l’ho voluto trattare molto rapidamente, ma quello è un argomento su cui non manco mai di cogliere richiami come quello del Santo Padre.