Guerra, terrorismo e politica dietro il dramma dei migranti in fuga
"I migranti che incontriamo noi fotoreporter - racconta Astrid Pannullo, fotoreporter - ci raccontano che nei loro Paesi avevano incontrato la morte certa mentre il mare, anche se non lo conoscevano o se erano incapaci di nuotare, anche se attraversato a bordo di un barchino, rappresentava la speranza davanti al buio della morte"
«Non si può continuare a considerare come attore internazionale un presidente con le mani sporche di sangue, come quello siriano Assad, che bombarda il proprio popolo con armi non convenzionali e contrarie alla Convenzione di Ginevra. Queste sono cose che non possono essere accettate e che poi scatenano delle dinamiche migratorie tali che, ovviamente, le madri siano disposte a mettere i propri figli nelle mani di trafficanti, pur di provare a metterli in salvo».
Lo ha affermato lo scorso sabato Astrid Pannullo, fotoreporter di guerra e giornalista freelance, intervenuta al convegno dal titolo “Dentro la migrazione. Persone: uno sguardo senza pregiudizi”, organizzato dalla Caritas diocesana di Pescara-Penne in apertura della Festa dei popoli 2015 e svoltosi presso il padiglione espositivo del Porto turistico Marina di Pescara. Gli interventi, curati da relatori di spessore, sono stati moderati dal responsabile dell’Ufficio Immigrazione di Caritas Italiana, Oliviero Forti: «È stata questa – precisa il dirigente Caritas – un’occasione per fare chiarezza su chi e cosa c’è dietro il barcone di migranti che approda sulle nostre coste. Un fenomeno, quello migratorio, complesso che spesso non si presta ad una comunicazione corretta da parte dei media».
Per questo il convegno ha indagato, a monte del fenomeno migratorio, le cause anche remote che spingono milioni di persone a lasciare Paesi, come la Siria o l’Iraq, ormai allo sbando e incapaci di garantire la sicurezza del loro popolo: «Quella della Siria – denuncia Amedeo Ricucci, giornalista ed inviato di guerra Rai – è la più grave emergenza umanitaria dalla seconda Guerra mondiale ad oggi, con 6 milioni di profughi siriani che vivono nei campi di Giordania, Libano e Turchia, mentre altri 4-5 milioni di sfollati vivono ancora all’interno della Siria e un siriano su due vive le conseguenze di una guerra civile entrata nel suo quinto anno, nella totale indifferenza di tutti».
Una guerra civile che è stata l’evoluzione peggiore, di quella che era nata per essere la rivolta democratica di un popolo contro il suo tiranno: «Io – osserva Ricucci – dico sempre, con affetto, che il popolo siriano è stato un popolo “sfigato” nel senso che ha pagato il prezzo di un guerra stolta, fatta in Libia dalle potenze occidentali, e di un andamento caracollante delle primavere arabe che si sono succedute in quell’area. Ciò ha frenato l’entusiasmo con cui l’Occidente, all’inizio, aveva salutato quella che era stata una rivolta di popolo. Mi ostino a dirlo: la propaganda del “macellaio” Assad tende a farlo dimenticare, ma in Siria un popolo intero si è rivoltato contro il suo dittatore. Per un anno e mezzo, un popolo intero è sceso in piazza inerme, senza armi, e le milizie di Assad sparavano alle spalle della gente, costringendo i siriani ad imbracciare le armi».
Tutto questo, dunque, ha innescato la guerra civile che, nel tempo, ha visto il moltiplicarsi degli attori protagonisti: «Attori – sottolinea l’inviato di guerra della Rai – tra cui spicca l’Isis, sulla cui entrata in azione un peso enorme è da attribuire ai Servizi segreti di Assad. Così, l’ingresso in campo dell’Isis ha offuscato le ragioni della rivoluzione siriana, tant’è che adesso qualunque combattente abbia in mano un kalashnikov, magari per difendere la propria famiglia o la propria casa, viene scambiato per un terrorista. Anzi, attualmente questa equazione è stata estesa e ora ogni musulmano è considerato un terrorista».
Insomma, uno degli aspetti più perversi dell’ascesa dell’Isis in Medio Oriente, sembra essere proprio quello di aver occultato la tragedia siriana: «Di aver sequestrato – continua Amedeo Ricucci – le ragioni della rivoluzione, oltre che di aver creato una situazione molto più complessa da cui dipende la nostra guerra al terrorismo islamico».
Una guerra, quest’ultima, che sembra impossibile vincere sul campo di battaglia: «Invece – rilancia Ricucci – si vince dando soddisfazione ai sunniti iracheni emarginati, per colpa degli Stati Uniti, dal processo di ricostruzione post Saddam Hussein e la guerra al terrorismo si vince dando soddisfazione alla stragrande maggioranza del popolo siriano, che si è rivoltato contro un regime che ha le mani macchiate di sangue e che sta massacrando il suo popolo, pur di restare al potere».
È dunque una battaglia tutta politica quella che, oltre alla guerra al terrorismo, potrebbe vincere anche le drammatiche ragioni umanitarie che spingono milioni di persone a fuggire, attraverso il mare, verso le coste italiane.
Ma, al di là di tutto, appare evidente che senza un accordo politico è impossibile vincere la battaglia contro il terrorismo e la violenza sugli innocenti: «L’Isis – rileva il professor Alessandro Politi, analista politico e strategico -, come tutti terrorismi, è un problema vecchio e non si risolve con l’azione di Polizia, Servizi segreti e magistratura, ma tramite un accordo politico. Perché queste figure, al di là della loro definizione, in realtà non sono affatto interessate a “terrorizzare” la popolazione: del resto, la gente inizialmente si dispera, piange i suoi morti, ma poi va avanti. I terroristi sono un modo debole di fare politica, che vuole instaurare un dialogo con chi sta al potere».
È questa, dunque, la dinamica perversa esistente tra terrorismo e autorità: «Anche Al qaeda – ricorda Politi – esiste da un pezzo, fin dal 1988-89, dal termine della guerra afghana con l’invasione sovietica. Questa gente, ha avuto un quarto di secolo per sviluppare un’ideologia che usa la religione per fare politica. Poi, quando improvvisamente a morire non erano più gli afghani di laggiù, ma gli occidentali di quaggiù ci siamo accorti del problema».
E anche i cosiddetti “foreign fighters”, combattenti stranieri che si spostano da un focolaio all’altro, sono esistiti da sempre: «Garibaldi – denota l’analista politico – era un “foreign fighters”, solamente che i suoi ideali erano altri ed erano più presentabili per noi. È normale che quando ci sono grandi sconvolgimenti politici e davanti ad un’idea che faccia presa, ci siano dei militari che vaghino da un fronte all’altro. Fa parte di questo tipo di fenomeni vecchi, riacutizzati con la guerra civile siriana e con l’incapacità del nuovo governo iracheno di fare la cosa più semplice che andava fatta: tirare dento le grandi famiglie sunnite nella ricostruzione del Paese».
Invece è sopraggiunta l’occupazione statunitense: «Così – denuncia Alessandro Politi – Al qaeda, da cui deriva anche l’Isis, ha cominciato a mettere bombe, ad uccidere. E qui arrivano le interferenze straniere, i soldi dall’estero, i combattenti stranieri: se la casa è divisa, è chiaro che ognuno ci mette il becco o il kalashnikov».
E da qui anche il dramma di milioni di civili innocenti e inermi, costretti a fuggire anche a costo di rischiare attraversando il Mediterraneo: «I migranti che incontriamo noi fotoreporter – ribadisce Astrid Pannullo – ci raccontano che nei loro Paesi avevano incontrato la morte certa mentre il mare, anche se non lo conoscevano o se erano incapaci di nuotare, anche se attraversato a bordo di un barchino, rappresentava la speranza davanti al buio della morte».
E i migranti che sopravvivano alle traversare in mare a giungono in Italia, spesso, non sono molto più fortunati: «In un località pugliese – racconta Stefano Schirato, fotoreporter pescarese – c’è un ghetto, soprannominato “ghetto nero”, dove gli immigrati raccolgono i pomodori e vivono in delle baracche che definirle tali è un eufemismo. Io ho passato del tempo con loro, ho mangiato con loro e ho respirato l’odore maleodorante dei topi che traspirava in quel luogo. Una situazione, questa, emblematica nel delineare in quali condizioni vivano, spesso, gli immigrati che arrivano da noi cercando un lasciapassare per restare».